Lectio Divina di domenica 12 Maggio 2019 – Comunità di Pulsano

Lectio Divina di domenica 12 Maggio 2019 a cura della Comunità monastica di Pulsano.

DOMENICA «DEL PASTORE BUONO»

Tutto quello che si può dire sul cristianesimo come esperienza di comunione e di salvezza, si trova sintetizzato nei versetti che concludono il discorso di Gesù sul vero pastore. Dopo un primo sviluppo in cui si è presentato come la porta delle pecore e il loro pastore, Gesù ha interrotto il suo discorso. Ma i suoi avversari non si accontentano di un’allegoria e insistono per una dichiarazione esplicita: «Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente» (Gv 10,24). Per tutta risposta, Gesù si limita a descrivere l’atteggiamento che le sue pecore devono avere nei suoi confronti: è lo stesso che i credenti di ogni tempo dovranno assumere nei confronti dell’inviato di Dio.

La fonte della loro comunione con lui? «Io e il Padre siamo una cosa sola». Gesù non è soltanto il vero, il buon pastore: lo è alla maniera di Dio, nel modo in cui Jahvé, nell’antico testamento, guidava e salvava il suo popolo. L’unione del Padre e del Figlio è la fonte della reciproca appartenenza del Cristo e dei cristiani. — Il mezzo per attingere a questa fonte? «Le mie pecore ascoltano la mia voce… e mi seguono». Il Padre ha affidato le sue pecore a Gesù, e questi dona loro la vita eterna, con una certezza che si intuisce soltanto contemplando la croce. «Non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano». Gesù è nello stesso tempo il pastore e l’agnello immolato: ha pagato la nostra salvezza con la sua vita. — Il fondamento di questa comunione? «Io le conosco». Tra Gesù e i suoi si crea un rapporto di intimità da cui scaturisce un modo nuovo di vivere. Noi dobbiamo vivere in lui come la luce dipende dal sole, come il soffio deriva dal vento.

Tutto questo non avviene senza fatica: il cammino della pasqua conosce sofferenze che ricordano i dolori del parto, dolori che preludono e fanno sbocciare una vita nuova.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 32,5-6

Della bontà del Signore è piena la terra;

la sua parola ha creato i cieli. Alleluia.

Il sal 32 è per intero una poetica e forte dossologia al Signore. Esso in specie è prezioso per la teologia che scaturisce soprattutto dai vv. 6 e 9, che cantano il Signore per l’irresistibile sua Potenza divina creatrice. Con totale facilità infatti Egli crea l’universo con la sua Parola (v. 6a) e con lo Spirito suo (v. 6b), parla e comanda, e tutto esiste (v. 9; rinvio immediato è a Gen 1,1-3.6-7.8-31; a Gdt 16,7; Sap 9,1; Gv 1,1-3; Ebr 11,3 e 1,1-4). Per questo motivo il Signore con la sua Misericordia, ossia il suo comportamento dell’alleanza fedele, riempie la terra intera, l’intero spazio tempo dell’esistenza (v. 5b; anche 103,24; 118,64;   6,3; 11,9; Ab 3,3). Sì che ne gioiscono e lodano i giusti e retti di cuore, celebrando il Signore con Salmi (con cetra e arpa a dieci corde), con il «cantico nuovo», il grande grido di giubilo che sale al cielo (vv. 1-3), a motivo della Parola giusta e dell’Opera fedele del Signore (v. 4). I Padri a partire da testi così densi ed essenziali svilupparono pagine mirabili di teologia trinitaria. La Parola e lo Spirito del Padre sono i fattori della Resurrezione del Figlio e della Pentecoste sui discepoli e proprio questa è la divina Misericordia finale che riempie la terra. L’Alleluia finale si pone come la nota del giubilo adorante e laudante di oggi.

Canto all’Evangelo Gv 10,14

Alleluia, alleluia.

Io sono il buon pastore, dice il Signore;

conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me.

Alleluia.

