L’azione dello Spirito nella missione secondo gli Atti degli Apostoli

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La spiritualità missionaria: dall’ascolto della Parola al nostro vissuto

Vorrei presentarvi una riflessione su un momento “topico, forte” dell’azione dello Spirito: “la Pentecoste” e dalla Pentecoste, poi, trarre conseguenze e vedere queste conseguenze attive in altre circostanze fino alle nostre.

L’interesse della Pentecoste ha quattro tappe:

La prima interfaccia è la storia di Gesù. Giovanni il Battista, fin dall’inizio programmaticamente dice: “Io vi battezzo con acqua, verrà uno che vi battezzerà in Spirito e fuoco. La Pentecoste è la realizzazione di questa profezia ed è il culmine della vicenda di Gesù.

La seconda interfaccia è la fondazione della Chiesa e della missione della Chiesa.

La terza è il richiamo al piano di Dio e soprattutto all’escatologia, alla conclusione, al compimento del piano di Dio.

La quarta e ultima interfaccia a cui continuamente siamo attenti e sensibili è il coinvolgimento della creazione intera nell’evento dello Spirito. Lo Spirito come forza intatta che rinnova e porta la creazione al compimento della sua lode.

Il racconto della Pentecoste, come lo leggiamo in Atti al cap. 2, credo poter dire, è il massimo contributo di Luca alla storia cristiana delle origini; è il culmine della storia della salvezza che compie quanto è stato annunciato e realizzato e rilancia tutto questo in termini più universali e  più profondi.

E, come tale la Pentecoste, non solo apre la missione, ma dà il senso, è il contenuto della missione.

La Pentecoste solitamente la conosciamo secondo la partizione liturgica cioè, conosciamo l’evento della Pentecoste che è narrato nei primi undici, tredici versetti, ma credo che tutto il cap. 2 di Luca sia in realtà un insieme compatto e tutto vada sotto il titolo di Pentecoste, per cui non si può parlare di Pentecoste limitandola al solo evento, ma bisogna inserirci il grande discorso di Pietro, il primo discorso cristiano e, in qualche modo, il modello di un annuncio che prende i vs. 14‐41 e poi le conseguenze dello stesso evento che prende i vs. 42‐47.

Un grande insieme, dove il significato emerge prima di tutto, dalla composizione delle sue parti. Guai a rimanere fissi in una delle sue parti, si perde il senso della fecondità.

Cominciamo con il leggere l’evento, vorrei essere noioso quanto può essere noioso un esegeta, ma andare a leggere, uscire da noi stessi, vincere quell’istinto infantile di portare tutto alla propria bocca e di prendere e gustare quello che ci piace; invece, uscire da noi stessi, incontrare un’altra cultura per confrontarsi e prima di confrontarsi, conoscere qualcosa che non viene da noi e, in questo confronto, rinnovare, rigenerare, rifigurare noi stessi.

Ulrik Kerch, questo grande filosofo ed esegeta, ha descritto molto bene le “tre mimesis” della lettura: la prima è la precomprensione: se non c’è interesse, non c’è movimento, nulla accade.

La seconda è la configurazione di un universo diverso dal nostro. La terza è la rifigurazione del nostro universo.

Il racconto della Pentecoste è artisticamente, saggiamente, teologicamente costruito con l’incastro di eventi e di reazioni.

Non esiste la Pentecoste senza una capacità di accoglierla, ma anche di reagire attraverso reazioni più o meno adeguate, reazioni progressive verso la reazione ideale.

Quindi c’è un movimento che va dal fatto all’interpretazione, poi dall’esterno all’interno; c’è una

teofania che ha caratteristiche proprie, diverse da quella pasquale.

Vediamo in dettaglio la prima frase: “Mentre il giorno della Pentecoste stava per compiersi… “e già un grattacapo perché non può intendersi in senso cronologico in quanto non è la sera il momento della Pentecoste, ma è la mattina. Allora quel compiersi ha un altro significato, non è il giorno che si compie, ma è un’attesa che si realizza, una storia che tocca la sua sostanza, arriva al suo centro qualificante.

