Lectio Divina di domenica 4 marzo 2018 a cura della Comunità monastica di Pulsano.
DOMENICA «DEL SEGNO DEL TEMPIO»
Considerando il testo molto lungo, consiglio di scaricarlo in un comodo file di Word.
Commento al Vangelo Abbazia di Pulsano - 4 marzo 2018 0.00 KB [download_count] downloads
...La Scrittura dice che Dio aveva scelto un popolo, non perché dominasse, ma perché fosse uno strumento, nelle sue mani, per realizzare il suo disegno di salvezza, verso tutte le genti. Ma poiché il Signore lo incaricava di essere il suo missionario in mezzo al mondo e gli dava segni e garanzie della sua presenza, il popolo si inorgoglì, e fece se stesso centro dell’universo, pensando che tutti i popoli dovessero riconoscere lui come sovrano.
Per un po’ di tempo non è stato raro per il cristiano essere vittima del complesso di inferiorità; un insieme di comandamenti, di precetti, di divieti vari, gli impedivano di essere come gli altri: il cristiano non può divorziare, non può vedere film esclusi, non può ingoiare pillole, ecc. Oggi, ai nostri giorni, spesso accade il contrario: il cristiano si crede al centro dell’universo relegando Dio allo scontato, da migliorae con le nostre idee perché indietro rispetto al nostro tempo, dunque gettato dietro, alle nostre spalle. Che cosa c’è di vero e di falso in questo modo di pensare? È il fatto giuridico di essere un battezzato, che crea l’obbligo morale? Oppure è davvero la fede in Cristo, che aiuta a scoprire le esigenze profonde dell’uomo?
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Le letture quaresimali riprendono i grandi temi dell’iniziazione cristiana: il battesimo, la fede, la carità, la vita nuova, ecc. usando immagini, come l’acqua, la luce, le guarigioni, le risurrezioni… Il tutto per aiutarci ad approfondire questa realtà nuova che la risurrezione di Cristo ha operato in noi. Oggi, appunto, le tre letture, parlano della morale nuova che questa «trasformazione» comporta. Il primo brano, tratto dal libro dell’Esodo, presenta il dono della Legge che Dio dà al suo popolo. Tali comandamenti non sono un complesso di precetti morali a sé stanti, né l’imposizione di un Dio dispotico o paternalista. Sono invece un’esigenza della vocazione umana, ritrovata con l’aiuto dell’amore di Dio. Si potrebbe dire che, più che una legge positiva, sono una legge di natura. Nel senso che si tratta di un’esigenza che scaturisce, deriva dalla realtà stessa in cui Dio ha posto il suo popolo.
A maggior ragione, ciò vale anche per la morale cristiana, che non è strutturata su un programma frutto di sapienza umana, ma unicamente sul fatto essenziale del nostro inserimento, del nostro innesto nella pasqua di Cristo.
Anche la seconda lettura, conferma che l’esigenza morale, per il cristiano, nasce proprio dalla «follia di Dio», cioè dal suo disegno d’amore, che si realizza nel mistero della morte per la risurrezione.
La vita morale diventa perciò, per ciascuno di noi, un’imitazione di Cristo, anzi un inserimento più profondo nel mistero della sua morte e risurrezione.
Fuori di questa prospettiva, fuori della fede, la vita cristiana è scandalo e follia. Che la morale cristiana sia una morale pasquale, non è una scoperta di oggi: tante volte ce lo siamo sentiti ripetere. Sono cose vecchie, che però hanno bisogno, di tanto in tanto, di essere rispolverate, per essere comprese meglio e vissute più a fondo.
Riprendiamo il cammino liturgico:
Antifona d’Ingresso Sal 24,15-16
I miei occhi sono sempre rivolti al Signore,
perché libera dal laccio i miei piedi.
Volgiti a me e abbi misericordia, Signore,
perché sono povero e solo.
