Luigi Maria Epicoco – Telemaco non si sbagliava. Per una giovinezza che funziona

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Il “complesso di Telemaco”, figlio che attende il padre Ulisse per poter ritrovare anche se stesso e il proprio ruolo nel mondo – secondo la lettura che del mito ha offerto Massimo Recalcati opponendola al “complesso di Edipo”, figlio che, invece, uccide il padre – è l’immagine con la quale questo libro si apre, per introdurci a riflessioni decisive e necessarie per la nostra cultura odierna, a questi anni complessi, dai quali le figure di paternità e figliolanza sono uscite “con le ossa rotte”.

Alla suggestione offerta dall’Odissea, don Luigi Maria Epicoco fa seguire la rilettura di alcuni personaggi biblici (veri prototipi dei padri e figli che anche noi siamo), di alcune relazioni paterne/filiali, offrendo al lettore un percorso inedito e sorprendente, in vista di una reinterpretazione della questione giovanile come opportunità e non più e solo come problematicità.

Gesù è, in questa riflessione, l’immagine più significativa di una giovinezza che funziona e in cui definitivamente l’opportunità di essere figlio si realizza nel compimento liberamente “scelto” e non subito della relazione con il Padre. Nel tempo in cui la Chiesa si raduna in Sinodo proprio attorno alla tematica dei giovani, il testo ne delinea un’antropologia positiva, liberata e liberante: quella di cui troppo a lungo abbiamo patito l’assenza. 

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Questa la prefazione di Massimo Recalcati

Luigi Maria Epicoco ha il dono della parola. Questo dono scavalca la semplice erudizione, la precisione delle informazioni o la correttezza formale nell’uso della lingua. Il dono della parola è il dono della luce. In questo senso la sua scrittura è sempre innaffiata da una luce che rende la sua prosa viva e pulsante. È lo stile della sua riflessione che lo accosta a quello più nobile della predicazione. Nessun intento moralistico, nessun piglio autoritario, nessuna vocazione pedagogica. La parola di don Luigi Epicoco prende corpo a partire dall’impatto singolare con il mistero assoluto della vita e della morte. Certamente non senza – come anche questo libro dimostra – la lettura e la rilettura del testo biblico. Ma anche l’uso di questo testo eccede il campo scolastico della comprensione teologica. Anche in questo senso la sua parola è profondamente cristiana se Gesù, per primo, mostra che la verità della sua parola non dipende dall’interpretazione teologica corretta del testo, ma dall’esercizio di una testimonianza che sola può illuminare la verità del testo altrimenti inattingibile. Luigi Epicoco resta fedele a questo insegnamento. Il suo ricorso alla Bibbia non è mai appesantito dallo sfoggio del sapere, ma è sempre filtrato dall’incontro con Gesù – con l’evento-Gesù –, totalmente dipendente da quell’incontro.

In questa sua ultima opera titolata Telemaco non si sbagliava, il suo oggetto di meditazione è la vita del figlio. La giovinezza, ci dice, non è una malattia che deve essere curata. Il primo compito dell’educazione è dare fiducia alla vita del figlio. La giovinezza – aggiungerei – non dovrebbe nemmeno essere considerata un periodo delimitato della vita, quanto una risorsa illimitata della vita capace di mantenere la vita sempre viva. Nulla è infatti più tragico di una vita che in vita si manifesta come vita morta.

Per Gesù è il peccato più grande: rinunciare al proprio talento. Ecco perché Epicoco può scrivere che «la giovinezza è il tempo dell’amore», nel senso che essa accompagna la vita nel suo dispiegarsi, come se fosse la sua linfa vitale, come una energia – l’energia del desiderio e dell’amore – che rifiuta l’ombra spessa della morte, il peso opprimente del passato, che preferisce l’orizzonte aperto del futuro alla schiavitù infernale del proprio Egitto. Non a caso alcune pagine tra le più intense sono dedicate al “complesso di Egitto”, ovvero a quella attitudine della vita umana a rivolgersi al passato come se fosse una catena dalla quale non ci si riesce a liberare, a preferire le proprie catene alla propria libertà.

