Luca Miele – Il vangelo secondo Bruce Springsteen

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«Per narrare il rapporto conflittuale tra padri e figli, Springsteen ritorna a Adamo e Caino (Adam Raised a Cain). Per raccontare l’irreparabilità della perdita, “una distanza che non può essere colmata”, si rifà alla solitudine di Gesù al Calvario (Jesus Was an Only Son). Per cantare la ferita del dolore ricorre alla simbologia della Croce (I’ll Work for Your Love). Per contrapporsi al disgregarsi della comunità, fa riecheggiare l’invito evangelico ad “amarsi uno con l’altro” (Jack of All Trades)». 
Luca Miele

L’intera produzione di Bruce Springsteen è punteggiata, attraversata, nutrita da simboli e figure religiose. Un rapporto, quello tra il cantante di Born in the U.S.A. e la fede, mai pacificato, sempre conflittuale, controverso, spigoloso, aperto. Mediata dal patrimonio degli spirituals – che Springsteen riattualizza nell’esperienza di The Seeger Sessions –, la Bibbia costituisce una sorta di pretesto a cui il cantante si appoggia per costruire la sua (formidabile) narrazione americana. 

Fede, speranza, risurrezione sono le parole chiavi del “vocabolario” del rocker americano. Un vocabolario che non disconosce la tragedia, la violenza, il male, ma li trasfigura nell’impegno, nell’attesa, nella tensione escatologica. Nella certezza che «un nuovo giorno sta nascendo» (Rocky Ground).

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Nel nome del padre

In the Bible Cain slew Abel And East of Eden he was cast, You’re born into this life paying, for the sins of somebody else’s past, Daddy worked his whole life, for nothing but the pain, Now he walks these empty rooms, looking for something to blame, You inherit the sins, you inherit the flames Adam raised a Cain (Adam Raised a Cain)

My father’s house shines hard and bright it stands like a beacon calling me in the night Calling and calling so cold and alone Shining cross this dark highway where our sins lie unatoned (My Father’s House)

C’è una figura che torreggia nelle pagine di Born to Run, la sorprendente – per la ricchezza espressionista dei racconti, per una scrittura che sa essere fluida e fortemente evocativa, soprattutto quando indugia nelle vite degli “antenati” italiani e irlandesi – autobiografia di Springsteen, uscita nel settembre 2016. Più ancora dell’ascetica (e maniacale) dedizione alla musica del Boss, più ancora dei fasti planetari e delle cadute “private” di cui è intessuta la vita del rocker americano, più ancora del mondo musicale a stelle e strisce che Springsteen restituisce in tutta la sua ammaliante potenza. Quella figura – austera, inamovibile, astiosa, sorta di “Buddha” operaio arenato nella cucina di casa – è il padre. Tutto Born to Run è una lotta, con e contro il padre. Una lotta per sfuggire alla presa della figura paterna – e al demone che lo possedeva – da parte del giovane Springsteen. «Avevo percepito la forza distruttrice delle tenebre incarnata nel mio sventurato papà […] la minaccia fisica, il caos emotivo e il potere di non amare». «Lui teneva la famiglia sotto controllo stando seduto in silenzio […] a fumare. La rabbia si accumulava fino a esplodere, poi annegava nella birra e in un silenzio monacale. Era un campo minato, la casa piena della micidiale quiete di una zona di guerra, e noi a camminare in punta di piedi, aspettando […] aspettando […] la detonazione che sarebbe arrivata era sicuro, solo non sapevamo quando». Una lotta per la riconciliazione con il padre, dello Springsteen maturo. Una lotta con la paura che la malattia – la depressione – si infiltrasse nella sua esistenza, come un retaggio inaggirabile, una maledizione, un marchio (il marchio di Caino?) a cui non ci si può sottrarre, nello Springsteen a sua volta padre. Una lotta, infine, con la morte del padre e per trasformare «i fantasmi che ti perseguitano in progenitori che ti accompagnano». «Prima che spirasse, esaminai attentamente il corpo di mio padre. Era il corpo della sua generazione. Non era lustro né forgiato in un’armatura: un semplice uomo. Chino sul suo letto di morte, guardai i radi ricci neri e l’attaccatura alta che oggi vedo allo specchio. Il volto scontroso e chiazzato, il collo taurino, spalle e braccia ancora muscolose, l’incavo tra il petto e la pancia etilica, semicoperta da un lenzuolo bianco spiegazzato, dal quale sporgono i polpacci pachidermici e due piedi come clave, rossi, gialli, rovinati dalla psoriasi. Scolpiti nella pietra, non hanno più strada da fare. Sono i piedi del mio nemico, del mio eroe».

