“È scalzo il nostro prete”
Per quanti di noi siamo ancora ancorati alla teologia deduttiva, quella che cerca di fare calare sulla terra un principio teologico “celeste” e quindi spinge a realizzare i “sogni” di Dio, fa una certa impressione sentire un papa che invece ci invita a metterci in contemplazione della vita normale di un qualsiasi autentico parroco per vedere in essa i segni del Regno che viene. Non siamo ancora abituati alla spiritualità di Francesco, al suo gusto di ascoltare prima le grida del popolo, gli aneliti dei cuori, per comprendere poi che intende ottenere la stessa Parola di Dio.
Nel maggio scorso, in occasione della 69a Assemblea Generale della CEI, papa Francesco in quest’ottica si è mosso quando ha dichiarato:
«Non voglio offrirvi una riflessione sistematica sulla figura del sacerdote. Proviamo, piuttosto, a capovolgere la prospettiva e a metterci in ascolto, in contemplazione. Avviciniamoci, quasi in punta di piedi, a qualcuno dei tanti parroci che si spendono nelle nostre comunità; lasciamo che il volto di uno di loro passi davanti agli occhi del nostro cuore e chiediamoci con semplicità: che cosa ne rende saporita la vita? Per chi e per che cosa impegna il suo servizio? Qual è la ragione ultima del suo donarsi?».
Alla CEI non parla della situazione italiana, certo non florida, né degli impegni dell’episcopato italiano sulla vita etica e sociale. Non accenna a questioni organizzative, non si confida sulle riforme1 che ha in mente di operare nella chiesa e che va realizzando col suo inconfondibile stile. Va alla radice del cuore del prete, al suo essere innamorato o no del Cristo e della sua gente.
Rinviando il lettore a questo breve e prezioso testo di papa Francesco, qui ci fermiamo su un passaggio denso di significato. Dopo averci invitati ad avvertire la durezza del nostro ministero quotidiano, il papa continua:
«Quante persone incontriamo che sono nell’affanno per la mancanza di riferimenti a cui guardare! Quante relazioni ferite! In un mondo in cui ciascuno si pensa come la misura di tutto, non c’è più posto per il fratello. Su questo sfondo, la vita del nostro presbitero diventa eloquente, perché diversa, alternativa. Come Mosè, egli è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un “devoto”, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco. È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano: consapevole di essere lui stesso un paralitico guarito, è distante dalla freddezza del rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato. Dell’altro accetta, invece, di farsi carico, sentendosi partecipe e responsabile del suo destino».
“Poveraccismo” e povertà evangelica
«Questo papa ci vuole ridurre alla fame» – «Questo papa non tiene conto della dignità sacerdotale» – «Dalla fine del mondo non è arrivato un povero cristiano ma un poveraccista che scambia il mondo per una favela»… Queste reazioni al papa argentino le abbiamo sentite fin dal 2013. Chi sa come certi preti, già impauriti per la venuta di un papa anomalo, hanno accolto l’espressione “è scalzo il nostro prete”.
Anche se a prima vista quella frase ci spiazza, forse è il caso di prenderla sul serio, cioè dal cominciare a chiederci se essa indica o no un rimedio alla situazione sociale ed ecclesiale che stiamo vivendo.
1 Cf. A. SPADARO–C. M. GALLI (edd), La riforma e le riforme nella chiesa, Queriniana, Brescia 2016;
R. LA VALLE, “Ho visto la miseria del mio popolo”. Un papa per l’unità umana, Ed Pazzini, Villa Verrucchio (VR) 2016.
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Per quanti di noi vivono «come ai tempi di Noè in cui tutti mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito» (Mt 24,37-44): vivevano cioè la vita ordinaria senza accorgersi né del disastro che incombeva, né della vita nuova a cui erano chiamati; per quanti di noi tutto ciò che succede è ovvio, e siamo del tutto indifferenti alla disumanità in doppio petto e feroce che miete vittime innocenti ogni giorno, per noi non si sa bene che voglia dire “salvezza”, “venuta del Signore”, “cieli nuovi e terra nuova”.