La Pentecoste quindi è quasi un compimento; Luca aveva iniziato il suo primo libro, quello sui Vangeli, parlando dei fatti compiuti in mezzo a noi, dove non vuol dire i fatti avvenuti, ma fatti che portano a compimento promesse, attese, eventi precedenti e, subito dopo questo, appare nel racconto l’evidenza di fenomeni auditivi: “Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento, che si abbatè fra gli alberi. Poi un fenomeno visivo, dopo quello uditivo,…apparvero loro lingue come di fuoco che si dirigevano e si posavano sopra ciascuno di loro”.

L’evento auditivo serve da richiamo, l’evento visivo invita ad un’osservazione ed ad un approfondimento e poi, il senso di interpretazione dell’evento: “Essi furono pieni di Spirito Santo”.

Questa interpretazione è decisiva: uno la poteva prendere, interpretare in senso di un terremoto oppure lasciarla nel vago, nel mistero, nel meraviglioso.

Questa interpretazione invece ci fa capire che ciò che si è “udito e veduto” è soltanto un segno, uno strumento, un modo di comunicazione di “qualcuno” che ha lo Spirito che è Dio perché si serve di queste cose per comunicare se stesso.

E dall’interpretazione derivano subito delle conseguenze molto importanti: “Cominciarono a parlare in altre lingue”. L’esperienza diventa annuncio, l’annuncio assume una pluralità di destinatario e di forma “come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi”.

C’è una saldatura fra l’esperienza di Dio e l’annuncio, fra la comunione con lo Spirito e l’attività che rimane il segreto di ogni missione.

E poi, segue nei versetti seguenti, l’interpretazione del fatto: “Si trovavano allora in Gerusalemme giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo, venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno sentiva parlare la propria lingua. Stupefatti, fuori di sé per lo stupore dicevano…”.

Ecco, lo stupore come mezzo, come cammino verso un’interpretazione: “Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei e com’è che gli sentiamo parlare la nostra lingua nativa?”.

E’ paradigmatico il fatto che l’interpretazione si presenta si presenta sotto forma di interrelazione. Come è banalizzante quando uno ha già le etichette per identificare un fatto che pure lo ha sorpreso; la domanda è uno dei modi per aprirsi al mistero, al divino.

E poi, certo, l’affermazione: “Siamo Parti, Medi Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della giudea, della Cappadocia, dell’Ellesponto, dell’Asia, della Panfilia, della Frigia, dell’Egitto, della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, cretesi e arabi e vediamo annunciate nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”.

L’apertura al mistero, la percezione della propria realtà di fronte a questo mistero; questa lista è una “crux interpretis”, non si riesce a capire come ricostruirla.

La migliore interpretazione è quella di una enumerazione a raggiera di tutto il mondo intorno ad un centro. La sorpresa è che questo centro sembra piuttosto Antiochia che Gerusalemme perché c’è la menzione degli Ebrei sul versante della Giudea che rientra in questa raggiera; forse, Luca ha preso un elenco di popoli in uso della comunità di Antiochia, perché abbiamo una lista un po’ eccentrica: c’è l’alternarsi di indicazioni geografiche, di indicazioni etniche, etnografiche, cioè, nomi fisici, geografici, nomi, invece, di popoli.

In ogni modo, il senso è di una universalità, seppure limitata, in tutti i quattro i punti cardinali: da Roma alla Mesopotamia, dalla Frigia fino all’Egitto e fa della Pentecoste il centro del mondo.

E’ un’interpretazione molto importante, aperta, progressiva, problematica, ma sostanziosa che raccoglie il massimo di risonanza dell’evento intorno all’evento stesso. Questa è una reazione dall’interno: gente che si è sentita coinvolta, ha assistito, si interroga.

Continua però: “ Tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi l’un l’altro: che significa tutto questo?”.

