La Via Francigena. Da Canterbury a Gerusalemme

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Franchi, Goti, Bizantini, Longobardi, Saraceni e Normanni, tutti lasciarono un’impronta lungo la via Francigena, percorsa da eserciti e da fedeli in viaggio verso la Terra Santa e per tutto il Medioevo parte del sistema delle grandi vie di pellegrinaggio. Il vescovo Paolino da Nola scrisse in un carme al suo omonimo di Niceta: «Quando passerai per Otranto e Lecce, ti circonderanno schiere virginee di fratelli e insieme di sorelle che innalzano all’unisono inni al Signore».

RC n.134 – giugno 2018 di Elena D’Alessandris

La Via Francigena del Sud, di cui ottimi studi hanno dimostrato l’importanza in Piemonte, in Toscana e nel Lazio, è rimasta a lungo trascurata, ma oggi preziose e fortunate ricognizioni sul territorio stanno riportando alla luce un inaspettato materiale documentario.

Parafrasando il medievalista francese Jacques Le Goff: «La strada permette che esistano segni, testimonianze, monumenti. Una strada non si accontenta di vivere di passato e nemmeno di presente: in qualche modo lancia un segnale per l’avvenire, a testimonianza della sua importanza. Altri segnali potranno venire dalla Via Francigena, che ha avuto il riconoscimento di Grande Itinerario Culturale dal Consiglio d’Europa. Una strada come questa vive nel tempo, coniuga la lentezza con la lunga durata».

Diverse “Vie Francigene”

La valorizzazione della Via Francigena – un fascio di strade percorso prima fra tutti dai Franchi diretti verso la Terrasanta– nel Medioevo portava i fedeli da Canterbury a Roma e da lì a Gerusalemme, lungo direttrici che permettevano ai fedeli di raggiungere i porti pugliesi e di imbarcarsi. Già questo delinea uno strumento utile per cercare un sistema di vie di pellegrinaggio nel Sud della nostra penisola, connesso alla rete degli itinerari europei.

Diverse strade furono definite Vie Francigene in Puglia, prima fra tutte la via Traiana: strada detta forse erroneamente «via Appia Traiana», in quanto variante della via Appia che collegava Benevento (Beneventum) a Brindisi (Brundisium), scegliendo un tratto subcostiero rispetto alla strada più antica; rispetto alla via Appia Antica il tracciato era quasi tutto pianeggiante, preferibile a quello precedentemente collinare.

Un itinerario di fede e arte

In effetti, il rifacimento Traianeo fu eseguito per agevolare le comunicazioni e gli scambi con l’Oriente e, per questo, tutto il tratto interessato si arricchì via via di monumenti e sepolcri, che permisero il rifiorire della civiltà romana scomparsa da tempo.

Da Benevento la strada proseguiva per la Valle del Miscano fino a raggiungere quella del fiume Celone, in direzione di Aecae (attuale Troia), da qui percorreva il Tavoliere fino a giungere nell’antica Herdonia (Ordona) e presso l’Ofanto (Aufidum), come dimostra un enorme ponte a cinque arcate presso Canusium (Canosa di Puglia). Superato il centro di Canosa proseguiva verso Rudas (S. Barbara) e Rubos (Ruvo di Puglia), passando per Bitonto, e poi diramava verso Modugno, Caeliae (Ceglie del Campo), Norba (Conversano) e Monopoli, per giungere infine a Egnazia.
L’altra diramazione era prevalentemente costiera e toccava, oltre a Monopoli e Egnazia, anche Giovinazzo, Bari, Mola e Polignano a mare. Da Egnazia la strada si estendeva in tutta la sua lunghezza e arrivava fino a Ostuni e Carovigno per toccare, finalmente, Brundisium.

In sostanza, le testimonianze relative alle vie Francigene si riferivano sempre alle strade dell’Antichità, le cui fonti sono l’Itinerarium Antonini del III sec., L’Itinerarium Burdigalense sive Hierosolymitanum del IV sec., la Tabula Peutingeriana e la Cosmographia dell’Anonimo ravennate risalente al VII sec., oltre ai Geographica di Guidone del IX sec.

Goti, Bizantini, Longobardi, Saraceni e Normanni, lasciarono tutti un’impronta lungo la strada, che, dunque, nel tempo, subì numerosi restauri. Con i Longobardi, per esempio, crebbe l’importanza di questa via per i collegamenti con il Santuario micaelico di Monte Sant’Angelo, sul Gargano, appartenente alla diocesi di Siponto e, poiché si trovava sulla parte costiera della Via, ne crebbe l’importanza rispetto a quella collinare.