Papa Francesco è di altra razza. Per lui il mondo è retto da un sistema pagano di forza e ricchezza che esige una “chiesa testimoniante”, una proposta seria del Vangelo, e preti che siano “santi”, cioè “altri”, come “altro” è stato il loro Signore. Cioè preti poveri, così ricchi della loro povertà da non avere bisogno di nulla per salvaguardare la loro dignità e la libertà del loro amore disinteressato al popolo di Dio. Se le scarpe rosse papali furono ripudiate dal papa perché un resto dei segni della divinità degli imperatori romani, se le scarpe nere con cui cammina l’uomo comune fa del papa non un superuomo ma un fratello tra fratelli, è poi così strambo che a noi si dica di essere “scalzi”, come lo era Mosè nel luogo santo che calpestava? Che segno sarebbero le macchine blu su cui vorremmo volentieri viaggiare, il “decoro” dei “palazzi” dove si ostenta benessere molto terrestre e tranquillità da sonnacchiosi? Forse solo la conferma che il Vangelo è una scusa per noi, una “merce” come un’altra per costruire le nostre promozioni sociali.
“Scalzi” in un mondo ricco e amante del lusso sfrenato, è parola fin troppo evocativa per chi sa che non c’è salvezza, a nessun livello, se non si comincia ad essere, fin da ora alternativi al sistema pseudocristiano che abbiamo costruito noi cristiani. La povertà evangelica non è “poveraccismo”, non è neoplatonismo, non è disprezzo del corpo e dei beni della terra, non è questo nostro ipocrita avere tutto ed ostentare “comprensione per il sacrificio, la sofferenza, il destino, la grandezza” di coloro che noi abbiamo condannato a non avere niente. Povertà secondo Gesù è “adorazione” della vita delle persone poste sempre prima delle cose, adorazione di Dio-Amore e ripudio di Mammona. Povertà è sentire di avere ricevuto tutto da Dio e dagli altri. Sentirsi come mendicanti che per tutto hanno steso la mano a Dio ed ai fratelli. Povertà è sapere che l’unica nostra ricchezza è la dignità di figli di Dio che ci fa capaci di accogliere e dare amore.
“Pastori” a piedi scalzi
Nella mia lunga vita ho sempre sentito parlare di preti o vescovi che “prendono possesso” della loro sede in pompa magna, da “padroni” medievali, come se quel ruolo non fosse un servizio da prestare ma una onorificenza da godere.
Ma un giorno si seppe dai giornali che un neo eletto sindaco volle entrare in Comune a piedi scalzi. Non so che c’era nella sua mente, ma è un dato certo che quel gesto colpì la fantasia di tanti. Folklore populista – sentenziarono i benpensanti. Stupore nei semplici, non abituati a quel linguaggio. Si intuì oscuramente che con quel gesto si diceva qualcosa come: «Vado in punta di piedi, scalzo, nella casa dei figli di Dio, non dei miei clienti o dei miei fans. Il servizio alla gente è qualcosa di sacro a cui piegarmi, perché per questo sono stato eletto».
Supposizioni benevole queste, ma sarà molto bello il giorno in cui un prete entrerà così in parrocchia o un vescovo in diocesi, e dirà – mantenendo la parola ogni giorno – che vuole solo servire e mai servirsi del popolo di Dio.
Il papa non per nulla si rifà all’esperienza di Mosè nella steppa di fronte al roveto che brucia e non si consuma (cf. Es 3,1-6). A Mosè fu detto che la sua chiamata era un servizio non una promozione di grado: «Togliti i calzari perché qui tutto è ‘diverso’ da come appare, tutto è ‘santo’, ‘separato’” dalle logiche del mondo». Mosè non è il fuggiasco che si è accasato, il pastore che pascola il gregge del suocero Jetro, ma è uno chiamato ad essere pastore di un popolo per guidarlo in una impresa improbabile di liberazione popolare. È l’inviato da Dio, non il terrorista che in Egitto fa giustizia da sé contro gli oppressori del suo popolo. È scalzo Mosè, inerme di fronte a Dio, non può che piegare il capo e dire “Eccomi”. È scalzo il nostro prete se – dice il papa – «come Mosè, egli è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere». Se, come il suo Signore, accetta di essere “segno di contraddizione” in un mondo disumano, e dunque segno di speranza.
