L’io corrotto: l’avarizia

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Intervento di P. Arnaldo Pigna nel Ritiro mensile sui vizi dell’avarizia e della lussuria, che si è svolto il 9 marzo 2024.

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L’AVARIZIA

L’avarizia è una passione disordinata che nasce da una relazione distorta con le cose e si manifesta come bisogno impellente, quasi compulsivo, di avere e di accumulare. Il possesso è sentito «come necessità assoluta, e tutto è predisposto per giungere a tale scopo, senza tenere conto di alcun limite. Si ama il denaro, lo si accumula, e l’accumulo aumenta il bisogno e la brama per il denaro: più si ha e più si vorrebbe avere, senza riuscire a fermarsi perché l’accumulare piace. Avarizia e avidità derivano dallo stesso attaccamento passionale ossessivo ai beni materiali, e procedono di pari passo.

Certo, l’uomo, per essere, ha bisogno dell’avere; il desiderio di possedere fa, dunque, parte delle inclinazioni naturali, ed è di per sé legittimo. La ricchezza materiale, pertanto, non è sbagliata in se stessa, come non è sbagliato essere previdenti e risparmiare, anzi, è saggio e prudente. Ma l’avarizia è totale deformazione di tutto questo.

Il problema consiste nel desiderare e nel volere cose e denaro “da sé” e “per sé”, trasformandole da mezzo relativo a fine assoluto e cancellandone totalmente la dimensione di gratuità, di dono e di servizio. La finalità del denaro e dei beni materiali è quella di essere utilizzati per soddisfare i bisogni relativi alla sussistenza; essi sono utili nella misura in cui essi giovano all’uomo, gli permettono di camminare e giungere al suo fine ultimo. Ma diventano dannosi e si commette peccato quando si va oltremisura lasciando libero sfogo al desiderio smodato di possedere e alla disordinata cupidigia, fino a sconvolgere totalmente il significato e lo scopo dei beni mondani e a diventarne schiavi. Per il suo attaccamento spasmodico al danaro, unito all’avidità e alla spilorceria, l’avaro arriva fino al punto di soffrire la fame pur di mantenere il suo “tesoro”, ed è tanto avido di aumentarlo da rischiare la vita o, comunque, compromettere ogni forma di dignità.

Ironicamente il poeta romanesco Carlo Alberto Salustri (Trilussa +1950) così descrive l’avarizia sotto le spoglie di un vecchio ricco:

“Ho conosciuto un vecchio / ricco, ma avaro: avaro a un punto tale / che guarda li quatrini ne lo specchio / pe’ vede raddoppiato er capitale. / Allora dice: Quelli li do via / perché ce faccio la beneficenza; / ma questi me li tengo per prudenza… E li ripone ne la scrivania”.

Tutto preso dalla possibilità e dalla preoccupazione di accumulare denaro e cose, che conserva e possiede solo per sé, e solo per il gusto di possedere, l’avaro si trattiene anche dall’usarne. “L’avaro è uno che soffre la povertà per paura della povertà”, dice s. Bernardo. Ponendo il cuore e la mente in cose materiali, smarrisce il fine della propria vita, perdendo così libertà e dignità, talvolta anche la vita.

E’ vero che ricercare e possedere le cose è una tensione dell’uomo, perché ne ha bisogno, ma è altrettanto e soprattutto vero che il possesso non può essere l’unico criterio per la valutazione di una persona. E’ assolutamente falso credere che l’uomo è per quello che ha, che poi porterebbe a concludere che l’uomo è quello che ha e ridurlo a un cumulo di cose. L’uomo vale per quello che è, non per quello che ha. Pertanto si è di fronte a un problema gravissimo quando sono il denaro o i beni a possederci e a ossessionarci, cioè quando si dà loro valore per se stessi, e si considera il loro accumulo, possesso e conservazione il valore supremo e, dunque, la ragione di vita. Nella illusione di trovare in essi la propria sicurezza e la propria felicità.

