1. Orazione iniziale
O Padre, che sei la fonte della vita e sempre ci sorprendi con i tuoi doni, donaci la grazia di rispondere all’appello del tuo Figlio Gesù che ci ha chiamato amici, affinché seguendo Lui, nostro maestro e pastore, impariamo ad osservare i suoi comandamenti, la nuova e definitiva Legge che è Lui stesso, via di accesso per arrivare a te e in te rimanere. Per Cristo tuo Figlio e nostro Signore.
2. Il testo
9 Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10 Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11 Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
12 Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. 13 Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. 14 Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. 15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal
Padre l’ho fatto conoscere a voi. 16 Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo conceda. 17 Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.
3. Lettura
Il contesto del presente brano già contribuisce a determinarne il tono: ci troviamo nel lungo discorso di Gesù ai discepoli durante l’ultima cena, dopo aver compiuto quel gesto che, secondo la narrazione di Giovanni, qualifica il ministero di Gesù come amore fino al suo compimento, il lavare i piedi ai discepoli (Gv 13,1-15). Guardando a questi intensi capitoli possiamo riconoscervi un dinamismo che va dal gesto in quanto tale, la lavanda dei piedi, un gesto in linea con quelle opere che Gesù ha compiuto ponendole come segno che esprime la sua identità e fa appello alla fede di chi vede e ascolta, al lungo discorso rivolto ai discepoli nell’espressione di commiato ma anche nell’indicazione di atteggiamenti da assumere e realtà da attendere, fino alla preghiera cosiddetta “sacerdotale” di Gesù al Padre (Gv 17), preghiera che oltrepassa i confini della cerchia dei suoi discepoli per rivolgersi a beneficio di tutti i credenti in tutti i tempi. Un movimento ascensionale della narrazione che coincide con l’innalzamento di Gesù sulla croce, innalzamento percepito e messo in luce da Giovanni come glorificazione salvifica di Gesù e che qualifica ulteriormente la Pasqua come passaggio del Verbo che dagli uomini torna al Padre.
Nel discorso di Gesù le frasi si susseguono incalzandosi e concatenandosi in un vortice comunicativo che tuttavia non opprime col suo ritmo, non stanca. Ogni espressione possiede una sua compiutezza semplice e incisiva che si inserisce nel mondo espressivo del Gesù secondo Giovanni nella continuità dei temi e dei termini usati di preferenza.
Nel contesto immediatamente precedente Gesù ha parlato di sé come della vera vite (Gv 15,1); già questa immagine è contorniata da due relazioni: il Padre che è il vignaiolo e i discepoli che sono i tralci. E’ un immagine rivelativa: prima di essere un’esortazione finalizzata ai discepoli, essa è espressione di un dato di fatto: il Padre ha cura della pianta preziosa, della relazione che si è instaurata tra Gesù e i suoi, così come gli stessi discepoli vivono una realtà di comunione che li qualifica fin da ora. L’esortazione è espressa nelle stesse battute attraverso le quali l’immagine viene esplicitata e si incentra sul verbo “rimanere”; i discepoli sono chiamati a rimanere in Gesù così come fanno i tralci nella vite, per avere vita e potere fruttificare. Il tema della fruttificazione, ma anche il tema del chiedere e ottenere che ritroveremo nei nostri versetti, è già anticipato qui, offrendoci un esempio dello stile giovanneo di accenno e ripresa approfondita. Certamente al v. 9 il tono del discorso subisce un cambiamento: non c’è più alcuna immagine, ma il diretto riferimento ad una relazione: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi”. Gesù si pone in mezzo ad un percorso discendente che va da Dio agli uomini. Già il verbo “amare” si era presentato in precedenza al capitolo 14 in concomitanza con l’osservanza dei comandamenti; ora esso rispunta per condurre ad una nuova sintesi nel nostro brano laddove i “comandamenti” lasciano il passo al “comandamento” che è quello di Gesù: “Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri” (Gv 15,17). La relazione di reciprocità viene ripresa subito dopo un inciso all’imperativo: “rimanete nel mio amore”; dal verbo “amare” al sostantivo “amore” per indicare che l’azione procedente dal Padre e passata attraverso il Figlio agli uomini ha creato e crea un nuovo stato di cose, una possibilità che fino a quel momento era impensabile. E al versetto 10 la reciprocità viene compiuta nel percorso inverso: l’osservanza dei comandamenti di Gesù è per i discepoli il modo per rispondere al suo amore, in analogia e in reale continuità con l’atteggiamento del Figlio che ha osservato i comandamenti del Padre e per questo anch’egli rimane nel suo amore. La prospettiva è allora molto diversa da quel legalismo che aveva monopolizzato i concetti di “legge” e “comandamenti”: tutto è riportato da Gesù nella sua prospettiva più vera: una risposta d’amore all’amore ricevuto, l’annuncio della possibilità di stabilità nella presenza di Dio. Anche la frase al v. 11 diventa un ulteriore uscita dalla prospettiva legalistica: il fine è la gioia, anch’essa una gioia di relazione: la gioia di Gesù nei discepoli, la loro gioia presente in pienezza.