Ancora l’Orante esprime la sua fede e riafferma la sua fiducia (Sal 24,15-16 SI). Egli tiene gli occhi nella perenne contemplazione del suo Signore (v. 15a; 120,1; 122,1-2; 140,8), in questo reso idoneo dal Signore stesso, che libera sempre il suo fedele dai trabocchetti nemici (v. 15b; 30,5; 123,7), e lo pone in saldo riparo. Da questo riparo il fedele adesso può innalzare l’epiclesi duplice al Signore, per essere da Lui guardato con amore, con cura, con attenzione (v. 16a; 68,17; 85,16; 118,132), e per ottenere la sua misericordia, il comportamento divino dell’alleanza (v. 16a). Infatti l’alleato minore adesso prega e confessa la sua vera condizione. Egli si trova isolato, abbandonato da tutti, è un vero povero di Dio, ossia uno che per elezione ormai può attendersi tutto solo dal suo Signore (v. 16b).
Canto all’Evangelo Gv 3,16
Lode e onore a te, Signore Gesù!
Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito;
chiunque crede in lui ha la vita eterna.
Lode e onore a te, Signore Gesù!
La proclamazione evangelica è orientata dalla rivelazione dell’amore infinito del Padre per il mondo; in suo favore donò l’Unico Amore suo, il Figlio Monogenito.
Il tema di questa terza domenica di Quaresima, comune alle tre letture, è la legge di Dio che ci rende liberi in Cristo (cfr. II Colletta e Sal resp.), anche se le singole prospettive sono diverse.
II Colletta
Signore nostro Dio, santo è il tuo nome;
piega i nostri cuori ai tuoi comandamenti
e donaci la sapienza della croce,
perché, liberati dal peccato,
che ci chiude nel nostro egoismo,
ci apriamo al dono dello Spirito
per diventare tempio vivo del tuo amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
I lettura: Es 20,1-17
La pericope profetica è la lettura del Decalogo. Come si sa dagli studi critici, esso risale direttamente a Mose. Qui va messa in risalto la sua motivazione storica e teologica che viene dal Signore stesso, che «pronuncia tutte queste parole» (v. 1). La formula teologica, preziosa tra tutte, e di valore eterno, è: Io sono il Signore Dio tuo, che ti feci uscire dall’Egitto, dalla casa della schiavitù (v. 2). Ora, «Io sono il Signore Dio tuo» è la «formula dell’alleanza», che è offerta e non imposta, e che chiede la risposta d’accettazione di questo popolo.
Tu sei il Signore Dio nostro, e noi siamo popolo tuo, che sarà pronunciata infinite volte da Israele. Quest’alleanza è totale, divina, veridica, fedele nei secoli, eterna. Il Signore è infinitamente il Fedele a se stesso e alla sua parola. I privilegi dell’alleanza non saranno più cancellati. Rivedere qui Paolo quando lo afferma in Rom 9-11. Vedi l’Apostolo delle Domeniche XIX e XX del Tempo per l’Anno, Ciclo A. I cristiani usano quotidianamente questa formula, anche se non lo sanno se nessuno glielo insegna, quando dicono «Padre nostro».
La motivazione storica dell’alleanza è il fatto perenne dell’esodo dall’Egitto. Quello fu l’evento primordiale, il principio e la fondazione dell’esistenza stessa d’Israele come popolo di Dio. Ogni volta che questo popolo sta davanti al Signore Dio “suo”, riconosce la divina Misericordia non meritata del Signore, che lo volle eleggere tra tutte le nazioni della terra, e lo volle liberare, miserabile e oppresso nucleo umano, per farne il popolo suo, carico dei destini delle altre nazioni.
Il Decalogo è uno dei testi più noti dell’A. T., e come tale è trattato dalle prime istituzioni catechetiche. Qui va sottolineato che esso è la «morale dell’alleanza». Chi non vive il Decalogo e non lo applica nella sua esistenza, rende vana l’alleanza divina. Cristo Signore lo consegna ai suoi discepoli, fino alla fine dei secoli. Per i cristiani il Decalogo è norma di vita.
Se la 1 a lett. ci propone il tema della legge di Dio come riassunta nel decalogo (redazione elohista di Es 20,1-17) che in un recentissimo passato era tra i formulari che tutti fissavano nella memoria, indipendentemente dalla comprensione delle sue frasi o parole, nella 2 a lett., l’apostolo Paolo ci dice che la legge, o meglio la volontà salvifica di Dio non si manifesta nè attraverso l’osservanza legale, nè attraverso la ricerca della ragione, ma in Cristo crocifìsso. In tale contesto, la polemica di Gesù contro i venditori nel tempio sta a significare, implicitamente, il superamento anche delle istituzioni più sante (leggi cultuali, tempio di Gerusalemme), poiché al loro posto deve subentrare ormai il Cristo crocifìsso e Risorto: «Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere». A proposito della legge o decalogo è fuori luogo una trattazione analitica dei singoli precetti elencati; meglio sarebbe una trattazione sul significato globale della legge e sui rapporto tra legge e culto nell’AT e nel NT.
