L’idea di partecipazione alla liturgia poggia su principi dottrinali che hanno come fondamento l’ecclesiologia cattolica. Ora, se le attività ecclesiali, secondo il Concilio Vaticano II,1 ruotano attorno all’annuncio della Parola di Dio, alla celebrazione liturgica e alle azioni derivanti dal governo pastorale del Popolo di Dio, sarebbe un errore pensare che l’aspetto attivo di queste dipenda unicamente dai ministri ordinati e che la partecipazione dei fedeli rimanga esclusivamente passiva. Lo schema « dare-ricevere » non corrisponde esattamente alla natura profonda dell’ecclesiologia cattolica, ma costituisce una semplificazione eccessiva di una realtà che è molto più ricca. Naturalmente, non si tratta di negare il ruolo necessario e insostituibile del ministero dei Vescovi e dei sacerdoti, ma di rendere conto della sana teologia cattolica, così come è stata proposta dal Concilio Vaticano II.
Ecco, dunque, alcuni testi destinati ad illustrare tale proposito:
Le azioni liturgiche non sono azioni private ma celebrazioni della Chiesa, che è « sacramento dell’unità », cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi. Perciò tali azioni appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano; ma i singoli membri vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e della partecipazione effettiva.2
La logica conclusione delle precedenti affermazioni è che:
Ogni volta che i riti comportano, secondo la particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli, si inculchi che questa è da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata.3
E, più concretamente,
Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza.4
È importante osservare che il vocabolario utilizzato dal Concilio indica una preferenza per l’uso del termine « celebrazione », espressione che sottolinea la dimensione ecclesiale e comunitaria delle azioni liturgiche. Anche nel nuovo Codice di Diritto Canonico, si usa con grande frequenza il termine « celebrazione », senza per questo escludere il termine « amministrazione » dei sacramenti, espressione che veicola, anch’essa, dei concetti importanti sul piano teologico in vista di una corretta comprensione della natura e dell’efficacia dei sacramenti. Perciò nessuno può stupirsi del fatto che il termine « celebrazione » abbia acquisito un’importanza del tutto particolare nella catechesi liturgica e nel vocabolario corrente, sia dei sacerdoti che dei fedeli.
Proseguiamo la nostra riflessione citando altri testi del Concilio Vaticano II:
Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, la santificazione dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra.5 Effettivamente per il compimento di quest’opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua sposa amatissima, la quale l’invoca come suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’eterno Padre.6 Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado.7
Dopo aver fatto riferimento a vari aspetti complementari dell’insegnamento della Costituzione Sacrosanctum Concilium, è necessario evocare la dottrina del Concilio Vaticano II sul sacerdozio comune dei fedeli che, riprendendo un tema molto antico, esplicita in maniera eccellente il fondamento della partecipazione dei fedeli alla celebrazione liturgica. Ecco la citazione di questo testo di importanza capitale della Costituzione dogmatica Lumen Gentium:
Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli uomini (cf. Eb 5, 1-5), fece del nuovo popolo « un regno e sacerdoti per il Dio e il Padre suo » (Ap 1, 6; cf. 5, 9-10). Infatti per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce (cf. 1 Pt 2, 4-10). Tutti quindi i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cf. At 2, 42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cf. Rm 12, 1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in essi di una vita eterna (cf. 1 Pt 3, 15) Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all’offerta dell’eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e la carità operosa.8
La vita cristiana deve dunque essere guardata come un inno di « lode a gloria della grazia di Dio » (Ef 1, 6.12.14), come un’offerta di noi stessi a Dio, come vittime vive e sante, sapendo ciò che a Lui piace, ciò che è perfetto (cf. Rm 12, 1). Ora, questa lode trae il suo valore dal fatto che siamo incorporati a Cristo dal momento del nostro battesimo e che la lode perfetta che compie sulla Croce trascina la nostra o meglio, in altri termini, che la nostra lode si incorpora a quella di Cristo proprio per mezzo della presenza rinnovata del suo Sacrificio, compiuto una volta per tutte (Eb 7, 27; 9, 12.28; 10, 12.14) sul Calvario. Possiamo dunque affermare che, in questo senso, la vita cristiana è una vita sacerdotale, cioè una vita consacrata alla gloria di Dio o, ancora, una « vita liturgica », e questo non solo durante la celebrazione del culto liturgico propriamente detto, ma anche, e a partire da questo culto, e vivendolo come suo culmine (Sacrosanctum Concilium, 10), una vita che traspare in tutte le nostre azioni, comprese quelle che derivano direttamente dalle responsabilità temporali o che recano l’impronta di ciò che è provvisorio o incompiuto.
