Lectio Divina di domenica 29 aprile 2018 a cura della Comunità monastica di Pulsano.
Domenica «della vite e dei tralci»
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...I testi scritturistici di questa V Domenica di Pasqua vengono illuminati dal brano evangelico. È un brano assolutamente fondamentale per l’approfondimento del mistero in cui siamo immersi per il battesimo. Se leggiamo questo testo in parallelo con gli altri passi proposti, possiamo vedere un filone fondamentale che li attraversa.
Negli Atti emergono soprattutto la forza e la franchezza con cui Paolo riesce a testimoniare la propria fede nel Cristo morto e risorto, con il quale ha avuto un incontro vitale sulla via di Damasco.
Nel brano della prima lettera di Giovanni è detto che noi riceviamo misteriosamente in noi stessi la testimonianza dello Spirito, che ci conferma che Gesù è Figlio di Dio e che «dimora in noi» (v. 24). Tale testimonianza genera in noi la fede, cioè la forza di aderire a una realtà che supera totalmente le nostre capacità conoscitive, la forza di aderire con tutto l’essere a un mistero che non ci è assolutamente possibile verificare о dimostrare. Da questa fede, generata dallo Spirito vivificante, che ci incorpora al Signore Gesù, deriva per noi la possibilità di attuare il comandamento di Cristo: «…che vi amiate scambievolmente come io vi ho amati» (Gv 15,12). È questo un amore che non è da intendersi nel senso di uno sforzo sostanzialmente nostro di amare, bensì nel senso di un nostro essere presi nel movimento di amore di Dio per gli uomini: afferrati e trascinati da questo moto divino, noi dobbiamo cercare di rispondere con opere concrete, aderendo momento per momento a quel segreto moto d’amore, che la fede scopre, e che ci fa scegliere di operare contrastando tutto ciò che si oppone a Dio in quanto amore.
Presi da questo amore e protesi a operare secondo i suoi impulsi, il nostro cuore non sarà spaventato dal giudizio di Dio, quand’anche questo stesso cuore ci rimproverasse qualche cosa. E questo non perché non verrà portato più nessun giudizio su quelle azioni che possiamo rimproverarci; ma perché l’amore divino da cui ci saremo lasciati portare e a cui avremo cercato di rispondere con le opere, ci investirà purificandoci da ogni colpa.
Lo sguardo della Chiesa oggi è dunque ancora concentrato sul suo Signore Risorto, mentre presenta se stesso come «la vite vera», e come «il Visibile del Dio Invisibile» (i Padri).
La Divina liturgia inizia nella gioia del “canto nuovo”:
Antifona d’Ingresso Sal 97,1-2
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto prodigi;
a tutti i popoli ha rivelato la salvezza. Alleluia.
Nell’antifona d’ingresso: Sal 97,1-2, SRD (Salmo della Regalità divina) l’orante, che può essere un personaggio sacerdotale o un levita, il solo autorizzato a dirigere il canto della santa assemblea nel santuario della divina Presenza, con un tipico imperativo innico invita i confratelli oranti a disporsi alla divina Presenza, e a modulare «il cantico nuovo», la lode perenne e sempre la medesima motivata dal fatto che «fatti mirabili operò il Signore» (v. 1a).
Tale invito è frequente nella Scrittura dell’A. T. (Sal 32,3; 39,4; 95,1; 143,9;149,1; Gdt 16,2.15; Is 42,10, etc), e del N. T., dove se ne scopre il senso ultimo. Infatti in Ap 5,9 all’Agnello, il Servo sofferente (Is 53,7-8) ma risorto, i 4 Viventi e i 24 Anziani cantano il «cantico nuovo»; in Ap 14,3 i 144.000 redenti in Sion cantano ancora all’Agnello questo «cantico nuovo». Ma ecco in Ap 15,3 gli Angeli, in un’immensa liturgia, cantano il «cantico di Mose, il servo di Dio, e il cantico dell’Agnello», rivelando:
il «cantico nuovo» significa «primo e ultimo». Quando il Signore con Mose fece passare il Mar Rosso alla massa degli scampati dalla schiavitù dell’Egitto, creandosi così il suo popolo diletto, Israele, questo cantò il canto della divina Vittoria (Es 15,1-18);
il Signore opera ancora quel fatto antico sempre mirabile, così che l’esodo redentore diventa tipologico nella storia. Perciò quel “cantico” celebra in permanenza il Signore che in modo permanente riporta la vittoria sui nemici del suo popolo santo, nemici anche di tutti gli uomini: il Peccato, il Male, la Morte, l’Inferno (personificazioni del diavolo), che in realtà sono i nemici del Signore stesso.