Gesù mette bene in guardia contro un simile atteggiamento nella parabola evangelica dell’uomo ricco, la cui campagna aveva dato un raccolto abbondante nel quale porre tutta la sua fiducia per il futuro (Lc 12,19-21).

Quell’uomo è rinchiuso in un destino di solitudine egocentrica, perché la cupidigia «toglie di mezzo chi ne è dominato» (Pr 1,19), cioè lo segrega dall’ordinato vivere umano, impedendogli di vivere bene. Il suo cuore, è schiavo della cupidigia e di un’irrefrenabile avidità, è già morto prima ancora di morire perché attaccato e tutto riempito di cose morte.

Il Siracide così dipinge l’amara esistenza dell’avido, avvolta dall’inquietudine e insidiata dalla rovina: L’insonnia del ricco consuma il corpo, i suoi affanni gli tolgono il sonno. Le preoccupazioni dell’insonnia non lasciano dormire, come una grave malattia bandiscono il sonno (Sir 31,1-2).

«Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34), afferma Gesù. L’avaro rivela angoscia per la povertà e la morte, per cui l’avarizia è un continuo vivere nella miseria, per paura della miseria. Paradossalmente è una vita di stenti e di preoccupazioni per chi potrebbe, invece, concedersi gioie e piaceri!

Per l’avaro l’avere è divenuto il suo essere ed avendo assimilato la vita con i suoi beni, la prospettiva di poterli perdere è, per lui, prospettiva di morte. Per cui cerca di esorcizzarla accumulando, ma non può liberarsi da quell’incubo perché non può ignorare che essa è sempre inesorabilmente in agguato.

L’altra faccia della medaglia dell’avarizia – vale a dire il suo eccesso opposto – è costituita dalla prodigalità, nel senso di spreco e di dilapidazione dei beni di cui si dispone. Anche questa deformazione è largamente presente nel mondo attuale dove i ricchi sperperano ciò di cui molti avrebbero bisogno per sopravvivere.

Cristo ha presentato come modello negativo colui che si è macchiato di tale colpa («Raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto»: Lc 15,13), dedicandogli una delle parabole più note, e se n’è servito per ricordarci la magnanimità del perdono divino.

In realtà il prodigo, cioè chi dilapida i beni che ha ricevuto in sorte o che si è conquistato, non è diverso dal goloso: egli, infatti, trae piacere dall’eccesso di un consumo che, se contenuto, potrebbe considerarsi apprezzabile, ma che, esagerato, porta alla dissoluzione.

Da quanto detto risulta che l’avarizia costituisce un grave peccato, anzi, in un certo senso, un compendio di tanti peccati. Infatti, ponendo nei beni materiali il proprio cuore, l’avaro lo sottrae allo spazio vero dell’amore, cioè dell’incontro e della comunione con gli altri. Si rifiuta di legarsi all’altro perché non ama nemmeno se stesso, ma solamente ciò che accumula. Un cuore colmo e posseduto dal danaro non ha posto per pensare ed accogliere gli altri.

Quindi l’avarizia non è un male qualunque, ma è uno dei peggiori essendo abuso e uso distorto di una realtà che maggiormente condiziona l’esistenza umana, cioè il denaro come espressione dei beni materiali che sono mezzo necessario per vivere dignitosamente e per stabilire rapporti di convivenza e solidarietà.

Brama senza fondo, desiderio di rapina senza confine, tensione che mai trova pace perché mai s’accontenta, l’avarizia «spezza la fedeltà, spegne ogni sentimento, pone se stessa al di sopra dei diritti divini e, con argomentazioni cavillose riduce a nulla ogni diritto umano e, se le fosse possibile, usurperebbe il mondo intero».

Nell’avarizia è insita una triplice offesa: al prossimo, a se stessi, a Dio.

Essa è, innanzitutto, peccato contro Dio. Infatti, scegliendo i beni passeggeri, si disprezzano quelli eterni. L’avaro preferisce il denaro a ogni cosa. Le ricchezze sono il suo idolo, così che Dio conta poco o nulla. Inoltre l’avaro – impadronendosi di beni affidatigli da Dio perché li amministri con giustizia e carità – è iniquo verso Dio, di cui tradisce la fiducia.