LA PARTECIPAZIONE
È certamente molto importante tenere conto delle riflessioni precedenti per continuare ad approfondire questo tema della partecipazione nel quadro della Liturgia.
Il testo più esplicito del Concilio Vaticano II sulla partecipazione dei fedeli alla Liturgia afferma quanto segue:
Ad ottenere però questa piena efficacia, è necessario che i fedeli si accostino alla sacra liturgia con retta disposizione d’animo, armonizzino la loro mente con le parole che pronunziano e cooperino con la grazia divina per non riceverla invano. Perciò i pastori di anime devono vigilare attenta mente che nell’azione liturgica non solo siano osservate le leggi che rendono possibile una celebrazione valida e lecita, ma che i fedeli vi prendano parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso.9
I tre aggettivi con i quali il testo conciliare qualifica la partecipazione sono dunque: « consapevole », « attiva » e « fruttuosa », ma il testo afferma che queste tre caratteristiche vanno al di là della semplice osservanza di una celebrazione valida e lecita, visto che devono essere le conseguenze delle « disposizioni di un animo retto » e della « cooperazione con la grazia divina ». Per cui « prendere parte », « far parte di un tutto », « agire », « incorporarsi » e « mettersi in comune » sono espressioni che non riguardano solo aspetti esteriori ma soprattutto e innanzitutto atteggiamenti interiori e spirituali. Se questo non avviene, è inevitabile che la celebrazione liturgica diventi una sorta di spettacolo o, se vogliamo, un’espressione di tipo folcloristico oppure un vuoto rituale e persino un esercizio ginnico o coreografico!
Le disposizioni interiori richieste per una partecipazione fruttuosa alla celebrazione della Liturgia corrispondono fondamentalmente alle virtù teologali: la fede, la speranza e la carità.
Se è vero, come afferma San Paolo per tre volte, che: « il giusto vive della fede » (Rm 1, 17; Eb 10, 28; Gal 3, 11), è chiaro che il culmine della vita cristiana, che è la Liturgia, non può esistere al di fuori della luce della fede e senza uno spirito di fede.
È vero anche che la fede cristiana, che è la virtù propria della nostra condizione di pellegrini, si accompagna necessariamente alla speranza. La fede ci mostra il senso della nostra esistenza quaggiù e i mezzi che dobbiamo adottare in questo mondo per raggiungere lo scopo definitivo della nostra vita. La speranza, da parte sua, ben consapevole delle nostre debolezze e ferite che il peccato ha lasciato nella nostra anima, guarda con fiducia allo scopo ultimo del nostro pellegrinaggio con la certezza di potervi giungere grazie all’aiuto di Dio che è l’unica cosa che può introdurci in un rapporto di « connaturalità » con Dio, sorgente dell’essere, della salvezza e della vita beata.
La fede e la speranza devono naturalmente giungere alla carità che ha per oggetto, in modo inseparabile, da una parte Dio in se stesso e, dall’altra, il prossimo per l’amore di Dio. È chiaro che si tratta, allo stesso tempo, dell’amore di Dio con tutto il nostro cuore, con tutte le nostre forze e con tutto il nostro essere, e dell’amore dei nostri fratelli, secondo le commoventi caratteristiche descritte da San Paolo (1 Cor 13, 1-13).
Alle tre virtù teologali, si può aggiungere un’altra disposizione interiore indispensabile per una partecipazione fruttuosa alla Liturgia: la virtù di religione. Questa espressione « virtù di religione » indica il rispetto profondo, l’umile adorazione di Colui che è tre volte Santo e al quale non siamo degni di avvicinarci (Es 3, 1-6; 1 Re 19, 9-13). Possiamo affermare che la virtù di religione è come « l’anima » della Liturgia; di fatto, anche se non possiamo mai dimenticare che Dio è nostro Padre, è comunque un Padre di immensa maestà, è il Signore onnipotente, è il Re di eterna gloria.
