sabato 8 luglio ore 17.00
Sia fatta la tua volontà
Card. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
Tertulliano, che è stato il primo commentatore cristiano del “Padre nostro” con la sua De oratione Domini scritta alla fine del II secolo, affermava che questa preghiera insegnata da Gesù è il «breviarium totius evangelii» (1,6): non per nulla è incastonata dall’evangelista Matteo in quel Discorso della montagna considerato da molti come la Magna Charta del cristianesimo. Meditare il testo dell’oratio perfectissima– così la definiva san Tommaso d’Aquino nella sua Summa Theologiae (II,II, q.83, a.9) – è perciò una via per ritrovare la sostanza del messaggio cristiano.
Anzi, un teologo, Aimé Solignac, riteneva che «il Padre nostro può essere anche la preghiera di tutti i figli di Abramo, espressione della loro fede in un Dio personale che è Padre e Creatore e di amore fraterno verso tutti gli uomini ». Ora, la terza invocazione «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» è in un certo senso lo sviluppo logico della precedente «Venga il tuo Regno». Infatti la volontà divina ha per oggetto proprio l’attuazione del Regno di Dio che si compie nella pace, nella salvezza, nella giustizia: «Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Timoteo 2,3- 4).
Anzi, «Questa è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda» (Matteo 18,14). «Fare la volontà del Padre » è anche l’impegno fondamentale di Cristo: «Io sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato» (Giovanni 6,38-39). Nel momento supremo della sua morte Gesù si rivolge al Padre così: «Abbà, Padre, tutto a te è possibile, allontana da me questo calice! Tuttavia non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu!» (Marco 14,36).
«Fare la volontà del Padre» è anche l’impegno primario del discepolo, come si ripete nel Vangelo: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli… Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Matteo 7,21; 12,50). Certo, talora agli occhi degli uomini la volontà divina risulta misteriosa, fin oscura: «Tutti gli abitanti della terra sono, davanti a lui, come un nulla; egli tratta come vuole le schiere del cielo e gli abitanti della terra. Nessuno può fermargli la mano e dirgli: “Che cosa fai?”» (Daniele 4,32).
E la protesta di Giobbe ne è una testimonianza lacerante. Proprio partendo da tale contrappunto tra volontà-libertà divina e volontà-libertà umana vorremmo riflettere su questa invocazione del “Padre nostro” approfondendo un tema che da sempre ha coinvolto la teologia e la spiritualità, quello dell’incrocio, talvolta problematico, tra grazia divina e libertà umana. Iniziamo dalla libertà-volontà umana esaltata in due passi biblici. Da un lato, la scena d’esordio delle Scritture: l’uomo e la donna sono collocati nei cc. 2-3 della Genesi all’ombra «dell’albero della conoscenza del bene e del male», un evidente simbolo della morale nei cui confronti la creatura si trova libera se accettarne il valore oppure, strappandone il frutto, decidere in proprio ciò che è bene e male.
D’altro lato, citiamo un passo emblematico della sapienza d’Israele: «Da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti, l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà. Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Siracide 15,14-17).
Ora, il tema dell’incontro tra volontà umana e volontà divina è complesso perché suppone un intreccio tra antropologia e teologia, cioè tra l’immanenza e la trascendenza, tra la creaturalità e la divinità, tra l’uomo/donna e Dio. Un incontro nel quale nessuno dei due protagonisti deve prevaricare sull’altro. Infatti, la creatura umana, dotata di libertà, non può ignorare il Creatore e la sua parola e, quindi, deve compiere una scelta libera ascoltando o rifiutando quella parola.
Dio, d’altronde, ha scelto di avere di fronte a sé un interlocutore libero e non una stella regolata da meccaniche celesti obbligatorie e, quindi, rispetta la decisione umana, anche quando essa è negativa, pur non restando indifferente, e qui entra in scena il tema del giudizio morale sul bene e sul male. La grazia divina, pur nella sua efficacia, scende quindi non all’interno di un oggetto inerte ma in un essere libero: egli può accogliere o rifiutare quel dono, può aprire o lasciare chiusa la porta della sua anima a cui bussa il Signore che passa, per usare la celebre metafora dell’Apocalisse (3,20).