E precisamente il «cantico nuovo» è di rigore “oggi”, adesso, all’ultimo dei tempi, quando il Signore nell’Agnello che morì ma che fu resuscitato dallo Spirito Santo, riportò la Vittoria finale ed eterna su quei nemici, e così fece passare il suo popolo scampato dalla schiavitù del peccato al Mare di cristallo, che segna la sfera divina (Ap 15,2). Questo è il passaggio dalla schiavitù vecchia del peccato alla Libertà divina, dalla Morte alla Vita, e Libertà (Gal 5,1) e Vita (Gv 6,63) sono due splendidi nomi dello Spirito Santo. La redenzione dell’Israele di allora, dall’Egitto, ripetuta più volte nella storia, si prolunga e si attua nella divina Redenzione portata adesso agli uomini dal Signore, con il massimo evento tra le sue «gesta mirabili», la Resurrezione del Figlio. Preannunciata dall’A. T., testimoniata e predicata dagli Apostoli (At 10,34-38) nel mondo intero, essa è la Rivelazione finale dello Spirito Santo: la Giustizia divina, il nome che indica l’infinita Misericordia, giunge adesso a investire le “nazioni” (Sal 93,3; Is 42,6; 49,6; Lc 2,31). Investite dall’evento dell’Iniziazione, quelle “nazioni”, ossia i fedeli redenti, sono invitati dall’Orante con ben 4 imperativi innici, giubilate, cantate, gioite, salmodiate (Sal 97,4), a unirsi nella lode che come popolo santo, l’Israele di Dio, i fedeli innalzano al loro Signore Vivente (Sal 97,5): cantando ancora e sempre la divina Vittoria, la medesima ma rinnovata. Per questo il canto di Es 15,1-18 è “nuovo” nel senso biblico, ossia è il medesimo, il primo e l’ultimo e l’eterno. Al Mar Rosso e al Mare di cristallo il Signore a tutto il mondo degli uomini, anche alle nazioni pagane, rivelò la sua “Giustizia”, che biblicamente è l’intervento divino, misericordioso e soccorritore, sempre pronto a produrre l’Evento dell’azione redentrice (Sal 97,2). E questa è la Resurrezione del Figlio. Così la Rivelazione della Gloria irraggiante e trasformante è accolta dal giubilo universale (v. 2)». (cfr T. Federici, Cristo Signore Risorto Amato e Celebrato, Eparchia di Piana degli Albanesi, Palermo 2001).
Dopo la similitudine del Buon Pastore la liturgia ci propone, in questa V Domenica di Pasqua, l’allegoria carica di simbolismo della vite e dei tralci.
La proclamazione evangelica è orientata dall’esortazione del Signore di fare dimora in Lui, come Egli la pose negli uomini (v. 4a) , al fine di portare molto frutto di fede e di carità (v. 5b):
Canto all’Evangelo Cf Gv 15,4a.5b
Alleluia, alleluia.
Rimanete in me e io in voi, dice il Signore;
chi rimane in me porta molto frutto.
Alleluia.
In greco àmpelos si traduce sia “vite”, sia “vigna”. È probabile che il secondo significato, che di gran lunga è stato abolito dal primo, sia quello vero. Infatti l’A. T. parla della tipologia della vigna, e meno assai di quella della vite. Con l’immagine della vite e dei tralci Gesù vuole rivelare ai discepoli quale vincolo li unisce a sé e come sia necessario che essi rimangano sempre uniti a lui se vogliono portare frutti, mentre il Padre si prende cura della vigna e pota ogni tralcio perché porti più frutto. Questa V domenica è dominata da quella che potremmo chiamare la coscienza della Chiesa circa la sua vita e la sua missione nel tempo che passa fra la dipartita del Signore e il suo ritorno finale.
