Preghiera iniziale
Shaddai, Dio della montagna, che fai della nostra fragile vita la rupe della tua dimora, conduci la nostra mente
a percuotere la roccia del deserto, perché scaturisca acqua alla nostra sete.
La povertà del nostro sentire
ci copra come manto nel buio della notte
e apra il cuore ad attendere l’ eco del Silenzio finché l’alba,
avvolgendoci della luce del nuovo mattino, ci porti,
con le ceneri consumate del fuoco dei pastori dell’Assoluto che hanno per noi vegliato accanto al divino Maestro,
il sapore della santa memoria.
1. Lectio
a) Il testo:
41 Intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. 42 E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?”. 43 Gesù rispose: “Non mormorate tra di voi. 44 Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 45 Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. 46 Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. 47 In verità, in verità vi dico: Chi crede ha la vita eterna. 48 Io sono il pane della vita. 49 I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; 50 questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. 51 Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
b) Chiave di lettura:
Il sesto capitolo del vangelo di Giovanni presenta un carattere unitario che sviluppandosi attorno al tema della festa di Pasqua, analogamente al precedente si snoda attraverso la narrazione di un prodigio (5,1-9a 6,1-15) a cui segue un discorso (5,16-47; 6,22-59). Presenta una parte dell’attività di Gesù in Galilea e precisamente il momento culminante: Gesù si autorivela come pane di vita da credere e da mangiare per essere salvi. Ai vv. 1-15 troviamo il grande segno della moltiplicazione dei pani il cui significato viene svelato dal discorso del giorno seguente ai vv. 26-59: il dono del pane per la fame del popolo prepara le parole sul pane della vita eterna. Frammezzo ai vv. 16-21 abbiamo il racconto del cammino di Gesù sulle acque. Ai vv. 60-71 Gesù invita i discepoli a decidersi, ora conoscendone l’incredulità (vv. 60-66) ora sollecitando la fede dei dodici (vv. 66-71).
L’intero discorso sul pane della vita (6, 25-71) presenta delle somiglianze con alcuni testi giudaici, in particolar modo Filone.
c) Momento di silenzio:
Lasciamo che la voce del Verbo risuoni in noi.
2. Meditatio
a) Alcune domande:
– Mormoravano di lui: quante voci di mormorazione nei confronti di Dio?
– Io sono il pane disceso dal cielo: dove prendiamo il pane che mangiamo ogni giorno?
– Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato: il Padre ci
attrae oppure ci trasciniamo sui suoi passi criticando ciò che dice alla nostra vita di ogni giorno?
– Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno: noi ci nutriamo di Parola di Dio e di Pane spezzato, una volta a settimana o anche tutti i giorni… perché non scorre la vita eterna nelle nostre parole e nella nostra esperienza umana?
b) Chiave di lettura:
Mormorare. Quale migliore strumento per non vivere in profondità ciò che il Signore ci chiede? Mille ragioni, plausibili… mille giustificazioni, valide… mille motivazione, lecite… per non masticare una Parola che spezza ogni ragione, ogni giustificazione, ogni motivazione per lasciare echi nuovi di un cielo non lontano che abita i cuori degli uomini.
v. 41. Intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. Gesù aveva appena affermato: Io sono il pane della vita (v. 35) e sono disceso dal cielo (v. 38) e questo provoca dissenso tra la folla. Giudei, termine teologico in Giovanni, possiamo pensarlo con il suo sinonimo: increduli. In realtà si tratta di Galilei che vengono chiamati Giudei a motivo del loro mormorare di Cristo, poiché le sue parole sconvolgono le categorie usuali. Un linguaggio familiare quello del pane disceso dal cielo. I figli di Israele conoscevano il pane di Dio, la manna, che nel deserto aveva appagato la fame e la precarietà di un cammino dagli orizzonti che si rincorrevano senza approdo. Cristo, manna per l’uomo che nel deserto della sua fame inappagata invoca il cielo a sostegno del suo andare. Unico Pane che sfama. Le parole dei giudei sono obiezione contro la persona di Gesù e al tempo stesso varco per introdurre il tema dell’incredulità. In rapporto ad altri passi in cui il popolo ‘bisbiglia’ (7,12.32) su Gesù in questo capitolo abbiamo un ‘mormorare’ su ciò che egli dice, sulle sue parole. Questo mormorare rende palesi l’incredulità e l’incomprensione.