Per una scelta di metodo e per contenere i tempi, noi ci limiteremo soltanto ad una piccola riflessione, dopo aver esaminato il brano evangelico, quasi a voler tirare le fila di ciò che diremo; un voler trovare una sintesi utile per la nostra fede e per l’applicazione pratica dei comandamenti.
Non sono molti gli episodi della vita pubblica di Gesù che sono raccontati da tutti e quattro gli evangelisti; l’episodio dei profanatori scacciati dal tempio è tra questi (cfr. Mt 21,12-13; Mc 11,11.15-17; Lc 19,45-46).
Questa terza domenica di quaresima propone un brano evangelico capace di disturbare e preoccupare ancora, nonostante la nostra assuefazione alla sacra pagina. Gesù infatti viene più spesso proposto secondo l’immagine del rabbi sapiente: certamente trasgredisce alcune norme importanti, perché ad esempio guarisce di sabato e rompe i codici di purità, intrattenendosi con persone escluse dalla comunità cultuale. Ma raramente compare in forma così apertamente sovversiva, presente anche nell’evangelo più complesso e, come si suol dire, teologico dei quattro.
Mentre per i tre sinottici il fatto si colloca proprio a ridosso del conflitto finale, dopo il suo ingresso trionfale in Gerusalemme, cui seguono arresto, processo e crocifissione, in Giovanni la cacciata dei venditori dal cortile del tempio è azione/segno compiuta nella prima delle tre Pasque (si avvicinava la Pasqua dei Giudei, v. 12) che scandiscono gli anni pubblici di Gesù.
Gli esegeti non trovano argomenti sufficientemente forti per dirci se sia storicamente più attendibile la collocazione giovannea o quella sinottica, nè sono in grado di dirci perché l’uno o gli altri hanno spostato il racconto dalla sua vera collocazione.
Alcuni suppongono che Gesù abbia potuto pronunziare, all’inizio del suo ministero, un ammonimento profetico circa la futura distruzione dei tempio, mentre, poco prima della sua morte, nell’atmosfera di entusiasmo suscitata dal suo ingresso trionfale, abbia compiuto il gesto della cacciata dei profanatori del tempio. Nella trasmissione orale, i due episodi distinti si sarebbero accoppiati e Giovanni li avrebbe posti tra i segni iniziali compiuti da Gesù, mentre i sinottici li avrebbero posti nella sua ultima settimana. Anche perché mentre il 4° evangelista, con le sue indicazioni cronologiche, ci consente (molto meglio dei sinottici) di distribuire il ministero di Gesù nell’arco di tre anni circa, nella redazione sinottica, si parla di una sola Pasqua trascorsa da Cristo a Gerusalemme, quella della sua morte.
Quindi nel quadro dei loro evangeli, l’episodio non poteva avere altra collocazione. Da notare inoltre come per Matteo e Marco l’episodio sia menzionato fra le testimonianze contro Gesù nel processo davanti al sinedrio (cfr Mt 26,59-61; Mc 14,57-58; vedi anche At 6,14, il processo a Stefano) e costituisca il motivo ultimo della condanna a morte di Gesù.
Per il 4 evangelo invece il motivo ultimo della condanna di Gesù è costituito dalla resurrezione di Lazzaro; segno ultimo e rivelatore del Cristo, che irrigidisce definitivamente la già feroce opposizione dei rappresentanti religiosi del popolo (cfr. Gv 11,45-12,11).
La pericope è divisa in due parti (vv. 14-17 e 18-22) con una introduzione (v. 13), costruite allo stesso modo:
- cacciata dei venditori dal tempio (vv. 14-16);
- riflessione teologica dell’evangelista (v. 17);
- disputa con i giudei e detto sul tempio (vv. 18-20);
- riflessione teologica dell’evangelista (vv. 21-22).
I vv. 23-25, che la liturgia unisce all’episodio dei mercanti, gli sono del tutto estranei e si intendono meglio se si rapportano all’episodio di Nicodemo, che segue immediatamente.