Ecco lo zoom si ritira, il punto di vista si allontana e: “ altri li deridevano e dicevano: sono ubriachi di mosto, di vino nuovo… “ e anche questa è una reazione e anche questo è grande atto, cioè, presentare reazioni diverse, contrastanti, non tutte convergenti verso un unico senso né togliendo anche possibilità di sensi contrapposti.

Il cristianesimo dalla sua origine giudaica ha preso tanto, alcune cose le perse purtroppo, per esempio, a me dispiace tanto che la Chiesa non abbia ripreso, nelle feste, dall’ebraismo, la festa delle Capanne; ha ripreso la Pasqua, la Pentecoste, ma delle tre feste di pellegrinaggio ha lasciato la festa delle Capanne. Questa festa, nell’esperienza ebraica, è la più gioiosa, la più giocosa, la più infantile: farsi delle capanne, abitarle, addobbarle proprio perché era una festa dell’ambito familiare, dell’orto, dell’orto di casa invece del cortile del tempio. Dunque abbiamo perso un po’ della giocosità.

Un altro aspetto pertinente, è che il cristianesimo non ha preso dall’ebraismo, allora in formazione, ma già presente nell’ebraismo “Pre‐rabbinico”, la “discussione”, la capacità di  mettere diversi punti di vista l’uno accanto all’altro.

L’ebraismo ha sempre avuto nel suo DNA una capacità dialettica che con il dogmatismo, l’autoritarismo, l’istituzionismo del cristianesimo si è persa, e se ne sente la mancanza.

La Pentecoste è ancora in questa atmosfera culturale, riesce a presentare reazioni contrastanti anzi quasi le favorisce: è bello, sembra quasi dica il testo, è bello che la Pentecoste, l’esperienza pentecostale sia stata intesa come una grande ubriacatura, va considerata quasi una parte necessaria per comprendere il sapore della Pentecoste. Ma rimane fondamentale questo movimento dal fatto interpretativo, non esiste interpretazione senza il fatto, mancherebbe il fondamento, sarebbe un puro gioco intellettuale; ma non esiste un solo fatto che sappia convincere, avere senso, completezza.

Il fatto della Pentecoste ha questo come programma: “propone”, “predispone” l’annuncio per una proposta ad altre persone dei fatti passibili di altre interpretazioni in cui ognuno possa dare la propria interpretazione.

E anche noi siamo chiamati a entrare nel circuito ermeneutico e a dare la nostra interpretazione perché, guardate, se di fronte ad eventi così importanti si ripete quello che ci hanno insegnato da bambini, non scatterà mai qualcosa di nuovo, non sarà un testo utile per la nostra formazione e la nostra ispirazione.

E’ meglio rischiare il  rifiuto di questi testi che non accoglierli , perché altri hanno fatto per noi. Così anche in questo gioco, gioco molto serio e molto importante, rientra il movimento dall’esterno all’interno, dall’interno all’esterno, ma non insistiamo troppo.

Mentre vorrei richiamare la vostra attenzione sul fatto che è la prima esperienza di Dio, la prima teofania del Nuovo Testamento fuori dalle esperienze del Signore Risorto.

In che rapporto sta la Pentecoste con l’evento della Pasqua, quali sono la differenza e la somiglianza fra la teofania dello Spirito rispetto alla teofania del Risorto?

Ci sono delle cose interessanti da notare: prima di tutto, là abbiamo l’apparizione e qui abbiamo, invece, il fenomeno; là abbiamo l’apparizione di una persona e qui abbiamo una espressione polimorfa ed eteromorfa; cioè, Gesù risorto appare sempre in quel modo lì  con caratteristiche  che richiamano alla sua realtà storica, lo Spirito può apparire in qualsiasi modo: la colomba, altri animali e anche in qualsiasi creatura, il fuoco, il rumore il vento, l’acqua.

E’ bella questa varietà delle figure di Dio; la Pasqua afferma una continuità, la Pentecoste afferma una duttilità, una universalità: Dio non si esprime soltanto attraverso l’uomo, lo Spirito ama, in verità, i simboli, è più universale, meno antropomorfico.