La fede
Ritorniamo adesso alla virtù teologale della fede per approfondirne i vari aspetti. È vero che, poiché le realtà divine appartengono al mistero della fede, non possiamo avere accesso alle realtà invisibili ai nostri occhi carnali se non attraverso la fede (Eb 11, 1) né possiamo, senza la fede, giungere alla convinzione che tutto ciò che vediamo proviene da ciò che non vediamo (cf. Eb 11, 3). In effetti, la fede svela ciò che è invisibile attraverso ciò che è visibile, la fede trascende le esperienze sensibili e ci permette di accedere al mistero; infine, è proprio la fede che ci consente di percepire l’efficace significato dei gesti liturgici lungo la storia della salvezza, dato che la Liturgia non è una costruzione astratta e fuori del tempo, ma è una celebrazione ben radicata negli eventi che costituiscono il tessuto della realizzazione del disegno eterno della salvezza, così come è stato voluto dal Padre, così come si è manifestato nel Verbo incarnato e così come continua a realizzarsi per l’azione dello Spirito Santo nella Chiesa.
I segni
Affrontiamo ora la questione specifica dei segni liturgici. Si può affermare che, senza alcun dubbio, la ragion d’essere dei segni propri della Liturgia deriva dalla natura umana, considerata nella sua realtà corporale e, insieme, spirituale; essa deriva anche dal mistero dell’Incarnazione, grazie al quale l’accesso al Dio invisibile diventa possibile attraverso l’umanità reale di Gesù Cristo. In effetti, come l’umanità di Cristo è lo strumento dell’azione salvifica del Verbo, così i segni liturgici contengono e trasmettono la potenza salvifica di Dio; attraverso di essi, la grazia di Dio è comunicata o intensificata in tutti coloro che hanno già ricevuto la giustificazione, l’adozione divina e l’incorporazione nella Chiesa.
Naturalmente, la comprensione dei segni liturgici è inserita nella partecipazione consapevole e fruttuosa alla Liturgia; comunque, anche se questi segni esercitano, con la loro semplice presenza, un ruolo pedagogico nei confronti di quanti, tuttavia, li percepiscono con una consapevolezza limitata dal punto di vista del loro contenuto, non di meno esigono la presenza di una mistagogia costante e di una formazione basata sulla catechesi liturgica, in grado di consentire sia ai fedeli che ai ministri di progredire nella conoscenza del mistero che si celebra. Questa osservazione è particolarmente importante quando si è in presenza di un rito che non è celebrato abitualmente, come ad esempio le ordinazioni o la dedicazione di una nuova chiesa. Niente nuoce maggiormente alla partecipazione spirituale dei fedeli ad una celebrazione liturgica dell’atteggiamento troppo frettoloso o distratto del celebrante, o il compiere, da parte sua, i gesti liturgici in maniera meccanica.
Vi sono tre termini, tratti da una preghiera tradizionale, che ben riassumono l’atteggiamento che ogni celebrante dovrebbe avere:
« degno », « attento », « devoto », tanto è vero che il celebrante stesso è un segno. In quanto persona consacrata e strumento dell’azione di Cristo glorioso, che è il protagonista principale delle azioni sacramentali, il ministro ordinato, come anche il fedele laico deputato secondo le norme del diritto, deve lasciar trasparire il mistero che è celebrato, in modo tale che la comunità possa essere in grado di percepire che il suddetto ministro non è né un attore di teatro, né un funzionario, ma un credente afferrato dalla presenza ineffabile di Colui che non può essere visto con occhi carnali ma che è più reale di tutto ciò che appartiene al mondo dell’esperienza sensoriale.