La proclamazione dell’Evangelo di oggi è orientata dalla formula “Io sono” che rinvia alla rivelazione del Signore a Mosè al Roveto ardente, quando gli comunica il suo Nome divino, indicibile e inviolabile, il sacro tetragramma IHWH (Es 3,14). Il titolo di “Pastore buono” indica il suo amore per l’intero gregge delle sue pecore (cf evangelo Dom. III di Pasqua C) con cui ha uno stretto rapporto di “conoscenza” reciproca, conoscenza propriamente nuziale, al modo biblico, segnato dalla formula di reciproca appartenenza nuziale: «Voi mie – Tu nostro» (vedi anche Sal 22,1), che rivela reciproco possesso e fedeltà ed è anche la formula dell’alleanza (vedi Es 6,7; Lv 26,11-13; Is 40,1; Ger 7,23; 11,4; 30,22; 31,1; Ez 36,28).

Proprio l’alleanza fedele di Dio ha riversato su di noi la divina Misericordia fino a riempire tutta la terra e noi assemblea orante questo lodiamo ed adoriamo con giubilo.

Antifona alla Comunione

E’ risorto il buon pastore, che ha dato la vita

per le sue pecorelle, e per il suo gregge

è andato incontro alla morte. Alleluia.

L’antifona alla comunione, una composizione di testi da Gv 10, è un testo «kerygmatico», nel senso che enuclea i punti principali della fede apostolica. Oggi la Chiesa Sposa celebra il Pastore Risorto, donatosi in modo volontario e libero alla morte salvifica per il suo gregge, ma in virtù della morte donando lo Spirito del Padre e suo. Il suo amore «qui oggi» per i suoi fedeli si concreta meravigliosamente nel Dono inconsumabile dello Spirito Santo, operante attraverso la Parola e la Mensa dei Misteri per il “gregge” santo radunato che è questa Chiesa, la Sposa, la Diletta, l’Orante, santificata, nutrita divinamente, a cui si apre divinamente la Vita, e Vita eterna e abbondante.

I Colletta

Dio onnipotente e misericordioso,

guidaci al possesso della gioia eterna,

perché l’umile gregge dei tuoi fedeli

giunga con sicurezza accanto a te,

dove lo ha preceduto Cristo, suo pastore.

Egli è Dio… 

La liturgia di questa IV Dom. di Pasqua è caratterizzata dunque dal titolo di “Pastore” con il quale Cristo si presenta al mondo. Il «Pastore» biblicamente è il Re ed il Capo (titoli rivendicati anche dai re dell’antico Oriente); qui però il Pastore è il divino Pastore di Ez 34, ed il gregge suo è questo popolo suo che da lui attende e riceve guida, protezione, cibo e acqua buona. Il discorso del «Pastore Buono» è distribuito nei tre cicli di questa domenica: ciclo A (10,1-10); B (10,11-18); C (10,27-30).

Il testo evangelico di quest’anno, pur brevissimo è di una ricchezza inesauribile e può considerarsi a ragione una specie di epilogo di tutto il capitolo 10.

La prova è data dalla ripresa dei medesimi temi e degli stessi termini: le pecore, il conoscersi, la sequela, l’ascoltare la voce, il dono della vita a cui si aggiunge un’affermazione nuova «le pecore non periranno mai e nessuno le strapperà dalla mano del pastore» (v. 28).

Tanta ricchezza tuttavia rischia di non essere utilizzata, per cui si è ampliata la lettura della pericope al suo contesto; i vv. 22-42 che abbiamo letto portano ad una buona intelligenza del testo.

L’episodio del nostro brano è avvenuto durante la festa giudaica della Dedicazione del tempio; ci troviamo quindi in un contesto liturgico e cronologico diverso da quello dei capitoli immediatamente precedenti.

Nei cc. 7-8 dell’evangelo di Giovanni eravamo agli inizi dell’autunno, durante la festa delle Capanne; in Gv 10,22 siamo collocati nel periodo invernale.