Dopo La Traiana, costellata da numerosi ceppi militari, un’altra strada parallela nel tratto della Puglia centrale si affacciò in età tardoantica: la costiera Monte sant’Angelo-Barduli (Barletta), che toccava Turenum (Trani) e Natiolum (Giovinazzo) per ricongiungersi a Ovest a Bari.

Eserciti e fedeli

Sempre i Longobardi, penetrati da Nord in Puglia dopo il 568, preferirono procedere lungo le strade interne, come in molte località italiane. In parte per questo motivo e in parte perché da questo periodo in poi si consolidò il culto del Santuario micaelico di San Michele Arcangelo sul Gargano, la Via Traiana iniziò a perdere la sua funzione di via romana, divenendo a tutti gli effetti via Francigena. Da allora, i pellegrini provenienti da Roma furono obbligati a fare tappa al Santuario di San Michele Arcangelo, essendo considerato da Normanni e Longobardi un guerriero molto caro.

Durante le Crociate la Via fu percorsa da eserciti e fedeli in viaggio verso la Terrasanta e per tutto il Medioevo fece parte del sistema delle grandi vie di pellegrinaggio. I cavalieri Templari e Gerosolimitani vi edificarono veri e propri alberghi e ostelli per viandanti e non è certo un caso che proprio ai margini di questa stessa Via e sempre nel Medioevo fosse qui sorto il santuario di Santa Maria di Sovereto in agro di Terlizzi.

Una testimonianza peculiare viene fornita dai benedettini, penetrati in Puglia e Basilicata dal VII sec., inizialmente in collisione con la Chiesa greca e, poi, prendendo posto proprio in quei luoghi abbandonati, ne assimilarono anche aspetti architettonici che rientravano nel bagaglio culturale delle maestranze passate per la via Traiana, prima, costiera poi. Non solo, l’interconnessione delle due vie è documentata anche dall’impegno di due vescovi pugliesi, proprio in un documento del 1162. Documento in cui, per assenza del vescovo di Molfetta, il vescovo di Ruvo di Puglia “Ursone” presenziò alla delimitazione e benedizione di un terreno nel luogo ove sorgerà la Chiesa della Madonna dei Martiri: «in loco Carnarie ubi corpora peregrinorum martirum venerabiliter requiescunt».

La Via Calabra

Dopo Bari e superata Egnazia, i pellegrini giungevano a Brindisi e, da lì, la strada diventava unica. In effetti, la via Traiana a un certo punto diventerà Calabra e rappresenterà la principale diramazione adriatica, che, partendo da Brundisium, proseguiva fino a Hydruntum. In questo caso, la denominazione “calabra”è solo una convenzione per indicare il tratto costiero diviso in due tronconi: Brundisium-Lupiae, Lupiae-Hydruntum.
La città di Otranto era considerata, dunque, la fine della via Appia e di quella Traiana per la sua caratteristica di porto proiettato verso l’Oriente e ancor più esposta rispetto a Brindisi. La sua denominazione di “Terra d’Otranto” (riferita a tutto il Salento, fino a Leuca – de finibus terrae) è dovuta proprio ai numerosissimi pellegrinaggi di cui fu meta per tutto il Medioevo e oltre.
Otranto è anche conosciuta come la città che nel 1480 fu espugnata dai Turchi, che qui martirizzarono 800 persone, dopo aver distrutto il Monastero di San Nicola di Casole, quello stesso monastero da dove era partito il monaco Pantaleone, autore dello splendido mosaico policromo che occupa la navata centrale della Cattedrale e che, probabilmente, resta ancor oggi il più grande mosaico romanico d’Europa.

Molti altri documenti sulle Vie Francigene in Puglia si devono ancora a Ferdinando il Cattolico e a Federico II, tuttavia sappiamo che, nel corso del tempo, il paesaggio di queste vie mutò drasticamente a causa della nuova viabilità.

Questi i bellissimi versi di un carme che il vescovo Paolino da Nola, scrivendo al suo omonimo di Niceta, dedicherà con questo tono: «Quando passerai per Otranto e Lecce, ti circonderanno schiere virginee di fratelli e insieme di sorelle che innalzano all’unisono inni al Signore» (Carm. 17, 85-88: «Te per Hydruntum Lupiasque vectum/ innubae fratrum simul et sororum/ambient uno dominum canentes/ore catervae»).

L’articolo è stato pubblicato su Radici Cristiane n. 134 di giugno 2018