Una celebrazione liturgica « degna » deve essere prima di tutto permeata della bellezza del luogo in cui essa si svolge, e degli oggetti di culto usati, anche se si tratta di una bellezza semplice ed essenziale. Questa comporta anche la pulizia dei paramenti liturgici e la qualità dei vasi sacri. D’altra parte, se la celebrazione assume un aspetto teatrale, non può essere considerata veramente « degna »; infatti, ben lungi dall’essere uno spettacolo, una celebrazione liturgica ha una dimensione innanzitutto religiosa e spirituale. Infine, questa nozione di dignità implica la necessità di accompagnare le celebrazioni con movimenti appropriati alla Liturgia, cioè compiuti senza fretta, con una certa lentezza ed eleganza, ma senza affettazione.
In secondo luogo, una celebrazione liturgica deve essere « attenta », e questo richiede uno sforzo particolare da parte del celebrante affinché, per quanto possibile, eviti le distrazioni, soprattutto quelle volontarie. Questo aggettivo « attenta » consente di insistere sulla volontà di concentrare il proprio spirito, cosa che esige una disciplina dei sensi al fine di evitare di lasciarsi trascinare dai molteplici oggetti che attirano lo sguardo e distolgono l’attenzione. La musica, naturalmente, non rappresenta, di per sé, un ostacolo a questa attenzione poiché è parte integrante della partecipazione del coro e dei fedeli; eppure, è deplorevole il fatto che alcuni brani musicali che accompagnano certe celebrazioni liturgiche, non favoriscono l’attenzione del celebrante e dei partecipanti. Infatti, esistono generi musicali troppo improntati ad uno stile teatrale che mettono in evidenza, in maniera eccessiva, le qualità artistiche degli interpreti e questo provoca dannose distrazioni in quelli che partecipano alla celebrazione liturgica. È dunque veramente disdicevole che, in certi casi, la celebrazione della santissima Eucaristia sia percepita come un elemento in qualche modo secondario rispetto all’esecuzione di un brano musicale celebre, che sottolinea la qualità del compositore e il virtuosismo degli interpreti. È certo che pratiche di questo genere non contribuiscono a rafforzare né il senso religioso né il raccoglimento, mentre è opportuno notare che l’uso del canto gregoriano e della polifonia di qualità elevata, che sono al servizio della Liturgia, non comportano questo genere di conseguenze particolarmente nefaste.
L’« attenzione » richiede anche il silenzio, naturalmente e prima di tutto il « silenzio interiore » o, se si vuole, un cuore pacificato e calmo, cosa che evidentemente implica il silenzio esterno. I mormorii e i commenti dei concelebranti fra di loro, o con gli altri ministri seduti vicino a loro, sono indice di uno spirito indisciplinato e sono di cattivo esempio per i fedeli. L’attenzione richiesta durante una celebrazione liturgica ha, invece, come condizione preliminare una preparazione accurata della celebrazione, affinché essa si svolga ordinatamente, senza dare l’impressione che i diversi elementi sono lasciati all’improvvisazione.
Infine, la celebrazione deve essere « devota », il che corrisponde ad un atteggiamento pieno di rispetto, amore di Dio, senso religioso e attenzione verso ciò che è la « sola cosa di cui c’è bisogno » (Lc 10, 42). Nella lingua francese, l’aggettivo « devoto » può essere spiegato con il termine « pio ». Si può definire il termine « devoto » in questo modo: « una persona devota è colui che è consapevole che la sua vita non ha alcun senso se non è legata intimamente a Dio » o, in altri termini, è l’atteggiamento di chi vuole vivere in modo totalmente coerente con la propria consacrazione battesimale e seguendo il programma che San Paolo ha riassunto in poche parole: « perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore » (Rm 14, 8). Questo significa, quindi, che una persona devota è « completamente dedita al Signore ». Colui che partecipa ad un’azione liturgica non dovrebbe entrare nella celebrazione sacra passando, senza interruzioni, dalle sue occupazioni profane, pur rispettabili e oneste, alla preghiera comunitaria. È necessario rispettare un lasso di tempo, anche se breve, che deve essere caratterizzato dal silenzio, dal raccoglimento e dalla preghiera. Riguardo a questo, un esempio che colpisce è quello dei monaci che, prima di entrare nella chiesa del monastero per celebrare l’Ufficio Divino – che si chiama ancora Liturgia delle Ore – rimangono in piedi e in silenzio nel chiostro, per raccogliere il proprio spirito prima di dedicarsi alla salmodia. È lo stesso scopo che hanno le preghiere che il celebrante recita mentre veste i paramenti liturgici, proprio prima dell’inizio della celebrazione.
