Dare a Dio quello che è di Dio
Gesù si trova nel tempio di Gerusalemme, dopo essere entrato trionfalmente nella città di Davide ed essere stato acclamato come Re e Salvatore (cfr. Matteo 21,1- 10); mentre insegna, tutti i notabili di Israele (sommi sacerdoti, anziani del popolo, farisei, successivamente anche i sadducei) si intrattengono con Lui e affrontano una quantità di questioni: alcune di esse ci hanno accompagnati nelle scorse domeniche, offrendoci spunti di riflessione importanti sul nostro modo di relazionarci con Dio e con i fratelli.
Oggi il Vangelo esprime chiaramente la ragione dell’interesse di queste persone verso Gesù: non vogliono imparare da Lui, ma «coglierlo in fallo nei suoi discorsi».
Il racconto insiste sulla malizia degli interlocutori, che blandiscono il Maestro dicendo che Egli è «veritiero, insegna la via di Dio con verità, non guarda in faccia a nessuno», tutte cose che essi non pensano realmente di Lui, perché sono «ipocriti», cioè falsi, portatori di una maschera, e intendono solo «metterlo alla prova».
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Essi non vogliono veramente onorare il Signore! Gesù lo «sa», «conosce la loro cattiveria» e non si presta al loro gioco: chiede di chi siano l’immagine e l’iscrizione, ottiene in risposta il nome di Cesare e invita a dare all’imperatore quello che è suo, perché porta la sua immagine, e a dare a Dio quello che è di Dio.
E cosa, nel mondo, porta l’immagine di Dio, l’impronta inequivocabile della sua azione e della sua maestà, se non l’adam maschio e femmina, che Egli «ha fatto secondo la sua somiglianza» (Gen 1,26)? […]
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