Se riprendiamo la tabella con le citazioni delle letture delle Domeniche di Pasqua nei tre cicli, osserviamo che le letture evangeliche riferiscono tre momenti del discorso d’addio nel quale il Signore insegna quali dovranno essere le relazioni fra i suoi discepoli e lui dopo la sua resurrezione.
Le letture tratte dal:
1. libro degli Atti parlano dei ministeri nella comunità [Istituzione dei diaconi (A); vocazione apostolica di Paolo (B); costituzione di alcuni anziani (C)]
2. le letture apostoliche di alcune caratteristiche della Chiesa [Pietre vive (A); amare coi fatti e nella verità (B); come sarà nel giorno delle nozze definitive col suo creatore (C)].
I lettura: Atti 9,26-31
La lettura quasi completa degli Atti in questo Tempo liturgico, nei 3 Cicli, fa meditare sulla Chiesa mentre nasce e cresce. Il suo nucleo originante sono i discepoli che vissero con il Signore (vedi At 1,12-26; 10,41-42). Tuttavia, e in un certo senso in modo abbastanza reale, «Dio ha bisogno degli uomini», e se li prende al suo servizio, anche assumendoli tra i nemici suoi e del suo popolo. Saul era un nemico acerrimo e persecutore violento, il Signore lo abbatte a terra, poi lo rigenera con lo Spirito Santo (9,1-19), e lo fa diventare Paolo, ossia ne fa il suo più strenuo annunciatore, prima tra gli Ebrei fratelli suoi (9,20-30), poi tra le nazioni pagane.
La Lettura di oggi narra di Saul che dopo una dimora a Damasco, dove predicava Cristo Risorto (9,20-22), è preso di mira dai suoi antichi confratelli ebrei (9,23-24), finché deve fuggire da Damasco (9,25). E si reca a Gerusalemme, dalla Comunità Madre, ma questa ha paura di lui, il persecutore famigerato, e ancora non è certa che abbia accettato come “discepolo” la fede di Cristo Signore (v. 26). Entra in scena una figura forte, generosa e santa, Giuseppe il levita, di Cipro, detto in aramaico grecizzato Barnaba, da Bar-Nahmà \ ossia «figlio della consolazione» (forse, forma ipocoristica del nome Nehem-jah, Nehemia). Egli era noto per la sua carità verso i poveri degli Apostoli (4,36-37). Così subito si fa carico di Paolo, lo introduce nella comunità degli Apostoli, e sotto la sua responsabilità lo presenta secondo l’avvenuto, poiché a Saul nella sua spedizione punitiva contro i cristiani di Damasco si era manifestato il Signore, e gli aveva parlato, e da allora egli aveva predicato il Nome di Gesù, la sua Divinità, «con coraggio», la parrhèsia (v. 27). Questo termine greco (alla lettera, pan rhèma, parola intera, ossia non impedita) indicava la libertà, assicurata dall’impunità, con cui l’oratore prendeva la parola nell’assemblea deliberante della polis, in pratica Atene. In regime cristiano significa l’atteggiamento convinto e aperto, intrepido e senza paura degli uomini, fondato sulla fiducia in Dio, del quale si predicano i diritti annunciando l’Evangelo. Paolo è accettato dai fratelli, e a Gerusalemme stessa predica «con coraggio» agli Ebrei il Nome del Signore (v. 28).
Facevano parte degli Ebrei anche gli “ellenisti”, ossia Ebrei venuti dalla diaspora di cultura greca, i quali erano i più intolleranti, tanto che attentavano alla vita di Paolo che cercava di predicare anche a essi (v. 29). I fratelli cristiani allora per prudenza lo avviano a Cesarea, la capitale romana della Palestina, un porto di mare, da dove Paolo naviga per la sua patria, Tarso di Cilicia, nell’Asia minore (v. 30).
Il v. 31 è un “sommario” degli Atti, dove con poche note Luca fa cogliere lo stato d’avanzamento della giovane Chiesa. Questa adesso è ancora la Chiesa Madre, composta di Ebrei e diffusa ormai in gironi da Gerusalemme alla circostante Giudea alla periferica Galilea e alla confinante Samaria. Essa godeva di una pace momentanea (vedi poi le persecuzioni del cap. 12), e intanto «si edificava», ossia si costruiva robustamente, così da procedere nel «timore del Signore», che è il volenteroso adempiere ai divini precetti.