Al v. 12, come già accennato, il discorso si fa più stringente: Gesù afferma che i suoi comandamenti sono uno solo: “che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati”; notiamo come la linea di relazionalità sia la stessa, sempre in chiave di risposta: i discepoli si ameranno nella modalità in cui Gesù ha amato loro. Ma ciò che segue ristabilisce in termini assoluti la primarietà del dono di Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (v. 13); è questa l’opera insuperabile del suo amore, un’azione che alza il grado di coinvolgimento al suo livello massimo: il dono della vita. Da qui una cospicua digressione su questo nuovo nome dato ai discepoli: “amici”; un appellativo che viene ulteriormente circostanziato nella contrapposizione ad un’altra categoria, quella dei “servi”; la differenza sta nella non conoscenza del servo riguardo ai progetti del suo padrone: il servo è chiamato ad eseguire e basta. Il discorso di Gesù sta seguendo il suo filo: proprio perché ha amato i discepoli e sta per dare la vita per loro, egli ha rivelato loro il progetto suo e del Padre, lo ha fatto attraverso i segni e le opere, lo farà nella sua più grande opera, la sua morte in croce. Ancora una volta Gesù segnala il suo rapporto stringente col Padre: “tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (v. 15). E’ tuttavia nel cuore dell’affermazione di Gesù sui discepoli come amici che non viene dimenticato quanto espresso in precedenza: “Voi siete miei amici se farete ciò che io vi comando” (v. 14).
Gli ultimi versetti del nostro brano rilanciano l’immagine della vite, con in più quanto è già stato affermato: è Gesù che ha scelto i suoi discepoli, non viceversa, l’iniziativa è partita da lui. L’immagine però è dinamizzata: differentemente da una vigna, piantata nel terreno, i discepoli sono costituiti perché vadano e proprio in questo andare portino frutto; il frutto, poi, è destinato a rimanere (stesso verbo dell’invito a rimanere nell’amore di Gesù), altra qualificazione di stabilità che riequilibra il dinamismo.
La loro identità di discepoli è fondata sulla scelta operata da Gesù e prospetta un percorso da fare, un frutto da portare. Tra il passato della chiamata, il presente dell’ascolto e il futuro della fruttificazione, il quadro del discepolato sembra completo. C’è tuttavia ancora Qualcuno da mettere in luce, c’è ancora un atteggiamento da proporre. “Fare frutto” può sbilanciare i discepoli verso un’operatività unilaterale; la particella “perché” lega invece la fruttuosità a quanto segue: chiedere e ricevere, sperimentare l’indigenza e il dono elargito con abbondanza (“tutto quello che chiederete”) e gratuitamente. Quel Qualcuno che Gesù rivela è il Padre, fonte dell’amore e della missione del Figlio, il Padre al quale ci si può rivolgere nel nome del Figlio in quanto si è rimasti nel suo amore. E la conclusione è posta in modo solenne e lapidario: “Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri”.
