Invochiamo la presenza di Dio
Shaddai, Dio della montagna, che fai della nostra fragile vita la rupe della tua dimora, conduci la nostra mente
a percuotere la roccia del deserto, perché scaturisca acqua alla nostra sete.
La povertà del nostro sentire
ci copra come manto nel buio della notte
e apra il cuore ad attendere l’ eco del Silenzio finché l’alba,
avvolgendoci della luce del nuovo mattino, ci porti,
con le ceneri consumate del fuoco dei pastori dell’Assoluto che hanno per noi vegliato accanto al divino Maestro,
il sapore della santa memoria.
1. LECTIO
a) Leggiamo:
51 ”Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. 52 Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro:
“Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. 53 Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. 54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. 57 Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. 58
Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
b) Facciamo silenzio:
Lasciamo che la voce del Verbo risuoni in noi.
2. MEDITATIO
a) Chiediamoci:
– Io sono il pane di vita… Gesù, carne e sangue, pane e vino. Sono le parole che sull’altare operano un cambiamento, come dice Agostino: «Se togli la parola, è pane e vino; aggiungi la parola, ed è già un’altra cosa. E quest’altra cosa è corpo e sangue di Cristo. Leva la parola, ed è pane e vino; aggiungi la parola, e diventa sacramento». Quanto è importante la parola di Dio per me? Se pronunciata sulla mia carne può farmi diventare pane per il mondo?!
b) Entriamo dentro il testo:
v. 51. ”Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Il vangelo di Giovanni non ci trasmette il racconto dell’istituzione dell’eucaristia, ma il significato che essa assume nella vita della comunità cristiana. La simbologia della lavanda dei piedi e il comandamento nuovo (Gv 13,1-35) vogliono essere il memoriale del pane che si spezza e del vino che si versa. I contenuti teologici sono gli stessi che nei sinottici. La tradizione cultuale di Giovanni si può invece rintracciare nel “discorso eucaristico” che segue al miracolo della moltiplicazione dei pani (Gv 6,26-65), un testo che pone in evidenza il significato profondo dell’esistenza di Cristo donata al mondo, dono che è fonte di vita e che porta a una comunione profonda nel nuovo comandamento dell’appartenenza. Il riferimento all’antico miracolo della manna è esplicativo della simbologia pasquale in cui il senso di morte è assunto e superato dalla vita: «I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo perché chi ne mangia non muoia» (Gv 6,49-50). Destinatari del pane del cielo (cfr Es 16; Gv 6,31-32) in figura o nella realtà sono non tanto i singoli quanto la comunità dei credenti, anche se ognuno è chiamato a partecipare personalmente al cibo donato per tutti. Chi mangia il pane vivente non morirà: il cibo della rivelazione è il luogo di una vita che non tramonta. Dal pane Giovanni passa a usare un’altra espressione per indicare il corpo: sarx. Nella Bibbia questo termine designa la persona umana nella sua realtà fragile e debole dinanzi a Dio, in Giovanni la realtà umana del Verbo divino, fattosi uomo (Gv 1,14a): il pane viene identificato con la carne stessa di Gesù. In questo caso non si tratta di un pane metaforico, cioè della rivelazione di Cristo nel mondo, ma del pane eucaristico. Mentre la rivelazione, cioè il pane della vita, identificato con la persona di Gesù (Gv 6,35) era dato dal Padre (il verbo dare è al presente, v. 32), il pane eucaristico, cioè il corpo di Gesù, sarà offerto da lui stesso con la sua morte in croce prefigurata nella consacrazione del pane e del vino durante la cena: «E il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51).
v. 52. Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Inizia il dramma di un pensiero che si arresta alla soglia del visibile e materiale e non osa varcare il velo del mistero. Lo scandalo di chi crede senza credere… di chi pretende di sapere e non sa. Carne da mangiare: la celebrazione della Pasqua, rito perenne che si perpetuerà di generazione in generazione, festa per il Signore e memoriale (cfr Es 12,14), di cui Cristo è il significato. L’invito di Gesù a fare quello che egli ha fatto “in memoria” di lui, ha il suo parallelismo nelle parole di Mosè, quando prescrive l’anamnesi pasquale: “Questo giorno sarà per voi un memoriale e voi lo festeggerete” (Es 12,14). Ora, noi sappiamo che per gli ebrei la celebrazione della Pasqua non era soltanto il ricordo di un evento passato, ma anche una sua riattualizzazione, nel senso cioè che Dio era disposto ad offrire di nuovo al suo popolo la salvezza di cui, nelle mutate circostanze storiche, aveva bisogno. In questa maniera il passato faceva irruzione nel presente, lievitando della sua forza salvifica. Allo stesso modo il sacrificio eucaristico “potrà” dare nei secoli “carne da mangiare”.
vv. 53. Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Giovanni, come i sinottici, utilizza espressioni separate per indicare il consegnarsi di Cristo alla morte, non volendo intendere con questo la separazione in parti, ma la totalità della sua persona donata: la corporeità spiritualizzata del Cristo risorto, totalmente compenetrata dallo Spirito Santo nell’evento pasquale, diverrà sorgente di vita per tutti i credenti, in modo particolare mediante l’eucaristia, che unisce strettamente ciascuno di loro con il Cristo glorificato alla destra del Padre, rendendolo partecipe della sua stessa vita divina. Non
si nominano le specie del pane e del vino, ma direttamente ciò che in esse è significato: carne da mangiare perché Cristo è presenza che nutre la vita e sangue da bere – azione sacrilega per i giudei – perché Cristo è agnello immolato. È evidente qui il carattere liturgico sacramentale: Gesù insiste sulla realtà della carne e del sangue riferendosi alla sua morte, perché nell’immolazione delle vittime sacrificali la carne veniva separata dal sangue.
54. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. La Pasqua vissuta da Gesù ebreo e dal cristianesimo primitivo riceve una nuova anima: quella della risurrezione di Cristo, definitivo esodo della libertà perfetta e piena (Gv 19, 31-37), che trova nell’eucaristia il nuovo memoriale, simbolo di un Pane di vita che sostiene nel cammino del deserto, sacrificio e presenza che sostiene il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, che, attraversate le acque della rigenerazione, non si stancherà di fare memoria come Lui ha detto (Lc 22,19; 1 Cor 11,24) fino alla Pasqua eterna. Attratti e penetrati dalla presenza del Verbo fatto carne, i cristiani vivranno nella peregrinazione del tempo il loro Pesach, il passaggio dalla schiavitù del peccato alla libertà dei figli di Dio: nella conformità a Cristo, diventeranno capaci di proclamare le opere meravigliose della sua ammirabile luce, offrendo l’eucaristia della propria corporeità: sacrificio vivente, santo e gradito in un culto spirituale (Rom 12,1) che si addice al popolo di sua conquista, stirpe eletta, sacerdozio regale (cfr 1Pt 2,9).
vv. 55-56. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. È forte l’incidenza che questa offerta della vita di Cristo ha nella vita del credente: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui» (Gv 6,56). La comunione di vita che Gesù ha con il Padre viene offerta a chiunque mangi il corpo sacrificato del Cristo; questo si intende al di fuori di una concezione magica di un cibo sacramentale che conferirebbe automaticamente la vita eterna a coloro che ne mangiano. L’offerta della carne e del sangue richiede la predicazione per renderla intelligibile e per fornire la necessaria comprensione dell’azione di Dio, richiede la fede da parte di chi partecipa al banchetto eucaristico, e richiede l’azione preveniente di Dio, del suo Spirito, senza la quale non vi può essere né ascolto né fede.
v. 57. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. L’accentuazione non si pone sul culto come momento culmine e di fondamento alla carità, ma sull’unità del corpo di Cristo vivo e operante nella comunità. Non si dà liturgia senza vita. «Una eucaristia dissociata dalla carità fraterna equivale alla propria condanna, perché viene disprezzato il corpo di Cristo che è la comunità». Nella liturgia eucaristica infatti il passato, presente e futuro della storia di salvezza trovano un simbolo efficace per la comunità cristiana, espressivo e mai sostitutivo dell’esperienza di fede che non può mancare di storicità. Con la Cena
e la Croce, inseparabili, il popolo di Dio è entrato nel possesso delle antiche promesse, la vera terra oltre il mare, oltre il deserto, oltre il fiume, terra dove scorre il latte e il miele di una libertà capace di obbedienza. Tutte le grandi realtà dell’economia antica trovano in quest’ora (cfr Gv 17,1) il loro compimento: dalla promessa fatta ad Abramo (Gn 17,1-8) alla Pasqua dell’Esodo (Es 12,1-51). È un momento decisivo in cui si raccoglie tutto il passato del popolo (cfr DV 4) e si innalza al Padre la prima e più nobile eucaristia della nuova alleanza che si sia mai celebrata: sull’altare della croce la fecondità del compimento di tutto ciò che era atteso.
v. 58. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”. Quando Gesù dirà: «Questo è il mio corpo», oppure: «Questo è il mio sangue», stabilirà un rapporto vero e obiettivo fra quegli elementi materiali e il mistero della sua morte, che avrebbe trovato il suo coronamento nella risurrezione. Parole creative di una nuova situazione con elementi comuni dell’esperienza umana, parole per le quali sempre e veramente avrebbero realizzato la misteriosa presenza del Cristo vivente. Gli elementi scelti volevano essere e sono simbolo e strumento allo stesso tempo. L’elemento del pane, che, per il suo rapporto con la vita ha in sé una portata escatologica (cfr Lc 14,15), è facilmente comprensibile in quanto alimento indispensabile alla sussistenza e motivo di condivisione universale. L’elemento del vino per la sua simbologia naturale riporta alla pienezza della vita e all’espansione della gioia dell’uomo (cfr Sal 103,15). Nell’approccio esistenziale semita l’abitabilità del sistema dei segni è indiscussa. E opera quel distinguo che rende la fede comprensione del mistero lì dove la visibilità è incerta. Riandando nel deserto e ponendosi di fronte alla manna, si riesce a capire questa discriminante “pasquale”: «L’oggetto materiale e il segno si presentano sì insieme, ma la concupiscenza, che è della carne, trasforma il segno in cosa, mentre il desiderio, che è dello spirito, trasforma la cosa in segno» (P. Beauchamp, L’uno e l’altro testamento, Paideia Ed., Brescia 1985, p. 54). La manna infatti cade dal cielo, viene da Dio invisibilmente, manca quindi in sé di una faccia oscura. Questa mancanza di supporto è chiara nell’etimologia del vocabolo “manna”: «Che cosa è?» (Es 16,15). Dice ciò che essa è, un nome posto su quasi niente, un segno e non cosa, un segno firmato. Diventa prova nel momento in cui scompare, perché si ha la tentazione di rimediare a quello scomparire, di fare provvista di manna per non mancarne. E il trasparire del senso si paga così. Questa alternanza è il tempo del deserto. La manna è un pane che sottopone alla legge di colui che la dona. La legge, che la manna significa, è di attendere tutto da lui: ciò che è comandato è di credere. A motivo della sua poca sostanza, la manna porta a desiderare supporti più solidi; ma nella località detta “sepolcri dell’ingordigia” la cosa, privata del segno, dà la morte (Nm 11,34). Nel deserto ciò che spinge ad andare avanti con fiducia è questo sguardo che si posa, sul segno o sulla cosa, per credere o per morire.