Da notare che la vocazione apostolica di Paolo non dipende né dai dodici né dalla comunità di Gerusalemme. Pur vigilando a non isolarsi dalla chiesa-madre, l’apostolo ci tiene molto a questa originalità (Gal. 1, 15-24). Preoccupato soprattutto di mostrare l’unità organica della missione della Chiesa, Luca attenua le discussioni con una descrizione entusiasta dell’unità e del progresso dell’evangelizzazione.
L’unità non è mai perfetta, e tuttavia la missione non può dispiegarsi realmente nel mondo che in una unità profonda assicurata dalla Chiesa-madre. Ma questa deve saper riconoscere l’azione dello Spirito nel ministero di coloro che non sono nati da lei.
Come nota finale, e magnifica, la comunità appare riempita della paràklèsis dello Spirito Santo. Il termine significa sia la grazia dello Spirito Santo come «forte esortazione» a perseverare senza tentennare e temere, lo Spirito Santo essendo il Paràklètos, l’Avvocato onnipotente; sia, ma forse meno, “consolazione” degli operatori e degli afflitti, che ricevono la piena del cuore che fa bene dentro (tale significato è prevalso dalla spiritualità devozionale consolatoria del medio evo) (v. 31). Ma i due sensi, se non sono esclusivi l’uno dell’altro, possono andare bene insieme.
Per quanto riguarda il contesto della pericope evangelica. abbiamo già anticipato come essa faccia parte del libro degli addii un lungo discorso contenente le ultime cose che Gesù avrebbe detto nell’ultima cena, e in particolare ai suoi discepoli.
Il carattere composito di Gv 13-17 rivela che i discorsi di addio sono nati da un lungo processo di raccolta, dapprima di piccole unità (detti di Gesù che riguardavano uno stesso argomento), legate poi insieme in complessi sempre più vasti fino a formare l’attuale composizione.
La loro attuale unità è di carattere redazionale, non storico; essi in altre parole, non furono pronunciati tutti nell’ultima cena, anche se in parte trovano in essa il loro ambiente più naturale.
Gv 13-17 si può dividere in quattro grandi parti:
1. la prima è quella che dà l’ambientazione (13,l-35),l’ultima cena, e presenta insieme anche il tema fondamentale dell’addio per un ultimo supremo servizio di amore, simbolicamente presentato nella lavanda dei piedi;
2. la seconda (13,36-14,31): dopo una breve introduzione con la predicazione del rinnegamento di Pietro (13,36-38), si snoda in un primo discorso sulla fede e l’amore come risposta al turbamento dei discepoli per la prossima partenza di Gesù;
3. la terza (15,1-16,33) è un secondo discorso, in parte parallelo al primo, sull’amore e la fede come risposta all’odio del mondo;
4. la quarta parte (17,1-26), infine, è la solenne preghiera conclusiva al Padre per sé, per gli apostoli e per i futuri credenti.
Il nostro brano è tratto dalla terza parte del «libro degli addii», che contiene come abbiamo detto il secondo discorso sul tema dell’amore e della fede, in risposta all’odio del mondo.
Per quanto riguarda il contatto con i sinottici, oltre alla somiglianza formale con Lc 22,21-38, dove si trova pure una specie di discorso di addio proprio durante l’ultima cena, tre sono gli elementi comuni:
- l’annuncio del tradimento di Giuda,
- la predizione del rinnegamento di Pietro
- la predizione della dispersione dei discepoli.
Esaminiamo il brano
v. 1 «Io sono la vite vera»: Gesù aveva già detto «Io sono il pane vivo» (Gv 6,51) e «Io sono il buon pastore» (Gv 10,11); Gesù è colui che realizza pienamente (vera) ciò che la vite naturale esprime.
Come il tema del pastore quello della vigna è molto presente nell’AT con riferimento al popolo eletto che è chiamato vigna di Dio. Così Osea (10,1) parla d’Israele «rigogliosa vigna che dava frutto abbondante».