Chi è vittima di questo vizio non sempre si rende conto del proprio atteggiamento idolatrico. E anche se non adora le ricchezze così come gli idolatri adorano i loro idoli, ha però lo stesso atteggiamento; dando importanza assoluta e attenzione esclusiva alle cose materiali, fa dell’avere e del possedere l’idolo della propria vita. Si illude di possedere e garantirsi la vita ponendola, non sotto la signoria di Dio, ma sotto quella dei beni materiali, e non si rende conto che in tal modo si costruisce una prigione e si condanna ad una vita che è solo anticipazione di morte.

È l’apostolo Paolo che afferma la vera natura dell’avidità, quando ricorda ai Colossesi che «la cupidigia è idolatria» (Col 3,5). Assimilare l’avarizia all’idolatria è dire che i beni e il denaro diventano l’assoluto a cui tutto sacrificare, il vitello d’oro da adorare con le sue liturgie e le sue leggi sacrali. E questo è un peccato gravissimo. Già nel libro del Siracide viene affermata la sua gravità: «Niente è più empio dell’uomo che ama il denaro, poiché egli si vende anche l’anima» (Sir 10,8).

Gesù, in effetti, pone in alternativa radicale Dio e Mammona. E se l’avaro diventa servo di Mammona, non può più essere servo di Dio (cf. Lc 16,13). Ne segue che l’uomo si allontana tanto più da Dio quanto più si attacca al denaro ed è avido di ricchezze materiali.

L’avarizia è, poi, peccato contro il prossimo. Infatti l’avaro manca al dovere di solidarietà e di carità, che vincola ogni cristiano, anzi ogni uomo. Essa lede il prossimo, perché uno non può sovrabbondare nelle ricchezze materiali, renderle inutilizzabili o sciuparle mentre un altro è e rimane nell’indigenza. L’avarizia è una piaga sociale perché impedisce l’esercizio della giustizia e della solidarietà.

Anzi, secondo alcuni Padri, l’acquisto delle ricchezze avviene a scapito degli altri: pertanto ricchi e avari sono in un certo senso anche ladri, (Giovanni Crisostomo), depredatori e usurpatori. (Basilio Magno). Basti pensare ai molti paesi poveri dove le persone soffrono e muoiono di fame, mentre i paesi ricchi, invece di aiutarli, continuano a sfruttarli.

L’avarizia, infine, è un peccato che si ritorce anche contro se stessi. L’attaccamento eccessivo ai beni, l’autocompiacimento e i desideri esagerati provocano angustia scontentezza e disordine interiore. Il cuore rimane inquieto, arido e vuoto. L’avaro non ama se stesso, ma solamente ciò che accumula. Preoccupato di conservare i beni che sono in suo possesso e di acquisirne di nuovi, non solo «non si prende nessuna cura della propria anima, né si preoccupa della sua salvezza eterna, ma si priva anche delle semplici e necessarie soddisfazioni che offre la vita.

L’infelicità in forme diverse accompagna questo vizio in tutte le sue fasi: «Fatica nell’acquisire, timore nel conservare, dolore nel perdere».

L’avaro non riesce a essere felice, perché è tirchio soprattutto con se stesso negandosi la possibilità di porre relazioni, di creare legami di reciprocità, di gustare le legittime gioie della vita. Egli non vuole bene neppure ai suoi, rifiuta il matrimonio e figli, non li vuole perché li sente come un pericolo per il suo patrimonio. L’avaro è sterile, adoratore narcisista delle proprie voglie, fa il vuoto attorno a sé e si condanna alla solitudine. Una solitudine che è piena di paura per tutto e per tutti: per le tasse da pagare, per i ladri dai quali difendersi, per l’invito da contraccambiare, per il mendicante che chiede un’elemosina.

E’ evidente che un tale vizio è come un ceppo che inchioda il piede, che blocca totalmente il cammino spirituale, e rende assai difficile la conversione. Gesù stesso lo ha affermato:

«Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli» (Mt 19,23). E Paolo ammonisce che nessun avaro «ha in eredità il regno di Cristo e di Dio» (Ef 5,5). Pertanto ecco l’ammonizione: «La vostra condotta sia senza avarizia, accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò» (Eb 13,5).