La Pentecoste si distingue dalla Pasqua in quanto la Pasqua si esprime attraverso la parola, la visione è finalizzata alla parola; la Pentecoste è finalizzata a far parlare e questo è detto nel testo perché la gente si meraviglia delle meraviglie di Dio, ma non vengono raccontate subito, viene messa in evidenza la reazione, non la parola, ma il far parlare.

Eppure la stessa forza, la stessa direzione, nelle due specie di teofanie: la Pasqua che dà il contenuto del risorto e la Pentecoste che dà il linguaggio, il coraggio di annunciare il risorto.

Noi non possiamo percepire la Pasqua senza la Pentecoste, non possiamo parlare di Gesù risorto senza l’esperienza alternativa, complementare dello Spirito.

Un altro elemento da notare è il ruolo della folla: è stato molto studiato e qual è il ruolo della folla, nei Vangeli, negli Atti degli Apostoli?

Di solito la folla è molto presente, non esiste Vangelo senza folla, non esiste, si può dire, Chiesa senza rapporto con il mondo.

E’ come il matrimonio dove non esiste lei senza lui, per fare coppia, né lui senza lei, altrimenti, non c’è dialogo non c’è coppia, così la Chiesa deve parlare al mondo, fa parte proprio della sua realtà e definizione.

Di solito, la folla, nel Vangelo e negli Atti, è “audience”, altre volte è polarità: non mondo, ma Chiesa; altre volte è l’esperienza dell’indifferenziato da cui bisogna uscire e scegliere; pensate ai discepoli che egli sceglie: li chiama e quindi li fa uscire oppure, escono dalla folla, dalla gente per chiedere l’intervento di Gesù per un malato; oppure esce dalla folla il “chiamato”a seguirlo; a volte, però, la folla è parte dell’evento come ad es. all’inizio del Vangelo, nella moltiplicazione dei pani, dove la folla è parte dell’evento.

Questo è un elemento molto forte delle vicende del Signore Gesù.

Nella Pentecoste, la folla è dentro l’evento per interpretare in modo diverso e per rendere l’evento, un evento di comunicazione.

Senza la folla, il rombo, il rumore, le fiammelle diventano una comunicazione intima e perderebbero il rapporto con la missione.

Qui c’è una diversità di soggetti: i discepoli non sono la folla; è sui discepoli che scende lo Spirito però l’evento è compiuto in modo che i simboli sono per la folla, il messaggio deve avere visibilità, deve avere una destinazione ampia, deve far parlare e non è spettacolo con cui si cerca di ottenere qualcosa dallo spettatore sotto forma di applauso o di sostegno economico.

Qui si misura l’evento e la presenza della folla dalla capacità di coinvolgere lo spettatore nell’evento con l’evento stesso.

L’interpretazione di lingue diverse: “Sentiamo annunciarle nelle nostre lingue natie”; sono possibili tre interpretazioni:

La prima è quella della “glossolalia” che è testimoniata da Paolo, soprattutto, in Corinzi, 14: nelle comunità cristiane, e soprattutto a Corinto, quando si riunivano, ad un certo punto, alcuni “cominciavano a parlare lingue sconosciute”: lingue, perché i suoni avevano una certa organizzazione, come linguaggio, non semplici rumori, ma suoni organizzati secondo una grammatica, una sintassi, un vocabolario non conosciuti da nessuno.

Qui la glossolalia sarebbe uno dei carismi descritti da Paolo: o la glossolalia vera e propria o l’interpretazione della glossolalia .

Paolo parla di persone che hanno il dono, sempre nello stesso Spirito, di intendere quelle lingue sconosciute; quindi si potrebbe concepire il fenomeno glossolalico propriamente detto, nella bocca dei discepoli come l’interpretazione della glossolalia che era nelle orecchie degli uditori.

Un secondo modo di intendere le cose, che è quello più comune, è di interpretare questo fatto come un fenomeno di xenolalia, cioè diventar capaci di parlare una lingua straniera o più lingue straniere senza conoscerle, senza averle imparate; allora il miracolo sarebbe solo nella bocca, nella mente di chi parla e quindi alcuni avrebbero parlato aramaico, alcuni greco, latino e nei vari dialetti.