Evidenziamo alcune caratteristiche generali del brano in esame:

  1. il tono delle espressioni appare aggressivo e polemico, mentre nel brano precedente (10,1 ss) non avevamo un dialogo così serrato e violento. Il discorso sul buon Pastore e la porta ha punte polemiche, ma il linguaggio velato e allusivo di Gesù non suscita reazioni violente da parte dei giudei. Invece in Gv 10,22 ss il clima del dialogo si arroventa subito, anzi l’azione drammatica sfocia in tentativi di lapidazione e di cattura.
  2. il tono generale appare molto simile a quello di Giovanni cc. 7-8; anche la tematica di fondo, «l’incredulità e la fede nel Messia Figlio di Dio», si rivela identica. Infatti in Gv 7 l’argomento centrale è il rifiuto della messianicità di Gesù, mentre in Gv 8 è il rifiuto della sua divinità.

Tutto il brano in esame sembra racchiuso dall’inclusione tematica formata dal verbo credere. Nel passo iniziale il Maestro rimprovera ai giudei la loro incredulità (v. 25), mentre la pericope termina con l’annotazione dell’evangelista sulla fede di tante persone in Gesù (v. 42).

Per sintetizzare: la pericope di Gv 10,22-42 è formata da una breve introduzione di carattere narrativo (v. 22s), da una conclusione sul ritiro del Maestro oltre il Giordano (vv. 40-42) e da due brani che contengono tematiche simili e nei quali il discorso è orientato verso le proclamazioni finali di Gesù sulla sua divinità (vv. 30. 38) e le reazioni fortemente ostili dei giudei (vv. 31.39).

Esaminiamo il brano

22-23 – Giovanni riferisce che Gesù si trovava in Gerusalemme, durante la festa della Dedicazione del tempio, che era inverno e che passeggiava al riparo del portico di Salomone. La dedicazione di cui si parla non è quella originale di Salomone, il primo costruttore, ma è quella di Giuda Maccabeo.

Verso la metà di dicembre del 164 a. C. Giuda Maccabeo aveva riconsacrato (ristabilendo il culto) il tempio di Gerusalemme, profanato 3 anni prima (167 a. C.), nello stesso giorno, da Antioco IV Epifane.

La festa durava 8 giorni ed era detta anche «festa dei lumi» per le luminarie accese dovunque in segno di gioia (Cfr. 1 Mac 4,36-59; 2 Mac 1,8-9.18; 10,1-8).

24 –1 giudei si avvicinano a Gesù e gli chiedono di rivelare apertamente chi è, quale la sua condizione? Non è la prima volta che i giudei pretendono da Gesù una rivelazione chiara: Gv 8,25; 2,18; 5,16 ecc.

I giudei mascherano l’ipocrisia del loro cuore, dichiarando di avere l’animo sospeso; a parole mostrano un desiderio sincero di conoscere la verità sul Cristo, ma in realtà desiderano solo pretesti e prove per accusarlo e condannarlo.

Essi sanno pressappoco ciò che Gesù pensa di se stesso, ma vogliono un termine tecnico, una dichiarazione che lo comprometta definitivamente e consenta loro di toglierlo di mezzo.

Tentativi simili sono numerosi, ricordiamo l’episodio dell’adultera (di Gv 8,4-6; V Dom. di Quaresima anno C), la questione famosa e tanto abusata (sempre a nostro vantaggio) del tributo da pagare a Cesare (cfr. Mc 12,13 ss).

Uno sguardo alla sinossi ci mostra l’esistenza di passi paralleli e affini negli altri evangelisti (vedi tabella):

Giovanni

Matteo

Marco

Luca

10,24

26,63

14,61

22,66-67a

10,25a

 

 

22,67b

10,33

26,65

14,63-64a

22,71

Questi passi sinottici si trovano nel processo di Gesù davanti al sinedrio, durante il quale il Maestro fu condannato per aver proclamato di essere il Messia, il Figlio di Dio l’Altissimo.

Secondo i sinottici, Gesù è stato sottoposto a questo interrogatorio dai capi durante il processo, storicamente avvenuto dopo l’arresto.

Non è improbabile che il quarto evangelo si riallacci a questa tradizione antichissima, anticipando il processo di Gesù alla fine del suo ministero pubblico.

La risposta di Gesù si definisce in due tappe (vv. 25-31 e vv. 32-39) e ciascuna si conclude con una minaccia di morte.

