La Pentecoste nell’arte – Emil Nolde

1275
La Pentecoste, Emil Nolde, 1909, Nationalgalerie, Berlino

L’insieme delle opere di soggetto biblico di Emil Nolde riveste una particolare importanza, non solo nell’ambito della sua produzione, ma anche in quello della pittura religiosa del XX secolo. Tanto quanto in lui si agita uno spirito creativo che esprime una sensibilità intensa e drammatica, così si ritrova anche una fede essenziale e aspra, sempre in stato di ricerca, percepibile dal modo stesso con cui egli interpreta artisticamente gli eventi della Scrittura, come possiamo vedere anche in questa Pentecoste. Emil Nolde, nel 1951, si preoccupò di redigere un elenco ragionato di cinquantacinque sue opere religiose: in questo catalogo egli segnò come data fondamentale e generatrice di questa produzione il 1909, l’anno in cui dipinse questa Pentecoste, in parallelo con l’Ultima Cena e poi anche con la Derisione di Cristo.

Queste opere non furono realizzate per nessuna chiesa e non vennero commissionate da nessuno: fu solo per una sua «ispirazione», per un suo desiderio interiore, che l’artista le creò. A un certo punto della sua vita, dopo aver elaborato uno stile personale maturo, che fu all’origine dell’Espressionismo tedesco, Emil Nolde partì dalle sue acquisizioni già evidenziate in opere di soggetto profano per riformulare in un modo personalissimo l’iconografia religiosa. In questi dipinti ritroviamo dunque i caratteri distintivi della sua arte: il colore impiegato in estrema libertà, il disegno secco e ridotto al minimo, le emozioni sempre portate all’estremo nei volti e nei gesti dei suoi personaggi. Nolde ci comunica l’inquietudine sia della sua terra natale, al confine tra Germania e Danimarca, sia del suo tempo, a cavallo tra ’800 e ’900 (nasce nel 1867 e muore nel 1956).

La sua arte fu considerata dai Nazisti «arte degenerata», e dovette fare i conti anche con la censura delle Chiese (sia cattolica che protestante), causata della sua libertà d’espressione, considerata scandalosa e troppo innovativa. Ma pur conservando la sua originalità estetica, Nolde aveva sempre cercato, nelle sue opere di soggetto biblico, la più fedele attenzione ai testi delle Scritture. Nel 1930, in una sua lettera ritroviamo questa espressione: «Nei miei dipinti religiosi, obbedendo a un’istanza di verità, ho rappresentato i giudei come erano realmente, e come mai erano stati dipinti. Nelle opere d’arte dei secoli precedenti gli apostoli e i personaggi biblici erano stati dipinti sempre come se fossero degli italiani, o dei letterati e borghesi del Nord-Europa. Io li ho restituiti, come il Cristo, al loro popolo». Anche in questa Pentecoste è presente l’eco della sua fede, coltivata nel culto domenicale, nell’istruzione religiosa regolare che faceva parte della sua vita quotidiana, come pure nella lettura della Bibbia fatta in casa, alla quale la sua famiglia accordava una grande importanza, conformemente alla tra- dizione protestante. Negli anni seguenti, Emil Nolde ricorderà sempre con nostalgia le lunghe sere d’inverno passate in casa, in ascolto delle storie bibliche, e quando arriverà ai quarant’anni comincerà a farne il soggetto privilegiato della sua pittura straordinariamente innovativa.

I volti. L’artista ci pone bruscamente di fronte alle figure, violentemente espressive degli apostoli: essi compongono un cerchio umano ritmato dalle fiamme dello Spirito Santo che si posano su ciascuno. Sono gli uomini che poi usciranno dalla casa per essere testimoni del vangelo; da queste bocche scaturiranno le voci che annunceranno il kérigma e porteranno nel mondo il vento della novità pasquale, e proprio per questo motivo Nolde si rispecchiava in essi, poiché lui pure sentiva di dover portare la notizia della sua novità nel mondo dell’arte.

La mensa. Ma il pittore ha saputo inserire accuratamente in questo quadro anche altri elementi caratteristici della comunità cristiana nata a Pentecoste, e cioè la liturgia, la preghiera, la vita fraterna (cf. Atti 2,42).