Una terza interpretazione che è stata avanzata da qualcuno, ma in genere rifiutata, perché troppo decantatrice, ma secondo me è la migliore, è quella così detta della diplessia.

Vi dico cose che non trovate scritte da nessuna parte e, forse, le troverete scritte fra dieci anni; sono un po’ contro l’interpretazione tradizionale, però, danno più significato al movimento della Pentecoste. Non si tratta di nessun prodigio, di miracolo di parlare cose che non si conoscono, ma sarebbe, come ha poi fatto il Concilio ecumenico, la decisione di non parlare più delle cose di Dio nella lingua sacra che era l’ebraico, ma di parlare delle cose di Dio nelle lingue volgari, conosciute  e parlate, come l’aramaico e le altre lingue e dialetti elencati sopra e parlati dalla gente.

Quindi il fenomeno della Pentecoste non sarebbe qualcosa di prodigioso, di inatteso, ma una decisione di smettere di parlare di Dio nella lingua sacra e cominciare a parlarne nelle lingue volgari.

Noi “vecchietti” abbiamo conosciuto questo passaggio nel 1967 e quindi possiamo renderci conto della differenza fra la lingua sacra e la lingua volgare, possiamo anche comprendere il senso di questa scelta.

Questa interpretazione rientra meglio nel senso della Pentecoste perché è un voler far parlare, è un voler coinvolgere.

In ogni modo, anche se non nasce da una decisione lucida e volontaria degli annunciatori questo è il risultato che la Pentecoste porta: ognuno sente parlare nella propria lingua e, normalmente, se  il testo non insiste, si dovrebbe intendere più come una decisione che come un prodigio.

Ma se qualcuno vuole interpretarlo come un prodigio basta che la conclusione sia la stessa:

rendere, parlare di Dio nel linguaggio quotidiano, nel linguaggio comune.

Vedete quanto spessore ha la Pentecoste per la missione e la pastorale in genere, della Chiesa.

Ora lo stesso discorso lungo e complicato lo dovrei fare per la seconda e la terza parte, ma vorrei arrivare, saltando le due parti, ai grandi temi e alle piste di ricerca.

Rapidamente e anche molto sommariamente, il discorso di Pietro: “Allora Pietro elevatosi in piedi con gli altri undici parlò a voce alta così: …” La Pentecoste che ha suscitato tanti discorsi, tante interpretazioni ha una interpretazione ispirata. All’interno degli altri discorsi, ecco un discorso ispirato, dopo che gli altri hanno parlato, quasi come risposta è il parlare di Pietro ai vs. 14‐21.

Qui si interpreta l’evento della Pentecoste alla luce di Gioele cap 3,1‐5, quindi  è un’interpretazione fra le altre interpretazioni, è una rilettura del passo ed è una rilettura escatologica.

Pietro dice in parole semplici: “Quello che hanno fatto e quello che avete visto, quello che è avvenuto è la realizzazione di quanto aveva detto Gioele quando ha parlato dello Spirito.” E, in particolare, sono nominate queste categorie: figli, figlie, giovani, anziani cioè, categorie che comprendono ogni persona proprio come è detto programmaticamente “ogni carne”.

La Pentecoste come segno quindi di due linee che si compiono, raggiungere ogni persona, rendere capace ogni persona di profezia, riempirla dello Spirito.

E questo momento è segno della pienezza del piano di Dio raggiunta ed ha un aspetto escatologico, finale; Dio finalmente ha raggiunto lo scopo per cui aveva creato le persone:  renderle piene di Spirito e capaci di parlare ognuno di Lui.

Quindi è un intervento che compie , un intervento che ispira.

E’ stato discusso se l’evento della Pentecoste riguardava soltanto i dodici e fondava il compito del ministero gerarchico nella Chiesa e questa posizione è stata sostenuta a lungo dall’esegesi e dalla teologia cattolica.