v. 42. “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?”. L’ironia è sottile. Gli increduli conoscono le origini terrene del Cristo, conoscono di certo il figlio di Giuseppe, ma non il figlio di Dio. Solo i credenti conoscono la sua origine trascendente per intervento diretto di Dio nella Vergine. Il passaggio da un linguaggio prettamente materiale, un pane di acqua e farina, a un linguaggio spirituale, un pane per l’anima umana. Come un tempo il popolo nel deserto, i Giudei mormorano: non comprendono l’origine e il dono di Gesù: come un tempo i padri rifiutarono la manna perché cibo troppo leggero ora i figli rifiutano il Verbo fatto carne, pane disceso dal cielo perché di origine terrena. I Giudei riportano di ciò che Gesù aveva detto solo l’affermazione: Sono disceso dal cielo (v. 38). Poiché è questa che da fondamento ai precedenti annunci, all’essere il pane della vita (v. 35). La domanda: Costui non è forse… è presente, in un contesto di stupore, nei vangeli sinottici. In Matteo o in Luca il lettore attraverso i racconti dell’infanzia è già stato messo a parte della concezione verginale di Gesù. In Giovanni i Galilei hanno davanti chi dichiara di essere disceso dal cielo senza mettere in discussione la sua condizione umana. Figlio di Giuseppe vuol dire allora essere un uomo come tutti (cfr. 1,45).
v. 43-44. Gesù rispose: “Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. Gesù non sembra soffermarsi sulla sua origine divina ma sottolinea che solo chi è attirato dal Padre può andare da lui. La fede è dunque dono di Dio che ha come condizione l’apertura da parte dell’uomo, l’ascolto… ma cosa vuol dire che il Padre attira? Forse non è libero l’uomo nel suo andare? L’attrazione è solo nella traiettoria di un desiderio scritto in quelle tavole di carne che ogni uomo porta in sé. È quindi libertà piena, adesione spontanea alla sorgente del proprio esistere. La vita non può che essere attratta dalla vita, solo la morte non si lascia attrarre.
v. 45. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me”. La sequela è determinata da un ordine ben preciso. Non è un invito, è un imperativo. La parola di Dio creatrice, invece che chiamare la luce e le altre creature dal nulla, chiama la sua immagine a partecipare alla nuova creazione. La sequela non scaturisce da una decisione autonoma e personale, ma dall’incontro con la persona di Gesù e dalla sua chiamata. È un evento di grazia, non una scelta dell’uomo. Gesù non attende una libera decisione, ma chiama con autorità divina come Dio chiamava i profeti nell’Antico Testamento. Non i discepoli scelgono il Maestro come avveniva per i rabbi del tempo, ma il maestro sceglie i discepoli quali depositari dell’eredità di Dio che è molto di più che una dottrina o un insegnamento. La chiamata comporta l’abbandono dei familiari, della professione, un cambiamento totale dell’esistenza per una adesione di vita che non ammette spazi di autocentramento. I discepoli sono uomini del regno. La chiamata a diventare discepoli di Gesù è una “chiamata escatologica”. La frase del profeta dell’esilio babilonese riporta testualmente: “e tutti i suoi figli [di Gerusalemme] saranno” -in riferimento agli ebrei. L’utilizzo di: “tutti saranno” è espressione dell’universalità della salvezza di cui Gesù è il compimento.
v. 46. Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. Solo Gesù, che è da Dio, ha visto il Padre e può rivelarlo definitivamente. L’uomo è chiamato a venire da Dio. La conoscenza del Padre non è una conquista, è una provenienza. Il movimento non è esterno. Se io cerco la provenienza esterna posso dire di avere un padre e una madre, creature del mondo creato. Se io cerco la provenienza profonda del mio significato esistenziale posso dire di venire dal Padre, Creatore di ogni vita.
v. 47. In verità, in verità vi dico: Chi crede ha la vita eterna. Credere alla parola di Gesù, alla sua rivelazione, è condizione per ottenere la vita eterna e poter essere “ammaestrati dal Padre”. Credo, mi appoggio a una roccia. La stabilità non è nel mio limite creaturale, né nella realizzazione della mia perfettibilità umana. Tutto è stabile in Colui che non ha agganci temporali. Come può una creatura poggiare su di sé quando non è padrona di un solo istante di vita?