L’avarizia è vizio capitale perché prende l’uomo in tutto il suo essere, una radice profonda e velenosa che dona linfa al male e lo fa crescere. S. Paolo lo afferma esplicitamente citando un proverbio corrente: «L’avidità del denaro è la radice di tutti i mali” (1Tm 6,10).

Ponendo l’avarizia tra i vizi capitali da cui nascono altri peccati Gregorio Magno ne elenca “sette figlie”: il tradimento, la frode, la falsità, lo spergiuro, l’inquietudine nel ricercare nuova ricchezza, le violenze, la durezza di cuore che chiude alla misericordia. L’avaro può facilmente diventare anche usuraio, pronto a sfruttare fragilità e bisogni di chi è meno protetto, e, lo sappiamo, l’usura mina le basi della convivenza umana. Tanti, troppi sono gli esiti negativi del comportamento avaro e avido: l’ingiustizia verso il prossimo, le frodi, gli inganni, i furti. Sempre, comunque, si tratta di un rifiuto e una tragica deformazione dell’amore. Un impulso malvagio che distrugge la persona stessa.

Sull’insaziabilità (che è l’essenza stessa dell’avarizia) e sulla conseguente infelicità dell’avaro insistono molto gli autori. Gregorio Magno osserva che essa non si consuma nel piacere delle sensazioni della carne, come la gola e la lussuria, ma in quello delle percezioni dell’anima. E afferma che insaziabilità e inquietudine sono intrecciate: più la prima tende a moltiplicare ciò che uno possiede, più la seconda cresce e tormenta l’avaro. E’ un’infelicità che mai lo abbandona e «che coinvolge le persone che gli vivono accanto, la moglie, i figli, la servitù, e anche la casa in cui abita».

Già lo affermava l’antico sapiente: «L’occhio dell’avaro non si accontenta della sua parte, una malvagia ingiustizia gli inaridisce l’anima» (Sir 14,9); «Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti» (Qo 5,9).

L’insaziabilità, in quanto non conosce uno scopo definitivo e non è mai appagata dagli oggetti ai quali si attacca, tende a svilupparsi sempre più. Per questo non si possiede mai abbastanza e si scopre sempre un motivo per avere di più.

Già gravi in se stesse e nel loro nascere, avarizia e avidità divengono particolarmente temibili se le si lascia crescere e radicare, perché, come dicevamo l’avere diviene, per l’avaro, il fondamento del proprio essere e garanzia della sua identità; quando si arriva a questo punto la malattia diventa pressoché incurabile.

Evidentemente l’avarizia e l’avidità costituiscono anche un vizio sociale. Per le nazioni come per le persone, «l’avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale», e il vizio maggiormente responsabile dei fenomeni di scarsità e dei conflitti conseguenti (a causa dell’impatto negativo sulla disponibilità dei beni). Rappresenta uno degli ostacoli più gravi alla liberazione dei poveri e a un autentico e ordinato sviluppo civile e sociale.

Ci sono troppe nazioni avare: ad esempio, quelle che potrebbero condonare il debito a paesi in attesa o in via di sviluppo (dai quali ricevono interessi onerosi), ma non intendono farlo preferendo continuare a perpetrare forme nuove di colonialismo.

E’ avarizia lo sfruttamento delle risorse del creato a beneficio di una piccola minoranza di persone, incuranti delle sofferenze che ne derivano per le altre. Avarizia è anche conservare per sé le conoscenze scientifiche e le possibilità tecnologiche, ritenendole proprio monopolio.

Anche il rifiuto di dare il proprio contributo al governo del paese (magari solo attraverso il voto) è segno di avarizia e mancanza di senso di responsabilità.