È forse il punto più denso e doloroso della scrittura – autobiografica e musicale – del rocker, nel quale il vissuto personale, le ferite, le lacerazioni, le lesioni incrociano la trasfigurazione poetica, come testimoniano i tanti brani dedicati al tema del rapporto tra padri e figli. Dalla furiosa (e biblica) Adam Raised a Cain al trittico presente nell’album NebraskaMy Father’s House, Used Car, Mansion on the Hill, passando per la nostalgica Independence Day. Ma il filo delle canzoni sul padre – come vedremo – non si spezzerà mai nella musica di Springsteen, tornando – con accenti rovesciati – nella produzione adulta, in uno sguardo nuovo del cantante, diventato a sua volta padre. Nel libro, Springsteen non risparmia (e si risparmia) verità scabrose. In quella che sembra, ed è, una lunga sofferta seduta psicoanalitica – spiazzante, a tratti feroce, spesso demitizzante – l’autore di Born to Run alza il velo sul «pozzo emotivo» della sofferenza. Niente mascheramenti. Pochissima autoindulgenza. Disciplina, molta e feroce. Quello che colpisce nello scrittore Springsteen è la capacità di centrare i “buchi neri” della propria esistenza. L’ossessione per il tempo. «Sul lavoro potevo fare casino, ma ero comunque in grado di accollarmi qualsiasi responsabilità. Nella vita, invece, non trovavo altro che un presente sgradevole, un futuro troppo limitato, un passato che stavo cercando di affrontare con le mie canzoni ma dal quale volevo anche fuggire e poi il tempo… tic… tac… tic… tac… il tempo. Non avevo tempo per il tempo, preferivo il meraviglioso mondo atemporale che avevo costruito dentro la mia testa e dentro lo studio! Oppure sul palco, dove il tempo io lo domino, lo allungo, lo accorcio, avanti e indietro, lo accelero e lo rallento, il tutto con un cenno della spalla e un colpo di rullante». La malia della strada: «Meno viaggiavo, più la realtà diventava ineluttabile. Fino a quel momento, ero ricorso a un espediente infallibile: scrivi, registra e parti. La strada era il mio scudo fidato contro la verità. Il fulmine non può centrare un bersaglio mobile, al massimo ti lascia una cicatrice e tanti saluti. La strada era una copertura perfetta, la garanzia di un distacco transitorio. Sali sul palco, la serata culmina in un allegro macello psicosessuale, risate, estasi e beatitudine sudata, e poi via verso nuovi volti e nuove città. Suonare mi offriva l’illusione di un’intimità senza rischio né conseguenze». L’oscillazione tra l’esaltazione della musica – il roboante successo, le folle oceaniche, il consenso unanime – e il ritorno anestetizzante a casa. L’incapacità di amare: «Le persone che imitiamo sono quelle il cui amore non siamo riusciti a conquistare. È rischioso, però ci fa sentire vicini a loro, dandoci l’illusione di un’intimità mai esistita». «Volevo distruggere chi mi amava perché non sopportavo di essere amato», confessa.