Per concludere, possiamo affermare che le riflessioni appena formulate derivano dalla prima delle disposizioni richieste per una partecipazione autentica alla celebrazione liturgica: si tratta della fede che svela i diversi significati, molto ricchi, dei segni liturgici; la fede, l’unica che permette al ministro ordinato di svolgere il suo ruolo sacro di strumento di Cristo e di servo del suo Corpo che è la Santa Chiesa.
La grazia di Dio
È indispensabile, ora, studiare un altro elemento essenziale della partecipazione piena alla celebrazione liturgica: si tratta della grazia di Dio o, più esattamente, dello stato di grazia.
La partecipazione alle azioni liturgiche ha lo scopo sia di ottenere la grazia che ancora non si possiede (come nel caso del battesimo ai bambini e dell’accesso al sacramento della penitenza da parte di coloro che sono in stato di peccato), sia l’accrescimento della grazia in quanti sono già giustificati. La grazia è l’espressione concreta della salvezza, il frutto della redenzione e il pegno della gloria che ci attende nel Regno dei cieli.
Il fatto di essere presenti ad un atto liturgico in stato di peccato mortale e senza avere almeno un desiderio di conversione, non costituisce una vera partecipazione, anche se, durante la celebrazione, la persona in oggetto partecipa ai movimenti, ai canti, alle acclamazioni o ad altri gesti, poiché, in questo caso, manca a questa persona l’orientamento fondamentale verso Dio e verso la sua gloria che costituisce l’anima della Liturgia. Ciò non vuol dire che per questo bisogna escludere dalla celebrazione quelli che non hanno la disposizione interiore richiesta, perché è possibile che una presenza, pur non avendo tutte le condizioni per essere definita come vera partecipazione, costituisce tuttavia uno strumento della grazia attuale, che condurrà la persona in questione alla conversione. Rimane il fatto che bisogna escludere dai ministeri che intervengono durante la celebrazione, le persone di cui è noto lo stato pubblico di peccato, poiché, sarebbero dei contro-esempi e causerebbero scandalo e confusione nei fedeli. Di certo, la valutazione dei vari casi concreti richiede grande prudenza pastorale, e un modo di agire pieno di delicatezza, ma è opportuno non ridurre mai le esigenze contemplate nei principi stabiliti dalla morale e dal diritto della Chiesa.
Gli atti esteriori della partecipazione
Oggigiorno, in alcuni ambienti poco illuminati e che, per di più, non sono stati formati alla scuola della buona teologia, si ritiene che la « partecipazione » equivale soltanto all’espressione di certi atteggiamenti del corpo. È vero che questi costituiscono effettivamente delle espressioni di partecipazione, ma non bisogna mai dimenticare che sono espressioni esteriori della partecipazione interiore. In altri termini, si può dire che questi elementi sono la parte “ materiale ” e visibile della partecipazione, mentre l’elemento “ formale ” nel senso forte del termine, ovvero essenziale, e invisibile, è costituito dalle virtù teologali — la fede, la speranza e la carità —, dalla virtù di religione e dallo stato di grazia; solo quest’ultimo pone la creatura umana in uno stato di consacrazione alla gloria di Dio, sulla base della coerenza tra la fede, che è professata, e l’amore di Dio e del prossimo, che è vissuto in modo concreto in tutte le scelte della vita.
Il Concilio Vaticano II indica un certo numero di elementi destinati a promuovere la partecipazione attiva; eccone la lista. Tuttavia, prima di citarli, è opportuno fare un’osservazione molto importante: questi elementi non costituiscono, da soli e in sé, la partecipazione liturgica; non fanno altro che esprimerla e la favoriscono. Infatti, bisogna sempre ricordare che la partecipazione che possiamo definire “ sostanziale ” deriva da quegli elementi che sono stati presentati, in quanto detto precedentemente, come « elementi formali ».