La presenza della mensa al centro del dipinto crea immediatamente un cli- ma liturgico e ci comunica il significato di un’esperienza eucaristica: sulla luminosa tovaglia non ci sono né pane, né vino, è vero… ma attorno a questa mensa c’è l’assemblea riunita che entra in dialogo intimo col Signore e vive il momento fonte e culmine della vita cristiana. La narrazione della cena pasquale, memoriale del dono di Cristo, che viene proclamata nella messa, nell’invocazione dello Spirito Santo, diventa evento e sacramento. Ricordiamo che questo dipinto di Emil Nolde era stato realizzato in concomitanza con quello dell’Ultima Cena, di cui riprende fedelmente e in modo speculare l’impostazione. Lo stesso autore scrisse che queste due tele divennero una pietra miliare del suo itinerario artistico, poiché entrambe uscivano da uno schema compositivo classico e illustrativo, per privilegiare una visione interiore e drammatica degli eventi salvifici. Nolde insisteva nelle sue opere religiose sulla comunione tra Cristo ed i suoi discepoli, i cui tratti sono rudi, spigolosi e vigorosi: il volto di Cristo che era presente nell’Ultima Cena, ma che è ovviamente assente nella Pentecoste, si ritrova nelle fisionomie degli apostoli e assume un carattere mistico attraverso l’uso acceso del colore, specialmente del giallo, del rosso e del nero.

Le mani. Sulla mensa, il nostro sguardo è attirato da due coppie di mani:

  • le prime due, mani giunte, sono quelle dell’apostolo in posizione frontale: sono mani oranti che evocano i «salmi, gli inni, i cantici spirituali» con cui prega la comunità (cf. Colossesi 3,16). I discepoli accolgono il dono dello Spirito in un contesto di preghiera, che Emil Nolde evidenzia riprendendolo dall’iconografia tradizionale della Pentecoste (cf. Beato Angelico, El Greco…);
  • le altre due mani, sono le destre intrecciate dei due discepoli dai capelli neri in primo Queste mani sono il simbolo dell’agape, dell’amore fraterno che costituisce il cemento della casa-comunità. Questo vincolo di comunione non nasce primariamente dalla costruzione strategica di un consenso, ma dal rimanere in perenne stato di conversione verso quel centro che è il Signore Gesù, con l’aiuto dello Spirito Santo. Il senso della fraternità è suggerito anche dalla quinta mano visibile nel dipinto: è quella che un discepolo più indietro posa sulla spalla della figura centrale, come per far sentire una presenza che scalda, che incoraggia, che sostiene.

Generale. Quest’opera di Emil Nolde esce dalle nostre rappresentazioni tradizionali, e sa sorprenderci ancor oggi, mostrandoci un evento della storia salvifica, con un linguaggio estatico e visionario che sa farci contemplare il mistero di una Chiesa che trova il suo modello nella comunità-madre di Gerusalemme, la Chiesa fondata sugli apostoli, la cui architettura era basata sulle quattro colonne ideali dell’insegnamento, la comunione fraterna, la frazione del pane, la preghiera. Nel dipinto di Nolde noi ritroviamo queste note riassunte in pochi tratti e in poche tonalità di colori primari. Questa tela, che non concedeva nulla al gusto ufficiale e formalizzato delle grandi chiese, nacque dall’intensità spirituale di un artista che sentiva profondamente ciò che rappresentava. A proposito delle sue creazioni del 1909 egli scrisse: «Dipingevo e dipingevo, senza sapere se fuori era giorno o notte. Andando a dormire io vedevo davanti a me il dipinto in piena notte, e quando mi alzavo lo vedevo ancora». Nolde dunque era un uomo che sapeva sognare e che con la sua pittura «controcorrente», può stimolare ancor oggi noi a sognare una Chiesa «controcorrente», una Chiesa che resti sempre una casa e che non prenda le forme di un palazzo. Una chiesa di questo tipo, sempre disponibile ad accogliere la Parola e a lasciarsi rinnovare dallo Spirito Santo, la sogniamo in molti. L’ha sognata recentemente anche un religioso stimmatino, padre Silvano Nicoletto, insieme alla sua comunità che vive nel monastero di Sezano (Verona), un vero luogo «pentecostale»; con le sue parole ispirate chiudiamo così la meditazione su questo dipinto della Pentecoste.

«Coltiviamo un sogno audace, il sogno di una Chiesa minore: minore per- ché conserva sempre un pezzo di pane e non nega a nessuno il Pane di Vita; minore perché ama rimanere in compagnia degli ultimi della fila; minore perché ascolta, compatisce e non giudica; minore perché preferisce porre domande che fornire risposte; minore perché testimonia con la vita la verità senza imporla con la forza o con le leggi; minore perché si trova a suo agio con i perdenti piuttosto che con i vincitori; minore perché non spegne la debole fiamma della speranza; minore perché non ama vi- vere sotto i riflettori e preferisce i percorsi polverosi della terra alle piazze osannanti delle metropoli; minore perché ama la tenda e diserta il palazzo; minore perché è così piccola da trovare sempre un posto all’ultimo arrivato»

(Da Il Missionario, mensile degli Stimmatini, Luglio/Agosto 2009)
Commento di don Antonio Scattolini