Per bocca d’Isaia il Signore canta l’amore per la sua vigna (Is 5,1-2); la vigna però non ripaga il lavoro producendo buoni frutti (Is 5,3-7).
Anche Geremia comunica il lamento di Jahvé che interroga «Io ti avevo, piantato come vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora, come mai sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?» (Ger 2,21; ma anche 5,10; 6,9; 12,10); così anche Ezechiele (15,1-8; 17,3-10; 19,10-14) che canta l’incapacità a produrre della vigna-Israele (cfr. anche Sal 80).
Gesù collegandosi a questa tradizione profetica, riprende il simbolo della vigna per annunciare il mistero del Regno di Dio nei sinottici (Mc 12,1-9; Mt 21,28-41; Lc 20,9-16 la parabola dei vignaioli omicidi).
Ma è ancora l’evangelista Giovanni ad andare oltre, in profondità e a proporci il mistero della vigna che non è soltanto figura del Popolo di Dio, ma dello stesso Gesù.
Anche qui, come per il pastore e il gregge, Cristo e la Chiesa si fondono nell’immagine della vite e dei tralci. Da questa fusione o comunione della vite e dei tralci, ne scaturisce la conseguenza essenziale quanto esaltante che la vigna rimarrà per sempre fedele a Dio, perché Gesù e non più il popolo è la “Vite”.
D’ora in poi la vigna non può più essere infedele perché è divenuta fedele e santa la sua radice.
vv. 2-3 La doppia azione del vignaiolo, eliminare i tralci secchi e potare quelli fruttuosi, riassume l’attività del Padre nei confronti della comunità dei discepoli. La potatura avviene mediante la parola di Gesù, accolta nella fede.
«non porta frutto»: è un’azione non imputabile a una serie di circostanze sfavorevoli, a difficoltà esterne di vario genere, ma unicamente a cattiva volontà.
v. 4 «rimanere in»: (in greco ménēi en) è l’espressione dominante in questa prima sezione del secondo discorso di addio; nei vv. 1-11 ricorre ben dieci volte.
Come il tralcio che rimane attaccato al ceppo della vite riceve linfa e diventa verdeggiante e fruttifero, così il fedele che rimane in comunione di fede e di amore col Cristo produce frutto e partecipa della vita divina.
La motivazione di questo «dimorare reciproco» è che il tralcio non è autonomo, esso porta frutto solo se è attaccato vitalmente alla vite madre. Così è per i discepoli, i tralci, in relazione al Signore, la Vite. È la celebrazione dell’intimità, della comunione profonda tra il Cristo e il fedele, tra lo Sposo e la Sposa: essa avviene attraverso un duplice movimento:
a) da un lato è Cristo che, incarnatosi, scende in mezzo a noi, entra nella nostra esistenza, rivela la sua parola di salvezza.
b) d’altro lato, però, anche il credente deve rivolgersi a lui, affidarsi al suo amore, ascoltare la parola proclamata seguirne le indicazioni di vita.
Il rimanere è dunque, frutto dell’abbraccio di due libertà, di due volontà, di due amori, quello di Dio e quello dell’uomo.
v. 5 Tutto quello che è stato espresso finora nei contenuti, viene ora affermato chiaramente: la vite intera è formata da Gesù-ceppo e dai fedeli-tralci.
«senza di me non potete fare nulla»: è una delle affermazioni più radicali di tutto l’evangelo; già il Prologo affermava categoricamente: «senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,3).
Questo ci porta severamente a giudicare quante nostre iniziative attiviste sono studiate a tavolino e poi poste allegramente in atto, senza vedere frutto: perché erano «senza di Lui». Infatti il tralcio che non dimora in Lui si dissecca, e allora a suo tempo è tagliato via e arso con il fuoco.
v. 6 «Chi non rimane in me»: la separazione è possibile, ma chi si stacca da Gesù è condannato alla perdizione (cfr. la terminologia escatologica con Mt 3,10; 7,19; 8,12; 13,42).