4. Meditazione
Le parole di Gesù a poca distanza dalla sua glorificazione indicano alla Chiesa il significato della sequela e le sue esigenze. Sono parole forti, rispecchianti la gloria di Colui che si consegnerà e donerà di propria iniziativa la sua vita per la salvezza del mondo (cfr. Gv 10,17-18); ma sono anche parole accorate, e perciò semplici, essenziali, vicine, concatenate, tipiche di un discorso di commiato dove la ripetizione diventa appello dolcemente pressante. Essere discepoli del Cristo è innanzitutto un dono: è Lui che ha scelto i suoi, è Lui che ha rivelato loro la sua missione e sta rivelando il grande “retroscena” del progetto di salvezza: il volere del Padre, l’amore tra il Padre e il Figlio che ora si comunica agli uomini. I discepoli adesso conoscono, a differenza del passato dei primi passi della storia della salvezza e del presente di coloro che si sono chiusi scegliendo di non comprendere il valore delle opere compiute dal Figlio per volontà del Padre; questa loro conoscenza donata chiede e chiederà delle opzioni conseguenti per non rimanere una vuota quanto sterile pretesa (cfr. 1Gv 4,8.20). “Rimanere” nell’amore di Gesù e osservare i suoi “comandamenti” è innanzitutto una rivelazione, il dono di una possibilità suprema che libera l’uomo dalla condizione servile persino nei riguardi di Dio per porlo in una nuova relazione con Lui improntata a reciprocità, la relazione tipica dell’amicizia. “Rimanere nel suo amore” è quello che i Sinottici chiamerebbero il “regno di Dio”, nuova situazione nella storia prima ferita dal peccato e ora liberata.
Nella cultura ebraica l’osservanza dei comandamenti era legata ad una precettistica che scendeva spesso nei particolari anche minimi; tutto ciò aveva ed ha un suo valore, testimoniando così lo sforzo di fedeltà a Dio da parte dei pii israeliti; il rischio però, comune a tutte le realtà umane, era quello di perdere di vista l’iniziativa di Dio enfatizzando la risposta umana. Gesù nel Vangelo di Giovanni ripristina e perciò rinnova il campo semantico della “legge” e dei “comandamenti” con il concetto di “amore” e con l’invito a “rimanere”. Egli rinnova e personalizza, in quanto annuncia e mostra l’amore del Padre dando la vita per salvare il mondo; è amore che rivela la sua qualità non in astratto, ma nel volto concreto e incontrabile del Cristo che ama “sino alla fine” e vive in prima persona l’amore più grande. Più volte Gesù ha descritto il suo rapporto col Padre; il fatto che egli si ponga qui sotto il segno dell’obbedienza al Padre, qualifica l’obbedienza stessa; essa è l’obbedienza non di un servo, ma del Figlio; e l’opera da compiere, i “comandamenti del Padre mio”, non sono qualcosa di esterno a Gesù, ma ciò che Lui conosce e desidera con tutto se stesso. Il Verbo che era presso il Padre è sempre con lui a fare le cose che gli sono gradite in una comunione di operatività che genera vita. Ed è proprio questo che Gesù chiede ai suoi discepoli, tenendo conto che quel “come il Padre ha amato… come io vi ho amati” non rimane a livello di esemplarità, ma si pone a livello fontale, generativo: è l’amore del Padre la sorgente dell’amore espresso dal Figlio, è l’amore del Figlio la sorgente dell’amore che i discepoli potranno dare al mondo.
Conoscenza e prassi sono dunque intimamente legate nella prospettiva del “Vangelo spirituale”, così come è stato definito il Vangelo di Giovanni fin dai tempi dei Padri della Chiesa. La fede stessa, quando è autentica, non sopporta dicotomie nei confronti della vita.
I discepoli appaiono in questi versetti come oggetto della cura premurosa del loro maestro; egli non si dimenticherà di loro neppure nell’imminenza della prova, quando pregherà il Padre per loro e “per quelli che per la loro parola crederanno…” (Gv 17,20). All’orizzonte dell’ascolto, dell’accoglienza e dell’impegno c’è la loro gioia, che è la stessa del loro maestro. E Lui che li ha scelti, con quei criteri che solo Dio conosce, una elezione che ricorda la scelta di Israele, il più piccolo di tutti i popoli; è Gesù che li ha costituiti, li ha istruiti, resi forti; tutti ciò assume un significato ancora più intenso se letto alla luce della Pasqua e della Pentecoste; sembra un paradosso, ma è proprio questo a cui sono chiamati: essere saldi/rimanere eppure andare. Saldezza e dinamicità la cui fonte è ancora il mistero di Dio, per il quale il Verbo era presso il Padre eppure ha posto la sua tenda in mezzo a noi (cfr. Gv 1,2.14).
