Non è una novità il fatto di dare a Dio il titolo di padre. Nelle culture pagane il termine padre ha due accezioni: da una parte richiama la generazione; d’altra parte è sinonimo di padrone. Non si utilizza, invece, il termine padre con una valenza amorosa, per indicare una relazione d’amore fra l’umanità e la divinità. Nel mondo biblico il termine padre si adopera soprattutto per esprimere la singolare relazione fra il Messia discendente di Davide e Dio stesso: «Egli mi invocherà: Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza» (Sal 89,27).
La novità di Gesù, dunque, non sta nell’uso del termine padre per rivolgersi a Dio, ma nel contenuto che attraverso quell’appellativo egli esprime e comunica. Se poteva essere insolito per un israelita chiamare Dio Padre, è decisamente strano e impensabile chiamarlo «Abbà» (Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4,6). La stranezza sta nel fatto che si tratta di un’espressione aramaica propria del linguaggio infantile, indeclinable e senza suffissi, tipica del parlare quotidiano in famiglia: corrisponde al nostro «papà» o «babbo», ed esprime intimità, confidenza, tenerezza e fiducia.
«Alla sensibilità dei contemporanei di Gesù sarebbe sembrato irriverente, anzi impensabile, rivolgersi a Dio con questo gergo familiare. Gesù ha osato invocare Dio chiamandolo ‘abbà e questa è una ipsissima vox Iesu» (J. JEREMIAS, Teologia, 82).
L’invocazione «Abbà» sulle labbra di Gesù rivela il mistero della sua figliolanza divina e ci dice la sua relazione di fiduciosa obbedienza verso il Padre: ma ai suoi discepoli egli trasmette la possibilità della stessa relazione.
(Cf. F. MORAGLIA, Dio Padre Misericordioso, Genova, Marietti, 1998, 50-54).