«Non siete i padroni delle persone a voi affidate» (cf. 1Ptr 5,3)
“È scalzo il nostro prete” anche in un senso più sottile. Servirsi del popolo come di un piedistallo della propria superiorità significa candidarsi inevitabilmente a ripetere nella chiesa di Dio “il peccato del mondo”, quell’illudersi di potere sfuggire alla propria precarietà esistenziale sentendoci super-uomini, non legati come tutti all’humus di Madre Terra che ci plasma, ma eccezionali, possibili candidati a pseudo-dei per i deboli ed i semplici. Operazione questa molto facile per un prete poco sicuro di sé, che identificando se stesso con la Dottrina veneranda che trasmette, con la Chiesa “diffusa su tutta la terra”, addirittura con Dio che proprio ai suoi “ordini scende nell’Eucaristia”, illudendosi che parlare di santità dottamente significa essere “santi” o comunque al di fuori della legge morale pensata per tutti; questo tipo di prete si sente sganciato da ogni limitazione e guarda dall’alto in basso chi non è stato “prescelto” come lui.
La storia della chiesa è costellata di simili identificazioni e conseguenti “millantati crediti” e “abusi di ufficio”. Ci siamo sentiti in diritto di spadroneggiare sul gregge affidato e, peggio, di essere “padroni” della
Parola e non suoi discepoli. I disastri sono tanti in 2000 anni che ci si stanca a ricordarli, ma alcuni così penosi e patetici da fare amaramente sorridere, come quando si è saputo di quel prete che di fronte a delle direttive accorate di papa Francesco sui rifugiati e profughi, dichiarava: «Quel signore vestito di bianco parli a Roma dove lui abita, io parlo alla mia gente nel paese in cui vivo».
Di solito la convinzione di essere superiore al popolino maledetto che non conosce la legge (cf. Gv 7,49), porta un prete o un vescovo a desiderare promozioni di grado, parrocchie o diocesi “più prestigiose”. Cose tutte che solo l’autorità costituita concede. Meglio allora averla amica questa autorità, non opporvisi a muso duro, anzi assumere atteggiamenti di “servo encomio”, di difensori a spada tratta dei “sacri poteri”, fino a rinunziare a quella libertà interiore che permette a tutti di cercare insieme il volto ed il volere di Dio.
Una sottospecie è quella dei cosiddetti “preti camaleonte”: rispettosi in pubblico di qualsiasi autorità, critici spietati in privato, almeno fino a quando, raggiunta la meta e rassicurati del loro status, non possono uscire allo scoperto. Si tocca con mano che il rischio di ipocrisia, benché denunziato da Gesù, non è stato estirpato una volta per tutte.
Custodi e non padroni della Terra
Rifacendosi all’esperienza di Mosè nel deserto dell’Oreb (cf. Es 3,16), il papa afferma: «È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa».
Come un giorno Paolo in Rm 8,18-24 legava insieme la natura e l’uomo nella situazione di peccato e di speranza, così Papa Francesco oggi è convinto che Dio vuole salvare l’uomo, dunque anche quella natura che ne rende possibile la vita. Nel sistema che abbiamo costruito domina la forza che porta violenza e morte a tutti i livelli. Bisogna cambiare paradigma perché la vita sia possibile nell’armonia e nella pace. Bisogna riconoscere l’intangibilità delle leggi di natura pensate per favorire la vita. Bisogna liberare la terra dal “peccato a cui è stata sottomessa” da quando proprio dalla Terra abbiamo ricavato pietre per uccidere, clave, fuoco divoratore, energia per incenerire in pochi secondi centinaia di migliaia di creature umane. Il prete, nei secoli, si è potuto ubriacare di progresso come tutti, forse non ha scrutato i segni dei tempi, ha creduto che l’uomo fosse solo padrone e non “custode” della Terra. Ed anche oggi trova eccessiva l’espressione papale che ci si deve “ostinare” a camminare con rispetto sacro, a piedi nudi, come in pellegrinaggio, sulla terra “santa”.