Nelle pagine di Born to Run è custodita forse la più potente e impietosa demolizione del mito Springsteen per opera dello stesso Springsteen. Quello che viene fatto a pezzi è il “santino” del cantore dell’America proletaria, secondo lo stereotipo più ostinato, attaccato come una seconda pelle, al rocker di Born in the U.S.A. Come il protagonista di The Long Goodbye, il cantante impugna il martello per distruggere la sua immagine pubblica: «Sono un riparatore: il mio lavoro è anche questo. E così io, che mai avevo fatto una settimana di lavoro manuale in vita mia, indossai l’uniforme da operaio, gli abiti di mio padre, e mi misi all’opera». Persino l’immagine muscolare, che tanta parte avrà nell’esplosione della popolarità del Boss negli anni Ottanta – come non ricordare l’immagine teatralizzata con cui Springsteen appariva sul palco del suo tour di maggior successo, indossando gli abiti e le fattezze dell’uomo che porta la guerra dentro di sé –, è nata dalla volontà di offrire al padre «la presenza fisica che cercava». Come accade spesso anche nelle sue canzoni, in Born to Run irrompe la narrazione onirica. Springsteen racconta i suoi sogni. Tracce inoppugnabili del continuo lavoro psicanalitico. In uno – racconta – è sul palco. A suonare. Il padre siede nel pubblico. Nel sogno si compie uno sdoppiamento: il figlio Springsteen si affianca al padre mentre insieme guardano il cantante Springsteen in una delle sue consuete, torrenziali, energiche, travolgenti esibizioni. «Gli tocco l’avambraccio, quindi dico a mio padre, paralizzato dalla depressione per tanti anni: “Guarda, papà, guarda quello là sei tu, è così che ti vedo”».

L’intera produzione di Springsteen è un corpo a corpo con la figura del padre, è attraversata dal fantasma del padre, è segnata dalla ricerca del padre, turbata dalla sua impossibilità, dalla sua assenza, si svolge sotto lo sguardo del padre, è punta dal desiderio – impossibile – del suo riscatto.

Un confronto che inizia nel mondo oscuro di Darkness on the Edge of Town (1978), quarto album in studio di Springsteen. Il distacco dall’album Born to Run, pubblicato tre anni prima, è netto. Lì riecheggiava qualcosa di sontuoso e innocente che partiva con Thunder Road, rimbalzava nel movimento di She’s the One, erompeva nel sax dolente e magnifico di Jungleland. Tutto il disco era intriso, suggeriva, testimoniava, spingeva al movimento, era un canto dedicato al movimento incessante e alle sue possibilità “redentive”. Si apriva con la promessa di un movimento, di un viaggio («questa è una città piena zeppa di perdenti», Thunder Road), aveva il sapore dell’avventura (Tenth Avenue FreezeOut), dell’azzardo, dell’evasione, della promessa («sulle strade fino alla fine», Backstreets), della sfida («I vagabondi come noi sono nati per correre», Born to Run). In Darkness on the Edge of Town le architetture compositive sono più rarefatte, le atmosfere più cupe, desolanti. Al pianoforte lussureggiante, che dominava Born to Run, succede una chitarra livida, rancorosa. La voce di Springsteen è rabbiosa. Basta ascoltare Adam Raised a Cain e siamo catapultati in un mondo diverso, alieno. Springsteen attinge dalla Bibbia per cantare il conflitto che incendia la casa: la casa non sembra poter contenere il padre e il figlio («lui era in piedi sulla porta / io stavo fermo sotto la pioggia»1). Quello che si apre è un capitolo della produzione del Boss che ossessionerà a lungo la sua scrittura – «molte delle mie canzoni hanno a che fare con l’ossessione del peccato», noterà lo stesso Springsteen –: è un luogo denso di figure, di immagini, di echi religiosi. Dentro questo territorio il padre sfuma, si confonde nel Padre. Ma entrambe le ricerche – la riconciliazione con il padre (terreno), l’apertura a una dimensione “altra” – avvengono nello scacco dell’impossibilità.