Esaminiamo il brano
v. 13 «la Pasqua dei giudei »: questa specificazione, propria di Gv (cfr. Gv 6,4; 11,55; ma anche sinottica, Mt 26,17-19; Mc 14,12-16; Lc 22,7-13), denota una distinzione ed un distacco dalla Pasqua.
È la prima delle tre Pasque (6,4; 11,55) che vengono ricordate nell’evangelo e che fanno pensare a tre anni di vita pubblica, mentre i sinottici ricordano solo l’ultima Pasqua, quella della morte.
«salì a Gerusalemme »: da notare la precisione geografica. Da Cafarnao (v. 12 che è sotto il livello del mare) a Gerusalemme (circa 800 m. sui livello dei mare) effettivamente si sale.
«E trovò nel tempio»: si tratta qui non del tempio in senso stretto (cfr. differenza col v. 19) ma del recinto sacro, che comprendeva anche il cortile dei pagani (vedi Atlante della Bibbia).
Nel Tempio si dovevano svolgere i sacrifici e giungevano per quello scopo osservanti di Giudea e Galilea ma anche della diaspora, di altre regioni: i venditori di animali e anche i cambiavalute facevano parte di diritto di quello scenario, avevano una loro utilità. Era il loro lavoro, vivevano di quello: se ne può trovare un’interessante presentazione ne Il vangelo dei bugiardi di Noemi Alderman (Feltrinelli 2014).
«gente che vendeva buoi, pecore e colombe»: buoi e pecore non compaiono nel racconto dei sinottici e sono ripetuti anche al v. 15.
Sono gli animali per i sacrifìci; infatti è impensabile che i pellegrini si trascinassero lungo tutto il viaggio le vittime da offrire (da considerare anche la legge del riposo festivo). Di fatto era quasi impossibile evitare che ci fosse del commercio se si volevano offrire dei sacrifìci.
«i cambiavalute »: le schiere dei pellegrini devono cambiare il denaro per pagare la tassa del tempio, per poter fare eventualmente qualche offerta e comprare quindi gli animali per i sacrifìci.
Cambiavano il denaro romano e la dramma attica, perché portavano l’effige dell’imperatore pagano, con la moneta ufficiale di Tiro, dietro un piccolo compenso. La tassa dei tempio, alla lettera «didramma »(cfr. Mt 17,24), era il contributo annuale e personale per i bisogni del tempio e corrispondeva a mezzo siclo (Mt 17,27), cioè 2 denari (cfr. anche tavole delle monete in fondo alla Bibbia di Gerusalemme). I rabbini precisavano che i cambi dovevano essere al tasso di Tiro.
vv. 15-16 «sferza di cordicelle»: sono le cordicelle che servivano a condurre il bestiame grosso.
Gesù si presenta come un profeta che vuol rinnovare lo spirito autentico della fede: ricordiamo l’oracolo di Ger 7,11 sul tempio.
La Scrittura che si compie nel gesto tuttavia è di più e rimanda a una parola/azione profetica: prima della citazione esplicita del Salmo, infatti, si intravedono oltre a Geremia 7 anche Isaia 56. Entrambi i brani sono una accesa critica a un’impostazione religiosa che copre di regole e di gesti apparentemente pii una pratica di ingiustizia profonda ed escludente.
«Padre mio»: Gesù si sente a casa sua e si attribuisce i diritti di figlio (solo Gv mette in risalto la consapevolezza filiale più che razione; i sinottici invece si richiamano alla scrittura).
Non si dice qui che deve diventare la casa di preghiera per tutti i popoli, come si afferma in Is 56,7 e ripreso da Mc 11,17, ma sicuramente la frase sarebbe appropriata.
Gesù con un gesto di chiaro stampo profetico, caccia tutti dal tempio, sia uomini che animali; viene scalzato alla base il culto materiale, Gesù viene a sostituire il tempio ed i suoi sacrifìci.