Essere costituiti in saldezza, andare e portare frutto duraturo definisce così il compito dei discepoli dopo la Pasqua del Signore Gesù; ma tutto ciò è posto nei nostri versetti come legato all’invito a chiedere al Padre nel nome di Gesù. Dal Padre, in Cristo e con la forza del Consolatore è attesa dunque la grazia per amare e, amando, testimoniare.
5. Orazione
Dal brano emergono alcuni elementi che possono rinnovare il nostro stile di preghiera:
- Una preghiera che sia realmente “trinitaria”, non soltanto nel senso della consapevolezza o dell’espressione, ma anche della dinamica inerente alla preghiera stessa.
- L’esigenza di unità tra la preghiera e la vita; la preghiera come specchio, espressione e verifica della vita di
- La gioia che deve accompagnare l’atteggiamento dell’orazione.
- La valorizzazione di tutto ciò che è umano (consapevolezza della relazione, gusto della preghiera, esperienza di gioia, percezione di unione con Dio) ma anche la sua relativizzazione nella prospettiva che tutto è
Salmo 119,129-136
Meravigliosa è la tua alleanza, per questo le sono fedele.
La tua parola nel rivelarsi illumina, dona saggezza ai semplici.
Apro anelante la bocca,
perché desidero i tuoi comandamenti. Volgiti a me e abbi misericordia,
tu che sei giusto per chi ama il tuo nome. Rendi saldi i miei passi secondo la tua parola e su di me non prevalga il male.
Salvami dall’oppressione dell’uomo e obbedirò ai tuoi precetti.
Fa’ risplendere il volto sul tuo servo e insegnami i tuoi comandamenti.
Fiumi di lacrime mi scendono dagli occhi, perché non osservano la tua legge.
6. Contemplazione
La Parola di Dio ci chiama a ribadire nel cuore e nei fatti la novità del nostro essere discepoli del Figlio. I quattro aspetti di relazionalità con Dio, di lettura della realtà, di impegno nella realtà e di attenzione alla vita della Chiesa vorrebbero porsi come semi di contemplazione in quanto radice di atteggiamenti e di possibili scelte.
Relazionalità con Dio: crescere nella consapevolezza di essere inseriti nel rapporto trinitario: siamo pensati, voluti, donati, salvati tra il Padre e il Figlio nello Spirito; porre sempre le nostre azioni come risposta all’amore di Dio che ci ha amati per primo.
Lettura della realtà: riconoscere il riflusso nel privato da parte di persone ed istituzioni, così come la banalizzazione del concetto di “amore” sia nella sua interpretazione materialistica che nelle fughe spiritualistiche. Accorgersi, d’altro canto, delle attese di relazione gratuita e liberante, così come delle esperienze di donazione autentica che il più delle volte restano nell’ombra.
Impegno nella realtà: il dare la vita (in tutte le sue forme) come espressione concreta e valorizzante dell’amore; l’importanza di nuove comunicazioni di esperienze e di sapienza nel perseguire i frutti della testimonianza del Vangelo nel mondo che Dio vuole salvare.
La vita della Chiesa come vita di relazione in relazione: percepire la Chiesa non soltanto ad immagine della Trinità, ma “dentro” la Trinità stessa. Recuperare il senso della libertà e della gioia nella comunità dei credenti.
7. Orazione finale
Signore Gesù Cristo, ti ringraziamo per la cura attenta con la quale hai istruito e sempre istruisci i tuoi discepoli. Lode a te, o Signore, vincitore del peccato e della morte, perché hai messo in gioco tutto quanto era tuo, persino la tua relazione infinita col Padre nello Spirito: tu l’hai posta di fronte a noi che rischiamo di non comprenderla, di banalizzarla, di dimenticarla, ce ne hai parlato affinché comprendessimo quale grande amore ci ha generati. Fa’, o Signore, che rimaniamo in te come i tralci rimangono uniti alla vite che li sostiene e li nutre e per questo fruttificano; donaci uno sguardo di fede e di speranza che sappia passare dalle parole, dai desideri alla concretezza delle opere, a immagine di te, che ci hai amato fino alla fine, donando la tua vita a noi perché avessimo la vita in te. Tu che vivi e regni con Dio Padre nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.