La discriminante non è più uomo o donna, consacrato o non consacrato, ministro o non ministro, giovane o vecchio e, vorrei dire anche, preparato o non preparato, ma conta la capacità di accogliere lo Spirito.

Gli apostoli pentecostali non sono gli apostoli pasquali.

La Pentecoste crea un apostolato molto più diffuso di quello pasquale, non che non ci sia un ruolo degli apostoli, chiamiamoli così “pasquali” perché Pietro è con gli undici che parla, però, parla per annunciare, “questo nuovo”, questo lato più nuovo.

Il secondo brano del discorso di Pietro, dal cap 2,22‐28, è la Pasqua come soggetto, è la Pentecoste che parla della Pasqua e dice: “Uomini di Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazareth uomo accreditato da  Dio presso di voi per i suoi miracoli, prodigi e segni che Dio  stesso operò fra voi per opera sua, come voi ben sapete, dopo che , secondo il disegno prestabilito fu consegnato a voi che lo avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha resuscitato sciogliendolo dall’ angoscia della morte perché non  era possibile che questa lo tenesse in suo potere”. E cita il Salmo 16, 15 “il Santo non può vedere la perdizione”.

Ecco che la Pentecoste, appena identificata come dono universale ed escatologico, diventa un annuncio della Pasqua; non è un annuncio di se stessa perché la Pasqua è il battesimo di fuoco di Gesù, in qualche modo è la Pasqua la Pentecoste di Gesù ed è da quella prima “Pentecoste” che nasce la seconda ed è dal fatto che Gesù è stato rifiutato che nasce questo dono, dal fatto che Gesù ha vinto la morte e che, finalmente, la vita assume un carattere di pienezza e di apertura universale.

Questo brano è molto importante: “la Pentecoste unisce la Pasqua”.

Il terzo brano, ai versetti: 29‐36: dalla Pasqua alla Pentecoste, abbiamo la menzione dell’Ascensione e della Pentecoste, coinvolgendo tutta la Trinità.

E’ uno dei brani trinitari più ricchi che abbiamo nel Nuovo Testamento, poiché Davide era profeta, sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, per questo previde la resurrezione di Cristo e ne parlò e questi non fu abbandonato negli inferi né la sua carne vide la corruzione; questo Gesù Dio lo ha resuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio, dopo aver ricevuto lo Spirito Santo che gli aveva promesso, lo ha come voi stessi potete vedere e udire, “Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo, quel Gesù che avete crocifisso .”

Il Kerygma, nella forma solenne e ufficiale, Gesù Cristo che è Dio, come frutto dell’opera trinitaria: “Iddio aveva previsto, stabilito”: Cristo, Colui che era stato previsto, stabilito, prescelto, e lo Spirito, Colui che, una volta mandato, permette di farlo sapere a tutti; per cui l’annuncio della Pentecoste è frutto, non solo di un’ispirazione, ma di un’opera trinitaria: il Padre che aveva concepito il piano, il Figlio che lo ha realizzato e lo Spirito che lo rende comunicabile e attuabile.

Nella presentazione generale ho messo la divisione fra il discorso e gli effetti al v. 1, ma, volendomi contraddire, metto anche i vv. 37‐41 negli effetti. E’ Pietro che appena ha parlato si sente dire: “Che cosa dobbiamo fare?”. Risponde: “Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei peccati” e li invita a battezzarsi.

La seconda parte degli effetti è la comunità.

Nel primo gruppo di effetti noi abbiamo la reazione al discorso, la richiesta, l’appello al Battesimo che dona lo Spirito e l’invito a entrare nella Pentecoste, a vivere l’esperienza.

Questa è la successione: dall’evento, al discorso, alla richiesta, all’appello al Battesimo, fa capire che lo Spirito è nel battesimo, che, in qualche modo, è la Pentecoste di ognuno, ma è anche e comunque far nascere il desiderio del battesimo, è prima del Battesimo.