25 Gesù risponde di aver già dichiarato quello che loro si mostrano preoccupati di sapere. Soprattutto ha dimostrato loro chi è con le sue opere; Gesù ha compiuto le opere del Padre, opere eccezionali, che nessun altro ha mai fatto. Non a caso la guarigione di un cieco nato e la resurrezione di Lazzaro racchiudono, come in un cofanetto prezioso, tutto il c. 10.

26 – Essi non credono perché non vogliono credere, non fanno parte delle sue pecore, ecco la ragione vera (cfr. Pr 28,5).

27 – Sono sue pecore quelle che ascoltano la sua voce e lo seguono (cfr. Gv 10,3-4).

L’ascolto, nella Bibbia, non indica un’azione passiva, ma una volenterosa apertura e una totale disponibilità nei riguardi di colui che parla. Oltre ad ascoltarlo le pecore lo seguono con libera e gioiosa iniziativa.

Il confronto con i vv. 3-4 ci permette di evidenziare un modo tipico in Giovanni di procedere nel discorso; si tratta dei parallelismi tematici (es. scala a chiocciola):

Gv 10,3-4

Gv 10,27

Le pecore ascoltano

Le mie pecore ascoltano

La sua voce…

La mia voce…

e le pecore lo seguono

e mi seguono

Le pecore escono dal recinto (vedi struttura del recinto); Conoscere: nella bibbia la «conoscenza» deriva non da un processo puramente intellettuale, ma da una «esperienza». In Os 2,21-22 la «conoscenza del Signore» accompagna la hesed.

Il termine hesed esprime esprime anzitutto l’idea d’un legame, d’un impegno, d’una fedeltà:

  1. in campo profano sta a designare l’amicizia, la solidarietà, la lealtà.
  2. è riferito spesso all’immagine dell’unione coniugale;
  3. nel linguaggio religioso esprime l’amore di Dio per il suo popolo (spesso il Signore è indicato come lo «sposo» cfr. Gv 3,29).

28 – Dopo aver indicato le qualità spirituali delle sue pecore, Cristo parla delle sue qualità, delle sue mansioni di pastore degno di essere ascoltato e seguito.

Mentre l’affermazione del pastore che dà la vita riprende un motivo del precedente discorso (v. 11), l’altra affermazione è nuova in tutto il discorso fatto precedentemente.

«Le sue pecore non andranno perdute»: cfr. Gv 17,12 (richiesta al Padre nell’ultima cena); 18,9 (nel Getsemani).

Nella mano di Gesù le pecore sono al sicuro da ogni pericolo. Per la bibbia la mano è simbolo di potenza:

  • Dt 32,39 (nessuno può sfuggire dalla mano di Dio, padrone di tutti e di tutto);
  • Is 43,13 (nessuno può contrastarlo; ricorda Gamaliele in Atti 5,38-39);
  • Is 49,2 (il messia stesso è sotto l’ombra della mano di Dio);
  • Is 51,16; Dt 33,3; Sap 3,1 (come lo sono anche i giusti);
  • Gv 3,35 (il Padre ama il Figlio e gli ha dato tutto in mano, cfr. anche Mt 11,27; 28,18; ).

29 «nessuno le rapirà»: La mano del padre è anche la mano del Figlio che può dire «nessuno le rapirà dalla mia mano», come può dire «nessuno le rapirà dalla mano del Padre mio»; la potenza di Dio non teme confronti.

Nessuno può strappare al Figlio le sue pecore perché il Figlio e il Padre sono una cosa sola. Il verbo greco harpázō traduce proprio “rapinare con violenza”, strappare con la violenza di chi vuole distruggere e rovinare il patrimonio di un altro. La dolce mitezza di Cristo in realtà è molto più vigorosa di qualsiasi violenza. Ogni tentativo violento cade inefficace di fronte al più robusto amore del pastore che custodisce quanto ha ricevuto dal Padre.

30 – la domanda dei giudei sulla messianicità di Gesù (v. 24) riceve una risposta che supera le attese, in quanto il Maestro si proclama vero Dio, perché dichiara di essere una cosa sola con il Padre.