Non a caso Adam Raised a Cain si apre con la scena di un battesimo. Ma è un battesimo che fallisce. Nessun lavacro, nessuna purificazione si compie. Le colpe, che stringono in un’unica morsa padre e figlio, non vengono cancellate. «Eravamo prigionieri dell’amore / un amore in catene». La catena che unisce padre e figlio è conficcata come una condanna, un retaggio al quale è impossibile sfuggire: a veicolarla è «lo stesso sangue caldo che brucia nelle vene». Il fuoco – il peccato, il segno della perdizione, il marchio di Caino – scorre in tutto il brano, in una sorta di rovesciamento del testosenso biblico. Il “padre” non assicura la salvezza, dietro di lui non si intravede l’ombra di Abramo che alla fine, udita la parola di Dio, risparmia Isacco. Il padre, nel brano di Springsteen, trasmette il peccato. La catena dell’amore è la catena del peccato che si trasmette di padre in figlio. Il marchio di Caino è un peccato tanto più tremendo perché senza volto, inconoscibile, inespiabile.

Nella Bibbia Caino ammazzò Abele e fu scacciato dall’Eden
Sei nato in questa vita pagando
per i peccati del passato di qualcun altro

1 Anche in Independence Day (1980), la casa non può contenere il padre e il figlio. La celebrazione dell’indipendenza passa per la lacerazione del rapporto tra padre e figlio. La canzone narra il congedo, la separazione ineluttabile.

Papà ha lavorato per tutta la sua vita per niente altro che dolore Ora cammina per queste stanze vuote cercando qualcosa da maledire Tu erediti i peccati, erediti le fiamme Adamo ha cresciuto un Caino.

Quella che si consuma qui è la degenerazione, la rottura del legame di generazione. Siamo dinanzi al nucleo incandescente che Springsteen costeggerà a lungo nella sua produzione e che solo negli album della maturità troverà una misura, nuova, altra, adulta. Pacificata. Il conflitto con il padre incorpora, si estende al lavoro, il luogo simbolico per eccellenza dei padri. Il lavoro per Springsteen è maledizione, morte, disidentità. È qualcosa che schiaccia e incatena con violenza la vita dei padri (alla colpa, come in Adam Raised a Cain), che condanna alla ripetizione (Youngstown), all’oppressione della fabbrica (Factory), a una vita di seconda mano (Used Cars).

In Factory il padre è recluso, non più di una casa come accadeva in Adam Raised a Cain, ma nella fabbrica. La sua vita è scandita dall’urlo feroce della sirena. Nella versione live, l’attacco del brano è preceduto da un colpo secco di batteria che sembra riprodurre/richiamare il rumore delle chiavi che chiudono le sbarre di una prigione. Compaiono in Factory due parole mansion (posto, luogo) e gates (cancelli) che ritroveremo. Gli uomini si consegnano al lavoro attraverso luoghi (mansions) di dolore, luoghi (mansions) di paura. Gli uomini escono dalla fabbrica «con la morte negli occhi». È un mondo che non concede scampo. Se in Darkness on the Edge of Town la vita adulta sembra essere totalmente requisita dal lavoro, e dalla sua alienazione, nell’album Nebraska (1982) si avverte uno smottamento, uno spostamento. La vita dei padri non si identifica più, non è più schiacciata dalla fabbrica. Un desiderio nuovo si incunea nel tessuto delle esistenze dei personaggi di Springsteen, la fende, la semina, la apre a una nuova dimensione. Non è un caso allora che in due brani di Nebraska prorompa l’invocazione alla salvezza. Il fuggiasco di State Trooper, l’uomo al volante di Open All Night, mentre viaggiano nella notte, nell’indistinto, mentre sentono la loro identità minacciata, mentre avvertono il crollo imminente, alzano la loro preghiera. Il «Tu» invocato non è però Dio, ma in un caso il rock, nell’altro un Mr Deejay: è insomma affidata alla musica e non alla trascendenza l’unica speranza di salvezza, di essere tratti fuori dal «nulla».