In questo percorso intorno al mistero della vita del figlio, Epicoco convoca tra noi, adesso, nel nostro tempo presente, figure classiche del testo biblico: Isacco, Giuseppe, Samuele, Davide, il figliol prodigo, Gesù stesso. Li convoca non come figure storiche, del passato, come reliquie simboliche. No, egli mostra che queste figure sono tra noi, abitano il mondo contemporaneo, sono figure vive e non impolverate dal tempo. È il suo stile di pensiero: mostrare che la verità della Bibbia non è una verità sepolta, destinata all’archivio, ma pulsante, assolutamente presente nell’oggi. Queste figure di figlio diventano interlocutrici preziose per intendere il cammino della umanizzazione della vita. Cosa significa essere figli? Cosa vuol dire ereditare? Qual è il dono più grande della genitorialità? Come si snoda il processo di filiazione simbolica? Chi è il figlio giusto? Quella di Telemaco agisce come una figura di figlio che riassume e risponde positivamente a questi interrogativi.

Telemaco è il figlio giusto perché sa che la vita del figlio necessita di quella del padre per trovare la propria via al di là di quella del padre. È il figlio giusto perché interpreta l’essere figlio alla luce del compito etico dell’ereditare: fare nostro, davvero nostro, quello che abbiamo ricevuto dalle generazioni che ci hanno preceduto; intersecare la provenienza con la destinazione; inventare un proprio percorso personale riconquistando quello che gli avi hanno consegnato nelle nostre mani; non restare paralizzati nel conflitto cieco coi padri, ma riconoscere il debito simbolico che ci vincola a loro; non volere la pelle del padre ma stabilire con esso una nuova alleanza nel nome della vita. Telemaco è il figlio che sa vivere nell’attesa, nella preparazione della venuta dell’Altro senza melanconia, ma con la forza di chi è pronto a un nuovo viaggio.

Luigi Epicoco preleva questa figura e il suo spessore simbolico dai miei lavori sulla dinamica della filiazione, ma la prolunga attraverso le figure bibliche dei figli che ho appena evocato. Il lettore potrà apprezzare l’incisività con la quale Epicoco insiste nel collegare queste vicende di figli alla grande problematica della crisi del discorso educativo che investe il nostro tempo. Tra queste figure possiamo assumere come emblematica quella di Giuseppe d’Egitto. Conosciamo la sua storia: essendo il più piccolo e il più amato dal padre, suscita l’ira invidiosa dei fratelli che congiurano la sua morte. Scampato al pericolo, si trova in una posizione privilegiata alla corte del Faraone in un momento di grande crisi. Lì incontra i suoi fratelli che riconoscendolo temono la sua vendetta. Giuseppe però si riconcilia con loro salvandoli dalla miseria. La sterilità dell’individualismo che genera solo invidia e gelosa viene così oltrepassata da una responsabilità che assume come suo nuovo orizzonte quello della relazione e non quello della predazione.

Un dettaglio però cattura l’attenzione di Epicoco. Esso riguarda la relazione particolare tra Giuseppe e suo padre. I figli, ricorda Epicoco, hanno necessità di essere insostituibili, prediletti. La predilezione dovrebbe accompagnare ogni figlio nel suo rapporto con l’Altro che se ne prende cura. Lo ricordava bene Levinas: ogni figlio è figlio unico. La tunica che il vecchio padre aveva preparato per Giuseppe, il figlio più piccolo, aveva la caratteristica di essere inconfondibile, di avere delle maniche particolarmente lunghe. Questa anomalia è in realtà il segno di una distinzione. La tunica di Giuseppe è una tunica differente, unica, che rende il figlio, figlio prediletto. La “logica del branco” – spiega Epicoco – si scaglia contro questo figlio a partire da un sentimento di esclusione. È lo stesso moto che ispira il gesto di Caino: colpire il prediletto, eliminare l’altro che sottrare l’amore del padre. In questo senso, ogni figlio dovrebbe avere il diritto di ricevere in eredità la tunica di Giuseppe, di essere, agli occhi dell’Altro, degno di amore. In questo senso è la tunica, come simbolo del dono dell’amore dell’Altro, che consente a Giuseppe di non rispondere all’odio con l’odio, ma di perdonare, di sottrarsi allo spirito di vendetta del branco. «Quando nella vita si sperimenta la predilezione, si è capaci di diventare eredità per gli altri… È una lezione immensa che gli adulti dovrebbero sempre imparare: l’unico modo che una persona ha di ereditare qualcosa è rendere possibile la felicità di chi sta amando». In questo modo si può a nostra volta ricevere qualcosa dai nostri figli. Solo l’amore della predilezione consente infatti il ritorno dell’amore: «il concetto di eredità così si capovolge: sono i figli a dare un’eredità ai padri, mentre i padri danno una promessa ai figli».

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