Da preferire la traduzione: «Io e il Padre siamo Uno» alle altre più scialbe; il termine “hen” indica un’Unica Realtà, o sostanza. Si tratta in termini accessibili, di Due Persone che sono l’unica e medesima sostanza divina, Dio.

Il mistero della Trinità è qui alluso soltanto, non è esplicitato.

31 Per giudei anche se non esplicitata è un’affermazione sufficiente per mettere mano alle pietre e cercare di lapidarlo.

32 Gesù ribatte l’accusa di bestemmia, attirando l’attenzione sulle opere che compie; simili opere possono venire solo dal Padre e provano così che egli non può essere un bestemmiatore (cfr. Gv 9,31-33).

33-36 – I giudei continuano ad accusare Gesù in base alla legge, con l’insieme della scrittura.

Non è di facile comprensione il ragionamento di Gesù: se il discorso di Gesù si muove nell’ambito dell’ermeneutica rabbinica, molto attaccata alla lettera dei testi, il confronto avviene sullo stesso terreno degli oppositori di Gesù. L’espressione del Sal 82,6 veniva infatti applicata dall’esegesi rabbinica a tutti i figli d’Israele. È pur vero però che ciò era una interpretazione metaforica, in senso largo, non come la intende Gesù, che per i giudei va oltre, indicando una filiazione che la scrittura non afferma.

Un’altra lettura si può fare se diamo più peso a quel «vostra legge» ; potremmo dire che si tratta di un’affermazione ironica. Secondo Gesù la loro legge è superata (Gv 5,46-47; 6,45; 7,16), conserva il suo valore solo come testimonianza resa al Cristo. In tutte le sue affermazioni Gesù si è sempre dichiarato in linea con il senso profondo delle scritture, soprattutto se l’interpretazione lascia spazio alla retta interpretazione delle sue opere (vedi miracolo del cieco in giorno di sabato). Comunque sia da questo testo della Scrittura, di valore incontestabile per il popolo giudaico, Gesù con un ragionamento a fortiori prova la sua filiazione divina: se dei semplici uomini, ai quali fu rivolta la parola di Dio (come i giudici ebrei, Mose e Geremia), sono chiamati dei e figli dell’Altissimo, quanto più non deve essere Figlio di Dio quell’unica persona che il Padre ha santificato, per consacrarlo alla missione di Rivelatore escatologico e di Salvatore universale?

37 – La seconda argomentazione di Gesù a prova della sua divinità è costituita dalle opere eccezionali da lui compiute nel nome del Padre.

I giudei non sono obbligati a credere in Gesù sulla parola; guardino le sue opere (Gv 14,11), perché le opere dimostrano la sua unità di azione.

39 –1 giudei intendono bene il significato dell’affermazione di Gesù e perciò cercano di catturarlo, come avevano cercato di fare precedentemente (Gv 7,30.32.44) e tenteranno di fare in seguito (Gv 11,57).

Gesù però, anche questa volta, sfuggì alle loro mani, come in altra occasione (Gv 8,59); non è ancora il momento.

È nel contesto della Pasqua che la figura del buon Pastore assume tutto il suo senso, quando la sua presenza misteriosa in mezzo ai suoi trasmetterà loro la grande forza dimostrata nella morte e risurrezione.

40-42 – Il ritorno di Gesù nel luogo, dove aveva avuto inizio la sua rivelazione pubblica, forma un’inclusione solenne tra Gv 1,28 ss e 10,40 ss.

È probabile che Giovanni in questo modo voglia indicare la fine della manifestazione di Gesù al mondo; la cieca ostinazione dei giudei impedisce a Gesù di continuare la sua opera. Molte persone tuttavia credono nel Figlio di Dio che si è rivestito della nostra natura nella sua fragilità e debolezza; si rivelano come pecore del Cristo: ascoltano la sua voce e lo seguono.

Noi che con fede preghiamo:

II Colletta

O Dio, fonte della gioia e della pace,

che hai affidato al potere regale del tuo Figlio

le sorti degli uomini e dei popoli,

sostienici con la forza del tuo Spirito,

e fa’ che nelle vicende del tempo,

non ci separiamo mai dal nostro pastore

che ci guida alle sorgenti della vita.

Egli è Dio…

 

Read more

Local News