«Aut vitis aut ignis» commentava lapidario sant’Agostino: “O la vite o il fuoco”. Il legno della vigna non è buono a nulla se non ad essere bruciato.
v. 7 «domandate… vi sarà fatto»: la preghiera esaudita di chi rimane in Gesù rientra certamente nei «frutti».
v. 8 «porta frutto»: il Padre è glorificato nei frutti di amore e di apostolato dei discepoli. Il Padre sarà glorificato «se amiamo non a parole, né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. Da questo conosceremo che siamo nati dalla verità» (cfr. 2a lett.).
Cristo è la vera vite: ogni nostra fecondità, ogni possibilità di esprimere amore deriva dalla nostra adesione a lui, come tralci alla vite, che vivono della linfa che da essa viene. Col battesimo, siamo innestati in questa vite, anima e corpo. Ma è una strana vite questa a cui si paragona il Signore: una vite a cui i tralci devono costantemente «scegliere» di rimanere attaccati. Dunque, l’innesto avvenuto nel battesimo, per non volgersi a nostra condanna e farci trattare quali tralci che non portano frutto, deve essere continuamente «accolto», «accettato», lungo tutta la vita. E questo come? Con una costante adesione di fede vissuta alla parola del Signore che giorno per giorno opera in noi: «È viva infatti la parola di Dio, efficace e tagliente più di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e giudica i sentimenti e i pensieri del cuore» (Ebr. 4, 12).
Ma la parola così accolta nella fede ci conduce ad aprirci alla parola fatta carne che si dà a noi, realizzando la pienezza dell’unione nei tralci con la vite divina: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me, e io in lui» (Gv. 6, 53.56).
Se così rimaniamo in Cristo, aderendo alla testimonianza interiore dello Spirito, alimentati della parola di Dio scritta e incarnata, allora pian piano i nostri sentimenti diverranno i sentimenti stessi del Signore e la nostra preghiera sarà esaudita: «Se rimanete in me, e le mie parole rimangono in voi, domandate quello che volete e vi sarà dato» (15, 7). E questo avverrà perché non sapremo più chiedere altro che l’unico vero bene: la volontà di Dio.
Così anche la II Colletta:
O Dio, che ci hai inseriti in Cristo
come tralci nella vera vite,
donaci il tuo Spirito,
perché amandoci gli uni agli altri di sincero amore,
diventiamo primizie di umanità nuova
e portiamo frutti di santità e di pace.
Per il nostro Signore…
CRISTO «VITE VERA»
Vediamo ancora perché il nostro Salvatore paragonò se stesso alla vite.
«Io sono la vite vera e il coltivatore è mio Padre».
Nella vite del suo corpo fu nascosta la dolcezza della sua divinità; nella vite del suo corpo fu innestato il tralcio e il ramoscello della nostra umanità. Dalla vite del suo corpo, per noi sgorgò la bevanda che saziò la sete nostra. Dal ramoscello della sua umanità rivi scorsero a noi per grazia sua.
Tace la vite quando colgono l’uva, come il Signore nostro quando lo giudicano; tace la vite, quando è spogliata, come il Signore nostro quando è oltraggiato; tace la vite, quando la potano, come il Signore nostro, quando lo uccidono.
Invece di quella vite antica, che aceto offrì al suo padrone, una vite di verità spuntò per noi dal seno della giovine. Questa è la vite, che inebriò gli uomini e possedettero la vita; questa è la vite, che, con il suo chicco, il mondo lava dalle iniquità.
E il grappolo che spremette se stesso nel Cenacolo, nel tempo vespertino, e nel calice si dette ai suoi discepoli, che è il testamento di verità, poiché la sua ricchezza non vien mai meno.
ClRILLONA, Discorso dell’ultima cena, versi 288-320. Il testo originale è in lingua sira. Trad. it. di C. Vona, I carmi di Cirillona, Roma 1963, pp. 108-110
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IV Domenica del Tempo di Pasqua
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- Colore liturgico: Bianco
- At 4, 8-12; Sal.117; 1 Gv 3,1-2; Gv 10, 11-18
Gv 10, 11-18
Dal Vangelo secondo Giovanni
11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
- 22 – 28 Aprile 2018
- Tempo di Pasqua IV
- Colore Bianco
- Lezionario: Ciclo B
- Anno: II
- Salterio: sett. 4
Fonte: LaSacraBibbia.net
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