Il richiamo fatto da s. Paolo (gli avari non erediteranno il regno di Dio: 1 Cor 6,10) è più che mai attuale per i nostri giorni, nei quali le scorribande finanziarie, frutto perverso di una “globalizzazione economicistica”, sono tese ad un enorme e ingiusto accumulo di denaro ad opera di avventurieri, senza etica di fronte all’ignoranza di disavveduti risparmiatori, e desiderosi soltanto di intascare soldi.

Avarizia è tutto ciò che concerne la sterile accumulazione di beni, ma non si limita al denaro e alle cose non necessariamente materiali. Essa non risparmia neppure i “beni spirituali”: è avarizia anche l’assenza di generosità, la mancanza di amore, di solidarietà e di umanità. E può riguardare il tempo, i servizi, la stessa vita spirituale.

Ne consegue che può definirsi avaro anche chi considera esclusivi, e non condivisibili i propri talenti e le proprie conoscenze. Questo tipo di avarizia, com’è ovvio, alligna più facilmente presso gli intellettuali.

C’è, poi, l’avarizia di chi si attacca al proprio ruolo e ai propri impegni, ed è incapace di mettersi da parte e di lasciare posto ad altri. Si tratta di una cupidigia come amore per il possesso in sé, che si esprime, appunto, con l’ambizione, con la conquista e l’attaccamento a cariche ed onori.

Esiste, dunque, un’avarizia del proprio tempo, della propria intelligenza, delle proprie forze, dei propri compiti. Oggi soprattutto l’avarizia si esprime col “negarsi”: è il rifiuto della condivisione delle gioie e dei dolori, delle speranze e delle attese. Si tratta di un avaro che non nega la necessità e i drammi (che pure avverte e conosce), ma nega a se stesso la possibilità di intervenire (adducendo vane scuse: perché ha già dato, perché ha famiglia, perché lavora e non ha tempo…). Spesso questa avarizia non ferisce direttamente, cioè non rende infelici delle persone precise: ma contribuisce ad allargare lo spazio dell’infelicità nel mondo. È l’avarizia di chi dissipa il meglio di sé per tutta la vita.

È avaro chi potrebbe dare compagnia a chi è solo, e non la dà. Potrebbe impegnarsi in un amore autentico, ma si accontenta di rapporti superficiali. Potrebbe generare dei figli e contribuire alla crescita dell’umanità, ma evita di farlo pur avendo tutto ciò che lo rende possibile, a cominciare dalle disponibilità economiche.

Ma, per concludere, esiste anche una cupidigia legata alla pratica della religione, che si rivela con l’attaccamento a oggetti, segni, pratiche religiose e forme di devozione, quando questi, da mezzi che sono, diventano finalità, e fanno perdere di vista il vero e unico Dio, riducendo la religione a superstizione.

In tutti questi casi è evidente che l’avarizia si può trovare tanto nei poveri quanto nei ricchi.

Molte volte, purtroppo, l’avarizia aumenta con l’età. Infatti, invecchiando, si è posti di fronte al restringimento dell’orizzonte temporale di vita, e si reagisce intensificando l’accumulo, per “paura della fine”. Ma può succedere anche il contrario. La prospettiva di una morte già non più lontana, costringe a riflettere sulla inutilità dell’accumulo dei bene; e l’alibi per questo accumulo per assicurarsi un avvenire, si riduce sempre più.

Rimedi dell’avarizia

Chi vuole essere guarito dall’avarizia e dalla cupidigia deve innanzi tutto conoscerle bene, poiché la conoscenza è il primo elemento della terapia. Quando ci si rende conto che questo male comincia a mettere radice nel nostro cuore, si è spinti a fare attenzione e tenersene lontani, cominciando col riflettere sulla vanità degli oggetti perseguiti dalla cupidigia, e ricordando frequentemente che, come dice Gesù, la vita dell’uomo «non dipende da ciò che egli possiede» (Lc 12,15), e che la sola vera ricchezza è Dio, Padre provvidente che sa di che cosa abbiamo veramente bisogno. Da lui abbiamo ricevuto la vita e con la vita tutto il resto. Ora, la vita è bene vissuta se donata. E questo comporta rinuncia all’accaparramento. Criterio e punto di riferimento rimangono sempre le parole del Maestro: “chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). E l’assicurazione che la vera ricchezza sta nella povertà di spirito cioè nel distacco dai beni, perché è essa che garantisce il possesso del regno di Dio: “beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3).