«un mercato»: Il mercato e la spelonca di ladri quindi non si riferiscono alla prima evidenza di mescolare commercio profano e banchetti con il luogo della preghiera, cosa che si potrebbe risolvere spostando i banchi dall’altra parte della piazza. Si riferiscono piuttosto a una posizione religiosa di tutti i tempi e di tutti i templi: sulla bocca parole melliflue, nella pratica costante ignoranza della giustizia. Le espressioni sono quelle ricorrenti: non accogliere lo straniero, preferire l’utile alla giustizia, opprimere. Sono le idee che si trovano nelle Dieci parole, la Legge dell’Alleanza che viene in questa liturgia (Es 20,1-17) ricordata nella prima lettura. Sono le molte cose che sappiamo ma che spesso rischiano di restare fuori del luogo di preghiera: commercio di armi e tratta di umani, leggi del mercato e della finanza, travi negli occhi che convivono con la passione per le pagliuzze altrui, regolamentando queste e non toccando con un dito quelle.
v. 17 – «si ricordarono»: è un ricordo interpretante che Giovanni presenta ai lettori per far comprendere ciò che storicamente ricorda.
Questi commenti redazionali sono tipici dello stile giovanneo (cfr. 11,51-52; 12,16; 19,35-36; 20,9). Nella densità che contraddistingue la sua scrittura, il brano giovanneo contiene tuttavia in sintesi l’intera vicenda, anzi l’intera storia di salvezza. Due volte infatti si afferma che i discepoli «ricordarono»: durante l’azione, in cui rammentano ciò che «sta scritto» e si compie in quel gesto, e a cose fatte, dicendo per bocca dell’evangelista che «dopo che fu risuscitato dai morti si ricordarono» (v. 22).
«mi divorerà»: la citazione è tolta dal sal 69,10 dove suona: «perché io zelo per la tua casa mi ha divorato e l’oltraggio dei tuoi insultatori ricadde su di me». L’evangelista ha cambiato il tempo del verbo dal passato al futuro, reinterpretando così il salmo come annuncio profetico della Passione. Nel NT molte sono le citazioni di questo salmo e proprio in rapporto alla Passione (cfr. Gv 15,25; 19,28; Mc 15,36 (con v. 22 del Sal); Mt 27,34; At 1,20; Rm 11,9-10; 15,3). Qui Gesù mostra la radice profonda di quelle Dieci Parole, nel cuore dell’Alleanza: questo è lo zelo che lo divora (Sal 69,10; 119,139), quello che sperimenta Elia (1 Re 19,10) e che conduce all’esclusione e alla persecuzione del profeta. Muovendosi però non verso un conflitto che distrugga gli avversari, come sul Monte Carmelo, ma ponendo se stesso, nella sua carne, nella sua realtà profonda, al centro di questo percorso. Per questo il brano sta anche al centro della vicenda di Gesù, è segno in senso alto: tra le Tentazioni e l’adorare Dio in spirito e verità (Gv 4), tra una predicazione che attraversa i segni sacrali per renderli santi, fino al conflitto finale: «Parlava del tempio del suo corpo». È la Pasqua di ogni umano, nessuno escluso: non dicano stranieri ed eunuchi che non c’è posto (Is 56, 3-7), hanno un nome nella mia casa, un monumento di gioia, perché è casa di preghiera e non spelonca di ipocriti.
v. 18 «gli risposero…»: A questo punto interviene l’autorità costituita che chiede conto a Gesù del suo operato; sono i tipici nemici di Gesù e i tipici increduli: chiedono un segno che legittimi l’autorità divina di Gesù (cfr. anche Mc 11,28 e altri casi come Gv 6,30; Mc 8,10). È il caratteristico atteggiamento di chi non ha fede ed esige un miracolo per credere. Gesù rifiuta sempre un simile comportamento (cfr. sinottici Mt 12,38-39; 16,1-4; Lc 23,8).
v. 19 Dopo la «sfuriata» Gesù, pur provocato, sembra disposto a “giocare” con i suoi interlocutori; egli offre loro un segno completamente diverso da quello che si attendevano, risponde infatti con un enigma che resterà completamente oscuro. Il Gesù di Giovanni ama servirsi di parole che, oltre il loro senso naturale, sono suscettibili di rivestirne un altro, soprannaturale o figurato (cfr. nota 2,19 della Bibbia di Gerusalemme).
«distruggete»: l’imperativo è un semitismo per un condizionale «se distruggerete». A livello storico, si può avvicinare ad oracoli profetici, che pure usano l’imperativo per il condizionale e per una condanna del culto esterno senza la pratica della morale.