Questa identificazione fra i sacramenti e l’effusione dello Spirito, secondo me, va rotta: nei sacramenti c’è l’azione di Dio, l’azione del Risorto, l’azione dello Spirito, ma questa azione è molto più ampia del sacramento; in qualche modo, i sacramenti sono solo una fiamma, una forza, un’esperienza virtuale, ma poi il Battesimo va vissuto in concreto; ognuno deve avere realmente un’esperienza dello Spirito, altrimenti la Cresima non serve a nulla.

Se uno crede di aver avuto, già nella Cresima, l’esperienza dello Spirito si illude; quella è come una promessa, come una garanzia, come un invito e può essere anche che per qualcuno, particolarmente recettivo e aperto, il sacramento si identifichi con l’esperienza, ma normalmente non è così.

Secondo effetto della Pentecoste è la comunità

“Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nella frazione del pane, nelle preghiere…”.

C’è una reazione esterna: “Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per mezzo degli apostoli. Ma “tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme, tenevano tutte le cose in comune, chi aveva proprietà e sostanze le vendeva, insieme frequentavano il tempio, spezzavano il pane prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore.

“Intanto il Signore, ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati”.

Vivono in una vera e propria koinonia.

L’agàpe che si manifesta in forma sociale, nella rivoluzione di mettere tutto in comune e la “fratio panis”, l’insegnamento degli apostoli, lo schema della nostra stessa Eucarestia come centro trascendente.

La comunità che trova in sé stessa la propria forza non è una vera comunità, la comunità vera è quella che rispecchia la Trinità.

Mi sembra di essere riuscito a farvi capire la ricchezza di questo evento poco conosciuto, poco presentato come modello nel campo della missione della vita della Chiesa.

Letto nell’insieme, emergono fatti antitetici: il compimento delle profezie e, in particolare, il compimento della profezia di Giovanni il Battista: senza la Pentecoste Gesù non avrebbe realizzato il suo piano, ma anche Giovanni il Battista sarebbe rimasto irrealizzato, non verificato.

Penso che Giovanni il Battista veda un crinale escatologico nel Battesimo del Cristo; il battesimo con l’acqua è soltanto la preparazione, l’occasione di assumere il vero atteggiamento per ricevere il Battesimo.

Come ho già detto, nel caso del Battesimo dell’acqua, l’espressione battesimo ha un significato proprio: “è un rito, è un’immersione”. Nel caso, invece, del Battesimo dello Spirito, è un battesimo di significato figurato; non si tratta più di un rito o almeno soltanto, si tratta di una immersione nello Spirito, di un’esperienza spirituale; nel senso che riguarda la vita, i sentimenti, la direzione, i valori e non il rito.

C’è un parallelismo molto forte, importantissimo, ai fini di fondare la missione, fra il Battesimo di Gesù e la Pentecoste: Gesù inizia il Vangelo con una grande esperienza dal di dentro. Anche la Chiesa inizia la sua rivelazione storica, la sua missione storica, non con un evento o con un rito, ma con un’esperienza.

E il battesimo della Chiesa è esattamente la Pentecoste, come la Pentecoste di Gesù è il suo battesimo e poi la sua morte e resurrezione.

Il “Battesimo di fuoco”: questa espressione, di difficile interpretazione per sé e che si trova nella “Fonte Quelle” e quindi è comune a Luca e a Matteo; Marco ha soltanto: “ti battezzerà in Spirito Santo”, mentre gli altri due Vangeli hanno: “Battesimo in Spirito e fuoco”. Certamente, almeno in Luca, è un rinvio alla Pentecoste. E, in quanto battesimo di fuoco, come era stata per Gesù l’esperienza dopo il Battesimo, è l’inizio della sua missione.

Gesù, con il Battesimo, non diventa un buon cristiano, non è che acquista qualcosa di interiore; sappiamo che Egli è Figlio di Dio anche da prima; non ha bisogno del Battesimo, acquista la forza, assume il presente della sua missione.