v. 48. Io sono il pane della vita. Viene ripresentato il tema del pane di vita che si snoda insieme a quello della fede, e della vita eterna. Gesù è il vero pane di vita. Questo versetto è legato al 51 “Io sono il pane vivente”. Solo chi si nutre di questo pane, chi assimila la rivelazione di Gesù come pane vitale, potrà vivere.
vv. 49. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Il pane sceso dal cielo è posto in rapporto con la manna che nutrì i padri senza preservarli dalla morte. Questo pane che dà la vita senza fine e proviene dall’alto è il Verbo incarnato di Dio. Il tema eucaristico accennato in alcune espressioni precedenti ora diventa centrale. L’esperienza della morte terrena non contraddice questa esperienza di vita se si cammina nei sentieri del trascendente. Il limite non è un limite per chi mangia di Lui.
vv. 51. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Alimento vitale per il credente sarà la “carne” di Gesù. Il termine carne (sàrx) che nella Bibbia indica la realtà fragile della persona umana di fronte al mistero di Dio ora si riferisce al corpo di Cristo immolato sulla croce e alla realtà umana del Verbo di Dio. Non è più un pane della vita metaforico, cioè la rivelazione di Gesù perché il pane è la carne stessa del Figlio. Per la vita del mondo indica in favore e pone in risalto la dimensione sacrificale del Cristo dove per il mondo esprime la salvezza che da questa dimensione scaturisce.
c) Riflessione:
Mormorare. Se il nostro mormorio fosse quello di un vento leggero farebbe da sottofondo armonioso alle parole eterne che si fanno nostra carne: Io sono il Pane vivo disceso dal cielo. Quale sorpresa allora, sapendo che questo Pane eterno non è un estraneo, ma Gesù, il figlio di Giuseppe, un uomo di cui conosciamo padre e madre. Mangiamo e siamo noi assunti. Perché chi mangia di questo pane vive in eterno. Un Pane che nasce da un amore di Padre. Siamo invitati a udire e imparare per andare a Lui sulla traiettoria dell’attrazione, sulla scia di quella fede che permette di vedere. Pane con pane, Carne con carne. Solo Colui che viene da Dio ha visto il Padre. E l’uomo lo ha visto quando ha fatto della sua carne la mangiatoria del Pane vivo. Deserto e morte, cielo e vita. Un dolce connubio che si compie in ogni Eucaristia… su ogni altare, quell’altare del cuore in cui la vita del Soffio divino consuma la creta sfigurata di un uomo smarrito.
3. Oratio
3. Salmo 33 (32)
Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera. Come in un otre raccoglie le acque del mare, chiude in riserve gli abissi.
Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli.
Ma il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per ogni generazione.
L’occhio del Signore veglia su chi lo teme, su chi spera nella sua grazia,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.
4. Contemplatio
L’esperienza del cibo che porta via dal cuore la fame mi ricorda, Signore, che potrò andare dalla imperfezione al compimento per essere specchio di te non annullando la fame, ma interrogandola per ritrovare in essa non più un homo dormiens, colui che non si interroga mai, che vive senza interessi, che non vuole vedere né sentire, che non si lascia toccare, che vive nella paura, superficialmente più che in profondità, e negli eventi si confronta restando in posizione orizzontale, sonnecchiando, oppure fagocitando tutto ciò che incontra… bensì come homo vigilans, colui che è sempre presente a se stesso e agli altri, capace di sfamarsi del proprio lavoro e servizio, colui che responsabilmente non si esaurisce nell’immediato, ma sa misurarsi nella lunga e paziente attesa, colui che esprime il tutto che è in ogni frammento della sua vita, colui che non ha più paura di sentirsi vulnerabile, perché sa che le ferite della sua umanità possono trasformarsi in feritoie attraverso le quali la Vita giunge nel fluire del tempo, una Vita che, potendo realizzare finalmente il suo Fine, canta all’Amore con il suo “cuore piagato” avvolto in una “fiamma che consuma e non dà pena” e pur di incontrarlo definitivamente è disposta a “rompere la tela”. La fame non è più fame, perché resta come dolce peso del limite, protetto dalla “deliziosa piaga” e sempre aperto al “dolce incontro” che sazierà ogni desiderio: “L’Amato è le montagne, le valli solitarie e ricche d’ombra… è come notte calma, molto vicina al sorger dell’aurora, musica silenziosa, solitudine sonora… Chi potrà sanarmi questo mio cuor piagato?… è fiamma che consuma e non dà pena! O Amato, al dolce incontro rompi la tela”.