Gesù vuol alludere al nuovo tempio, che si aspettava con il Messia. A livello teologico, quello di Giovanni, invece, è una profezia della futura resurrezione.
Il verbo usato infatti (egeiro) indica sia la ricostruzione del santuario che la resurrezione.
v. 20 I giudei non comprendono il discorso profetico di Gesù, fraintendendolo in senso materiale «secondo la carne» (cfr. 8,15).
«in 46 anni»: si parla qui del secondo tempio, quello edificato dopo l’esilio, ma che Erode il Grande aveva talmente modificato e ristrutturato che si poteva praticamente parlare di una nuova costruzione.
Secondo le Antichità di Giuseppe Flavio (15,11,1) il tempio cominciò il 18° anno di regno del re Erode il Grande, cioè il 20-19 a. C; contando 46 anni si arriva alla Pasqua del 28 d. C. che corrisponde al 15° anno di Tiberio e coincide perciò con la cronologia di Lc 3,1. È questo uno dei dati cronologici più solidi della vita di Gesù.
v. 21 Il corpo di Gesù resuscitato sarà il nuovo santuario che sostituirà quello vecchio e sarà il centro del culto in spirito e verità (cfr. 4,21-22).
Il luogo in cui è presente Dio (1,14), il tempio nuovo di cui parlava Ezechiele da cui scaturisce l’acqua viva (cfr. Ez 40,lss). Nel NT il tempio è anche la Chiesa (cfr. Ef 1,22-23; Col 1,18); il singolo cristiano (1 Cor 3,16; 6,19).
v. 22 L’evangelista stesso afferma che solo dopo la resurrezione di Gesù i discepoli compresero il senso di queste parole. È qui evidente che il quarto evangelista scrive con le categorie post-pasquali, interpretando cioè gli eventi precedenti nella prospettiva del risorto.
In definitiva l’accaduto del tempio diviene una manifestazione della sua gloria, che però solo la fede sa scoprire.
vv. 23-25 La fede mediante i segni è intermedia fra la fede sincera dei discepoli (2,11) e l’incredulità dei giudei. È una fede in Gesù taumaturgo.
Gesù conosce il cuore dell’uomo (cfr. Gv 1,42.47; 6,70-71) e perciò non si fida di questa fede, anche se essa alle volte può arrivare alla perfezione, come accadde al cieco nato e allo stesso Nicodemo, che viene considerato come uno di coloro che credettero in Gesù per i segni da lui operati (cfr. 3,2).
Quando sentiremo l’affermazione del salmista: «La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima…» (dal Sal responsoriale) possiamo ora comprendere il suo linguaggio.
È vero che nelle «10 parole » i «non» sono in maggioranza ma tuttavia il decalogo non è una serie di proibizioni, un attentato alla nostra libertà, una limitazione alla nostra possibilità di scelta. Una piccola osservazione: nel codice stradale i sensi vietati paradossalmente sono proprio quelli che ci permettono ancora di camminare. Non ci fossero, la circolazione sarebbe impossibile. Saremmo tutti più liberi …di rimanere bloccati. Possiamo condividere o rifiutare questa riflessione; resta il fatto che quelle «10 parole» sono una carta della libertà per un popolo liberato (cfr. Gen 20,2).
Il legalismo nasce quando si concepisce l’osservanza della Legge come un fatto esclusivo dell’uomo, un pagamento di ciò che è dovuto a Dio.
Il Signore Gesù sulla croce ci ha liberati da tutte le schiavitù, da tutte le alienazioni. Non ci impone un peso ma ci annuncia ancora una «buona novella», un’evangelo appunto. Crediamo quindi a Gesù e alle “scritture” come hanno fatto i discepoli (v. 22).
Una piccola conclusione
Allora, qual è l’insegnamento delle letture di oggi? L’Evangelo di Giovanni ci ricorda che il segno dell’amore di Dio per noi non è più il tempio, ma Persona: è Gesù Cristo crocifisso. In lui, nel mistero della sua morte e risurrezione, si realizza la salvezza.
È lui il vero luogo dell’incontro con Dio, lui la vera alleanza, la nostra legge; lui il segno, la garanzia dell’amore di Dio per noi.