Esprimeva bene questo aspetto delicato e fondamentale – sul quale si sono accaniti per secoli i teologi cercando di definirne l’equilibrio – p. David M. Turoldo quando scriveva: «Sono certo che Dio ha scoperto me, ma non sono certo se io ho scoperto Dio. La fede è un dono, ma è allo stesso tempo una conquista». […] Essere liberi non è una pura e semplice reazione istintiva, né soltanto un sottrarsi a un’oppressione o a un’imposizione, ma è una scelta volontaria, coerente e cosciente tra opzioni differenti per una meta da raggiungere. Per questo il drammaturgo tedesco Georg Büchner nella Morte di Danton (1834) affermava che «la statua della libertà è sempre in fusione ed è facile scottarsi le dita».
Vivere nella libertà autentica, come ricorda spesso anche san Paolo, è un atto impegnativo perché comporta una scelta rigorosamente volontaria e cosciente. Dal grande romanziere russo Fëdor Dostoevskij desumiamo una suggestiva riflessione su questo nesso tra fede e libertà, proprio partendo dalla figura di Cristo. Scriveva: «Tu non discendesti dalla croce quando ti si gridava: Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu! Perché una volta di più non volesti asservire l’uomo… Avevi bisogno di un amore libero e non di servili entusiasmi, avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio ».
Lo scrittore rievoca la scena del Golgota col Cristo morente sbeffeggiato dai passanti: «Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce! Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo!» (Matteo27,39- 42). Come durante la sua esistenza terrena aveva evitato gesti taumaturgici spettacolari, preoccupandosi solo di sanare le sofferenze umane, spesso in disparte dalla folla e imponendo il silenzio ai miracolati, così in quel momento estremo Gesù affida la sua rivelazione non al prodigio ma allo scandalo della croce. Egli non cerca adesioni interessate e coatte, ma invita a una fede volontaria e guidata dall’amore che è per eccellenza un atto di libertà.
Senza questa dimensione la fede diventa parodia, come si intuisce dalla ricostruzione che la scrittrice francese Simone de Beauvoir faceva della sua crisi giovanile che le fece abbandonare la fede. Nelle sue Memorie di una ragazza perbene (1958) rievoca, infatti, il momento in cui in collegio, ascoltando una predica del cappellano p. Martin sull’obbedienza, si era fatta in strada in lei la necessità di liberarsi dall’incubo della religione, proprio perché essa – secondo quella visione che in realtà era una deformazione dell’autentica fede – comportava la cancellazione della libertà.
Raccontava: «Mentre l’abate parlava, una mano sciocca si era abbattuta sulla mia nuca, mi faceva chinare la testa, mi incollava la faccia al suolo, per tutta la vita mi avrebbe obbligata a trascinarmi carponi, accecata dal fango e dalla tenebra; bisognava dire addio per sempre alla verità, alla libertà, a qualsiasi gioia». Per questo è importante un annuncio corretto della fede che, senza concedere nulla a un accomodamento troppo facile o a un compromesso generico e comodo, non deformi però la vera anima della fede, introducendo un volto sfigurato di un Dio imperiale e tirannico, quella che Lutero chiamava la simia Dei, cioè la “scimmiottatura di Dio”.
Il credere genuino non è schiavitù ma libertà, non è imposizione ma ricerca, non è obbligo ma adesione, non è cecità ma luce, non è tristezza ma serenità, non è negazione ma scelta positiva, non è incubo minaccioso ma pace. Come affermava in un suo saggio, Vivere come se Dio esistesse, il teologo tedesco Heinz Zahrnt, «Dio abita soltanto là dove lo si lascia entrare».
Gianfranco Ravasi