sabato 15 luglio ore 17.00
Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male
Mons. Renato Boccardo, Arcivescovo di Spoleto-Norcia
Il Padre Nostro si sviluppa in un crescendo di intensità e si conclude quasi con un grido: «Non ci indurre in tentazione». Chiediamo cioè di non cadere nella tentazione, non di non avere tentazioni. Perché la tentazione fa parte dell’uomo. Lo diceva già san Paolo: «La carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste» (Gal 5, 17).
L’espressione «Non ci indurre in tentazione», tuttavia, continua a suscitare sorpresa. La traduzione abituale, infatti, lascia supporre che Dio potrebbe spingerci volontariamente nella tentazione, mentre la Scrittura afferma: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno» (Gc 1, 13). […] Dio può essere causa, anche indiretta, del nostro male? No, Dio non tenta nessuno (cf Gc 1, 13), ma dona la sua grazia a chi deve affrontare la tentazione e la prova.
Dopo aver ricordato severamente le mancanze del popolo di Israele nel deserto, Paolo conclude: «Dio… non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1 Cor 10, 13). La preghiera del Padre Nostro si riferisce dunque alle diverse sollecitazioni al male, a quegli scandali così fortemente condannati dal Vangelo (Mt 5, 29-30; 18,6-9) e alle prove dell’esistenza che rischiano di mettere in pericolo la fede.
Perché solo con la preghiera si può avere sopravvento sugli spiriti maligni (cf Mt 17, 21; Mc 9, 29). Bisogna dunque vedere il demonio dappertutto? […] Sarebbe un alibi troppo comodo per dimenticare che la causa ordinaria delle nostre mancanze è in noi. «Dal cuore, infatti, – dice Gesù – provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie » (Mt 15, 19). Solo l’uomo è responsabile del male che compie e che attraverso di lui entra nel mondo. I padri del deserto ricordano: «Non dare la colpa né a Dio né al diavolo, né al mondo, né alla carne con le sue passioni, ma dà la colpa a te stesso e solo a te stesso!».
Dobbiamo domandare allora la purificazione del cuore. Tomás Spidlík, uno dei più grandi esperti della spiritualità orientale, nel suo libro L’arte di purificare il cuore elenca cinque stadi di penetrazione della malizia nel cuore umano: 1) la suggestione, 2) il colloquio, 3) il combattimento, 4) il consenso, 5) la passione. La “suggestione” è la prima immagine generata dalla fantasia, la prima idea, il primo impulso: se la mettiamo subito da parte, essa se ne va così come è venuta. Ma l’uomo normalmente non lo fa, si lascia piuttosto provocare e comincia a riflettere. È il “colloquio”: un pensiero che, a lungo coltivato, si è insidiato nel cuore e non si lascia scacciare facilmente.
In questo stadio, però, l’uomo è ancora libero di non acconsentire. «Può e deve uscire vittoriosamente da questa lotta, ma gli costa tanta fatica»: è il «combattimento». Il “consenso” si dà quando si decide di realizzare ciò che il pensiero maligno suggerisce: è il peccato vero e proprio che, pur se non si concretizza esteriormente, rimane interiormente. La “passione” «è l’ultimo stadio, quello più tragico. Chi soccombe ai pensieri maligni, spesso indebolisce progressivamente il suo carattere. Nasce così una costante inclinazione al male che può diventare forte a tal punto da essere molto difficile resisterle».
Spiega papa Francesco: «Nel sacramento della Riconciliazione Dio perdona i peccati, che sono davvero cancellati; eppure, l’impronta negativa che i peccati hanno lasciato nei nostri comportamenti e nei nostri pensieri rimane. La misericordia di Dio però è più forte anche di questo. Essa diventa indulgenza del Padre che attraverso la Sposa di Cristo (la Chiesa) raggiunge il peccatore perdonato e lo libera da ogni residuo della conseguenza del peccato, abilitandolo ad agire con carità, a crescere nell’amore piuttosto che ricadere nel peccato».
È chiaro che nella tentazione abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio. Le nostre risorse sono insufficienti. Allora l’essenziale è sapere come comportarsi. Gesù ci indica la strada: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mc 14, 38). Questa vigilanza – che si esercita con la preghiera e il discernimento dei desideri che ci agitano – è la nostra collaborazione necessaria all’azione di Dio. Sant’Agostino è lapidario: «Dio, che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te». […] Come può Dio, che è padre di tutti, permettere che i suoi figli cadano? Ed è profondamente vero. Dio non ha sottratto Gesù alla tentazione. Non lo fa neanche per noi. Egli sembra piuttosto “utilizzare” la tentazione per la nostra salvezza.
Ma allora chi è l’autore della tentazione? Il Maligno, il cattivo, il malvagio, il diavolo, che è la potenza personificata del male. L’apostolo Giovanni conferma questa identificazione parlando del serpente antico chiamato diavolo e Satana, colui che inganna gli abitanti della terra (cf Ap 12, 9). Il progetto di Dio è di salvare, non di ingannare qualcuno. Chi compie questa manovra perversa è il demonio. È un mistero che ci sfugge, ma che la tradizione cristiana ha cercato di esprimere se non di spiegare. Origene scrive nel secondo secolo: «A qualcosa la tentazione serve».
E sant’Agostino spiega così: «La nostra vita in questo esilio non può essere senza prove, e il nostro progresso si compie attraverso la tentazione. Nessuno può riconoscersi finché non è tentato; allo stesso modo che nessuno potrà essere incoronato se non dopo la vittoria, vittoria che non ci sarebbe se non ci fossero la lotta contro un nemico e le tentazioni». L’Imitazione di Cristo aggiunge: «Due sono i modi con i quali io visito i miei eletti: la tentazione e la consolazione. Due sono le lezioni che io do loro ogni giorno: una, rimproverando i loro vizi; l’altra, esortandoli a rafforzare le loro virtù» (III, 2).
«Chi non ha avuto prove, poco conosce», dice il Siracide (34, 10). Come l’oro nel crogiuolo è provato con il fuoco, così è necessario che la nostra preziosa libertà sia messa alla prova perché conosca i suoi limiti e si apra pienamente al bene che le è proposto e che è Dio stesso. Ogni tentazione permette dunque all’uomo di conoscersi. Satana, in effetti, non riesce ad attaccarci se non là dove abbiamo lasciato aperta una porta. La nostra resistenza alla tentazione, invece, rivela la nostra forza interiore. Ecco allora che la tentazione diventa un momento fondamentale della conoscenza di sé.
Per questo tra i primi detti di Antonio, il padre dei monaci, c’è questo: «Nessuno, se non avrà conosciuto le tentazioni, potrà entrare nel regno dei cieli. Togli, infatti, le tentazioni, e nessuno sarà salvato». La tentazione è, insomma, l’ora della verità. Sulla scia di Ignazio di Loyola, papa Francesco afferma che «il luogo della tentazione è luogo di grazia… Il cuore della tentazione sta nel binomio fedeltà-infedeltà. Dio nostro Signore vuole una fedeltà che si rinnovi ad ogni prova».
La tentazione costituisce dunque come il «passaggio obbligato» nella costruzione della libertà, che si rafforza attraverso le scelte che compiamo. La nostra relazione con Dio non ci preserva dal combattimento umano e spirituale, ma ci dona nella fede la certezza di uscirne vincitori con Cristo. Scrive San Pietro ai primi cristiani: «Siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco – torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà» (1 Pt 1, 7-8).
Renato Boccardo