Ci vuole ostinazione perché è vincente la logica della manipolazione genetica – come vogliono le multinazionali agroalimentari – senza adottare nessun principio di precauzione a salvaguardia della vita. È vincente la “logica del dinosauro”: consumiamo tutto, sfruttiamo, avveleniamo ogni terra, desertifichiamo le foreste, rendiamo anche mortali i raggi del sole, perché questo è progresso, aumento del PIL, civiltà. E quando tutto finirà, finiremo noi e il mondo.
Un prete “scalzo”, controcorrente, forte solo della Parola, dice che no, che siamo raggi di vita e che il nostro destino è la vittoria su ogni morte.
Questo prete “sa” che questa ostinazione a considerare e credere “santa” la terra che calpestiamo non è ideologia “verde”, ma semplice conseguenza di avere dato un’occhiata alla voce Vangelo della gioia o alla voce Laudato si’. Lì si sente solo la nuda, “scalza” voce del Falegname di Nazareth che guarda con immenso amore gli uomini di tutti i tempi.
In punta di piedi nel mondo, eppure da sacerdoti, re e profeti
La nostra difficoltà ad essere “scalzi” è amplificata proprio dal ministero che ci è stato affidato. Siamo investiti da una grande fiducia divina. Ci vengono affidati i figli di Dio, la loro autenticità cristiana, il cammino del loro lento maturare come figli dell’Eterno, la loro uscita dalla belluinità corrente chiamata pomposamente civiltà e progresso. E noi invece di lodare il Padre “per avere fatto cose grandi in noi, attento alla pochezza dei suoi figli”, crediamo di avere meritato tutto questo e confondiamo chiamata divina con nostre eccezionali qualità umane. E sovvertiamo Filippesi 2,6. Lì, il Verbo non ritenne diritto di rapina – arpagmòs – privilegio geloso, il suo essere uguale a Dio, e divenne servo, noi crediamo di avere il diritto di ritenerci superuomini e “signori” perché il Verbo ci ha giudicati degni di tanta fiducia da mettersi nelle nostre mani. E invece siamo umani, siamo splendore divino che solo a fatica diventa esistenza quotidiana, siamo un grumo di chiamate, di possibilità incredibili che attendono il nostro “sì”, la nostra graduale riappropriazione di ciò che “siamo ma che ancora non appare” (cf. 1Gv 3,2), siamo creature limitate, in cammino, sempre a rischio, mai “confermati in grazia”, mai al sicuro. La nostra sicurezza è l’Amore del Padre, non la nostra eccellenza. L’ordinazione non è una assicurazione contro gli infortuni di rovinose scivolate in burroni di abiezione. Siamo peccatori misericordiati e per questo chiamati ad essere Misericordia come il Padre. Un po’ di ironia non guasterebbe nei momenti di esaltazione maniacale e nelle sbornie di presunta grandezza. Io me lo ripeto spesso quel proverbio latino, “sutor, ne ultra crepidam!”. Non montiamoci la testa, non mostriamo ciò che non siamo. È vero – come ci direbbe De Mello – siamo aquile e non possiamo vivere come galline che razzolano in cerca di vermetti. Ma è anche pericoloso credere di avere imparato a volare alto solo perché non ci piace più starnazzare ed abbiamo provato qualche nostalgia di cielo terso. Il cammino è lungo e lo faremo insieme con tutti i nostri fratelli di cammino tra tentativi ed errori, bagliori di luce ed ombre, sconfitte e innegabili vittorie.
Solo se questa riforma del cuore papa Francesco riesce a metterla a segno fidando nell’onnipotenza di quello Spirito che rinnova tutte le cose, le altre riforme organizzative potranno avere una qualche probabilità di efficacia per fare della chiesa ciò che è chiamata ad essere, la famiglia di tutti i figli di Dio.
Felice Scalia
via Pozzicello, 39
98165 Messina Ganzirri (ME)
Tratto da “HOREB” tracce di spiritualità a cura dei Carmelitani anno XXVI – 2017 – n. 2 – “ La riforma della Chiesa, oggi” – Per informazioni: horeb.tracce@alice.it