c) Meditiamo:
Gesù compie il vero Pesach della storia umana: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Mentre cenavano…» (Gv 13,1). Passare: la nuova Pasqua è proprio in questo passaggio di Cristo da questo mondo al Padre attraverso il sangue del suo sacrificio. L’eucaristia ne è il memoriale, pane del deserto e presenza di salvezza, patto di fedeltà e di comunione scritto nella persona del Verbo. L’historia salutis che per Israele si connota di eventi, di nomi, di luoghi conduce la riflessione di fede dentro una esperienza di vita che fa del nome di Javhè non un nome tra i tanti ma l’unico Nome. Tutto abbia sempre inizio da un incontro, da un avvenimento dialogico tra Dio e l’uomo che si traduce in un patto di alleanza, antica e nuova. Il mare dei giunchi è l‘ultima frontiera della schiavitù oltre la quale si stende il territorio spazioso della libertà. In questo sepolcro d’acqua si depone il corpo dell’Israele vecchio e risorge l’Israele nuovo e libero. È qui che nasce l’appartenenza di Israele. E ogni volta che si evocherà questo passaggio nelle acque della nascita più che un passato storico da richiamare alla memoria si riproporrà l’evento escatologico, capace di una pienezza divina che si attua nel presente, segno sacramentale dell’iniziativa di un Dio fedele nell’oggi delle nuove generazioni, nell’attesa della nuova e definitiva liberazione che il Signore offrirà. È l’anelito di un popolo che nella notte di Pesach trova la sua profonda identità come singolo e come popolo, notte in cui il figlio del Dio vivo si dona interamente come cibo e come bevanda.
3. ORATIO Salmo 115
Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato?
Alzerò il calice della salvezza
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore, davanti a tutto il suo popolo.
Preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi fedeli.
Sì, io sono il tuo servo, Signore,
io sono tuo servo, figlio della tua ancella; hai spezzato le mie catene.
A te offrirò sacrifici di lode
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore e davanti a tutto il suo popolo, negli atri della casa del Signore, in mezzo a te, Gerusalemme.
4. CONTEMPLATIO
Quando noi ti pensiamo, Signore, non ricordiamo fatti avvenuti e compiuti nel tempo, ma entriamo in contatto con la tua realtà sempre presente e viva, vediamo il tuo continuo passaggio fra noi. Tu intervieni nella nostra vita per restituirci la somiglianza dell’appartenenza, perché non si sciupi più tra le pietre della legge il nostro volto, ma trovi la sua massima espressione nel tuo volto di Padre, rivelato nel volto di un uomo, Gesù, promessa di fedeltà e amore consumato fino alla Non è per nulla necessario uscire dalla ferialità dell’esistenza per poterti incontrare perché la cura che tu hai verso le tue creature si spiega nelle nostre vicende umane come rotolo scritto nella prossimità di una esperienza. Tu infatti, Creatore dei cieli e della terra, ti nascondi nelle pieghe della storia e, seppure inizialmente in modo oscuro e implicito, ti lasci incontrare in quella trascendenza che non viene mai meno agli eventi. Quando la riflessione sulla vita porta al riconoscimento della tua presenza liberatrice, questo incontro non può che essere celebrato, cantato, espresso con simboli sacri, rivissuto nella festa con gioia grande. Per questo noi veniamo a te mai da soli, ma come popolo dell’alleanza. Il prodigio della tua presenza si realizza per pura gratuità sempre: nelle membra della Chiesa, lì dove due o tre si riuniscono nel nome di Gesù (Mt 18,20), nelle pagine della Sacra Scrittura, nella predicazione evangelica, nei poveri e nei sofferenti (Mt 25,40), nelle azioni sacramentali dei ministri ordinati. Ma è nel sacrificio eucaristico che la presenza diventa reale: nel Corpo e nel Sangue c’è tutta l’umanità e la divinità del Signore risorto, presenza sostanziale.