Così, con la Pentecoste, inizia il cammino della Chiesa. Ed è bello che la Pentecoste sia il punto di saldatura fra gli effetti dell’esperienza dello Spirito di Gesù con gli effetti e l’esperienza dello Spirito dei suoi discepoli.

Il punto di arrivo del cammino di Gesù è un dono ai discepoli perché facciano altrettanto.

Secondo grande tema: la Pentecoste è la “Nuova Alleanza”.

Nei profeti c’è una pagina che ha avuto un’importanza grandissima nel cristianesimo, ma anche in altri movimenti che venivano dall’esperienza del Primo Testamento, quali Qumran ed altri (vedi Geremia 31, Ezechiele 36). L’Alleanza scritta nel cuore, l’Alleanza suggerita dal di dentro, l’Alleanza nello Spirito è la nuova e definitiva Alleanza, ma è anche la benedizione di Abramo a tutte le genti, tutte le famiglie della terra, è lo Spirito al posto della Legge. E’ vero che a Pentecoste, già nel I° secolo, ma certamente dopo, gli Ebrei celebravano il dono della legge, due mesi dopo la Pasqua .

Come Nuova Alleanza, allora, la Pentecoste è l’espansione della Trinità; non mira soltanto a fondare un ponte, ma ad espandere la comunione trinitaria: è il giorno in cui il Padre, finalmente, realizza le sue promesse, il giorno in cui il Figlio, finalmente, ha annunciato qual è la pienezza del suo mistero: “Sappia con certezza la casa di Israele che Dio ha costituito Cristo e Signore, quel Gesù che voi avete crocefisso”. E’ il giorno in cui lo Spirito porta a compimento l’opera di Dio e rende Dio comunitario.

Tocco soltanto il terzo punto: Il dono escatologico.

Con la citazione di Gioele la Pentecoste è presentata come un fatto che era atteso per gli ultimi giorni, come un segno dell’arrivo della pienezza del tempo. È un dinamismo continuo verso…; per questo l’annuncio cristiano  sarà sempre  in atto “dalla promessa al compimento”, dall’avvicinarsi al compimento.

Questo è l’inizio della missione: soffermiamoci un po’ su questo punto.

Il punto di partenza della Pentecoste e della missione è il Dio di tutti, è l’inizio dell’arrivo di Dio a tutti nella libertà. In fondo, il senso dell’ermeneutica, delle varie interpretazioni, è che ognuno è sollecitato a dare la propria risposta.

La Chiesa non può sostituirsi ai singoli nel rispondere a Dio: quello che fa Pietro e che deve fare la Chiesa, è diventare tramite dell’annuncio perché il Dio di tutti possa parlare a tutti.

La missione pone la Chiesa di fronte al senso del suo limite: noi non possiamo annunciare i nostri limiti, le nostre visioni morali, noi dobbiamo annunciare il volere di Dio di offrirci il suo Figlio.

Dobbiamo far sapere a tutti che Dio vuole, tramite il suo Spirito, rendere divini tutti i suoi figli, tutti gli uomini e questo è ben al di là delle nostre possibilità.

Quindi la Pentecoste porta una notizia da dare a tutti, quella che gli ortodossi hanno chiamato la

“teandria”: Dio vuole realizzare la vostra umanità e la vuole divinizzare.

Non so dire di più perché sono ignorante, immaturo, impreparato però credo sia questo il contenuto più importante; il contenuto del nostro annuncio è mistico: Dio vuole dare pienezza all’umanità divinizzandola. Quindi l’istituzione, i sacramenti, i più eletti devono arrivare ad avere quell’esperienza dello Spirito in cui Dio diventa parte della vita di ogni suo figlio, e divinizza ogni vita; l’Alleanza è la volontà di Dio di entrare in contatto, in koinonia con tutti.

Il nostro compito missionario quindi è quello di permettere la divinizzazione dell’umanità, l’alleanza di Dio con tutti i suoi; il nostro compito non è quello di fare i discepoli, ma di diventare condiscepoli, salvati e divinizzati insieme a tutti gli altri.

Don Carlo Bazzi