In che modo questo segno, viene rivolto a me personalmente, e opera la mia salvezza? Attraverso il battesimo. Il battesimo non è soltanto qualcosa di negativo, cioè cancellazione del peccato o lavaggio di colpe; è un fatto essenzialmente positivo: è la realtà della nostra risurrezione; è irruzione dello Spirito santo, che ci trasforma a immagine del risorto. Nel battesimo, moriamo e risorgiamo con Cristo.
Questa vita nuova è già attuale, e già opera in noi; e un giorno sarà resa manifesta a tutti la nostra gloria di figli di Dio.
E la prima lettura? E i dieci comandamenti? Non sono né l’imposizione di un Dio tiranno, né il semplice risultato di uno sforzo di volontà, ma invece la conseguenza di questa nuova vita che Dio ci ha donato, nella morte e risurrezione di Gesù Cristo.
«La nostra patria, quindi, è nei cieli». «È» e non «sarà», perché col santo Battesimo siamo già cittadini del cielo. Questa è la realtà. Lo «scenario di questo mondo» passa, è soltanto ombra. L’oggetto adeguato della nostra esistenza, non sono le realtà del mondo, ma solo Dio e le sue gesta salvifiche. Solo il Signore è di misura per l’infinita grandezza alla quale siamo chiamati.
L’osservare i dieci comandamenti, il condurre una vita secondo l’evangelo, non è il risultato di uno sforzo, né appannaggio esclusivo di chi è dotato di una ferrea volontà, ma qualcosa che fiorisce in noi. È come un grido che risuona dentro, e che il cristiano non può soffocare.
Cerchiamo di chiarire, facendo due esempi: oggi si parla tanto di celibato e di verginità: ebbene, la verginità è un fatto assolutamente tipico del cristianesimo. Ed è strano, per giustificarlo non vale nessun ragionamento. Infatti la vocazione dell’uomo alla famiglia è tanto forte e decisiva, che nessun motivo umano è tale da giustificare una rinuncia. Ma è l’esperienza della nuova creatura che siamo, che fa rientrare la cosa come assolutamente normale, anzi la più evidente, la più semplice; e non certo l’esortazione al «meglio».
Così il martirio, come fatto di massa e di chiesa, è l’attesa, il desiderio ansioso, la brama della fine di tutto, il «passi questo mondo», il «vieni presto», il «venga il tuo regno». Ma anche questo, non è il risultato di uno sforzo di volontà, ma un’energia, un’esigenza del cuore, che il cristiano non può soffocare, e che è frutto inconfondibile della presenza dello Spirito. Scrive s. Ignazio ai romani: «Vi è in me un’acqua viva e parlante, che mi dice internamente: — Vieni al Padre». Realizzare una tale esistenza sarebbe impresa non solo ardua e difficile, ma senza dubbio impossibile, se si ignora o se si prescinde da questo fatto iniziale: noi non siamo più noi; dentro di noi c’è un Altro, che ci fa amare e gustare queste cose.
Ma contro tutto questo, non sta la nostra esperienza quotidiana? Allora è una realtà esperimentabile da tutti, o è un privilegio di alcuni? Dov’è in noi l’uomo nuovo?
Di fatto, il battesimo è un punto di partenza. Da questa prima immersione nella morte e risurrezione, l’intera esistenza ne dev’essere fermentata e alimentata nel continuo rinnovarsi di questo mistero.
I Colletta
Dio misericordioso,
fonte di ogni bene,
tu ci hai proposto a rimedio del peccato
il digiuno, la preghiera e le opere di carità fraterna;
guarda a noi che riconosciamo la nostra miseria
e, poiché ci opprime il peso delle nostre colpe,
ci sollevi la tua misericordia.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
LEGGI IL BRANO DEL VANGELO
della Terza Domenica di Quaresima – Anno B
Puoi leggere (o vedere) altri commenti al Vangelo di domenica 4 Marzo 2018 anche qui.
- Colore liturgico: Viola
- Es 20, 1-17; Sal.18; 1 Cor 1, 22-25; Gv 2, 13-25
Gv 2, 13-25
Dal Vangelo secondo Giovanni
13Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. 15Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, 16e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». 17I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà. 18Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». 19Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». 20Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». 21Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. 23Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. 24Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti 25e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
- 04 – 10 Marzo 2018
- Tempo di Quaresima III
- Colore Viola
- Lezionario: Ciclo B
- Anno: II
- Salterio: sett. 3
Fonte: LaSacraBibbia.net
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