Per iniziare il cammino di liberazione bisogna cominciare con l’accontentarsi di ciò che è necessario e sufficiente per condurre una vita dignitosa; facendo ben attenzione ai falsi “bisogni”, che spesso sono artificialmente e subdolamente indotti, creati ad arte dal sistema consumistico, che fa di tutto per eccitare la “bramosia del possesso”. Tali bisogni non solo non sono “necessari” ma del tutto inutili e perlopiù dannosi. E’ bene ricordare spesso che è veramente ricco non colui che possiede molte cose, ma chi non ha bisogno di molte cose.

E’ fondamentale riconoscere che nel disegno di Dio i beni di questo mondo sono certamente un bene, ma un bene che ci viene donato a beneficio di tutti, e che, in quanto tale, deve essere distribuito, come fanno tutte le creature che a questo disegno non si sottraggono: il sole trasmette la luce, il fuoco il calore, gli alberi i frutti, solo l’uomo avaro non vuole dividere con nessuno ciò di cui si è impadronito e di cui si crede padrone assoluto ed esclusivo.

I veri rimedi all’avarizia sono la condivisione fraterna, la misericordia e la pietà, come analogamente l’antidoto dell’avidità è la generosità, la filantropia e la sobrietà. Per san Tommaso all’avarizia si contrappongono in modo particolare la giustizia e la liberalità: la prima agisce a livello della distribuzione (imponendo di non trattenere e conservare beni che spettano ad altri); la seconda interviene moderando il desiderio e l’amore per le ricchezze.

Sono le suddette virtù che esprimono il cuore dell’autentica vita cristiana e le permettono di prosperare. Ma è l’elemosina, raccomandata più volte da Gesù, che costituisce il rimedio per eccellenza perché l’avaro ritrovi la salute spirituale. Essa implica una condivisione spirituale, prima ancora che materiale. Una delle sue principali finalità è proprio la guarigione di chi dona. Proporzionata ai mezzi del donatore, dev’essere fatta in modo disinteressato, con liberalità, senza calcolo e con gioia. Così contribuisce a liberare l’uomo dalla sua insensibilità e dalle forme di aggressività provocate dalle passioni, e gli permette di avere un atteggiamento libero di fronte al denaro e alle ricchezze terrene.

Va ricordato che serve a ben poco privarsi di qualcosa e fare qualche gesto di beneficenza, quando continua a sussistere nell’animo la brama di possesso; per questo il radicale antidoto dell’avarizia è la conversione dei desideri, ossia l’esercizio per ristabilire il primato dell’essere sull’avere. I desideri vengono purificati dalla brama di possesso nella misura in cui vengono orientati alla ricerca del Regno, quindi al desiderio di Dio e del suo disegno che è la costruzione di una famiglia di figli e di fratelli.

Insomma, autentico e definitivo rimedio all’avarizia e alla cupidigia è una vera conversione a Gesù Cristo, che solo può ribaltare i valori dell’uomo per riportarli in armonia con la volontà di Dio. Quello che ha fatto con Zaccheo, (cf. Lc 19,1-10) Gesù lo può fare con tutti proponendosi innanzitutto come esempio. “Da ricco che era”, egli volle nascere, vivere e morire povero, ed è con la sua croce che ci guarisce dal nostro attaccamento ai beni terreni e ci salva da tutte le nostre cupidigie.

Se si converte l’avaro scoprirà che ciò che egli cercava nell’accumulo dei beni, si ottiene quando la vita si lascia plasmare dal dono, quando le cose non sono più tiranne, quando il cuore si è liberato dalla passione dell’avarizia e della cupidigia. Il passaggio dalla logica del possesso alla logica del dono ottiene ciò che l’uomo desidera dalla vita, vale a dire la beatitudine. Già a livello umano, felice è colui che si accontenta di quello che gli basta per vivere, per amare e per…servire!