Ecco il testo del Concilio Vaticano II:
Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni dei fedeli, le risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, un sacro silenzio.
Nella revisione dei libri liturgici si abbia cura che le rubriche tengano conto anche delle parti dei fedeli.10
Certo, gli elementi esteriori della partecipazione, citati nel testo conciliare, non dovrebbero essere trascurati, poiché la persona umana, la cui natura è spirituale e insieme corporale, ha bisogno di espressioni sensibili. Inoltre, gli elementi esteriori contribuiscono a rafforzare gli atteggiamenti interiori. Infine, dato che l’uomo ha una natura che lo porta a vivere in società, ha bisogno di espressioni sensibili che lo aiutino a vivere questa esperienza di vita comunitaria e a manifestare il culto come una realtà sociale e non solo individuale. Per questo è assolutamente impossibile immaginare un culto cattolico sprovvisto di elementi sensibili. Oltretutto, se si tentasse di eliminare da questo culto delle espressioni così connaturali alla natura umana, si avrebbe come effetto quello di privarlo di una parte essenziale di ciò che esso è per natura. Non è neanche giusto imporre in maniera eccessiva e sproporzionata alcune espressioni esteriori, col rischio di fare della celebrazione liturgica una successione di gesti compiuti in maniera meccanica e, quindi, in qualche modo, senza anima. Bisogna capire, riguardo a questo, che situazioni soggettive diverse possono portare qualcuno a non assumere un atteggiamento rigorosamente consono ad un momento ben preciso, non per questo si può parlare di un allontanamento rispetto a ciò che sopra abbiamo definito una « partecipazione formale ». Sarebbe un errore, dunque, pensare che, siccome non si rispetta rigorosamente tale atto esteriore, la persona in questione non ha le disposizioni richieste per una partecipazione reale e genuina. Può succedere, infatti, che alcuni di coloro che celebrano la Liturgia compiendo con grande minuzia e rigorosa disciplina gli atti esteriori, richiesti dalle rubriche, rimangono in realtà molto lontani dall’autentica partecipazione interiore.
I ministeri
Il n. 30 della Costituzione Sacrosanctum Concilium, citato nel paragrafo precedente, concerne le forme di partecipazione “ comuni ” a tutto il popolo di Dio. Tuttavia, vi sono anche forme speciali di partecipazione, nel senso che non costituiscono un bisogno per tutti i fedeli né comportano l’esercizio di un « diritto » propriamente detto; d’altra parte, presuppongono alcune qualità e persino un richiamo esplicito da parte di chi esercita la responsabilità del buon andamento della celebrazione liturgica. Il principio generale stabilito dalla Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium è che:
Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio si limiti a compiere tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza.11
Fra i vari ministeri liturgici, è opportuno citare innanzitutto le funzioni che dipendono da coloro i quali, per l’ordinazione sacramentale, appartengono al clero: i Vescovi, i sacerdoti e i diaconi. È proprio di questi ministeri ordinati “ strutturare ” la Chiesa, Corpo visibile di Cristo, nella quale la gerarchia sacra è allo stesso tempo il segno della salvezza che proviene dall’Alto, come un dono gratuito e anche lo strumento dell’azione salvifica, la cui fonte primaria è il Signore Gesù, Pontefice unico della Nuova Alleanza, che esercita il suo ruolo mediatore per il tramite dei ministri ordinati. Questi ministeri sono talmente necessari che Sant’Ignazio di Antiochia dichiara che senza Vescovo, né sacerdoti, né diaconi non si può parlare di Chiesa (cf. ad Trall ).
Esistono, comunque, altri ministeri non ordinati che contribuiscono alla dignità della celebrazione liturgica.
Possiamo citare i lettori, incaricati di leggere le letture della Sacra Scrittura, tranne il Vangelo. Il lettore può essere « istituito » (in questo caso deve essere necessariamente un uomo (vir): can. 230 § 1), o solo « benedetto », oppure semplicemente chiamato per una determinata celebrazione. L’incarico di lettore non è un segno d’onore, così come non costituisce una sorta di riconoscimento ufficiale dei meriti presunti di una persona, ma è prima di tutto e unicamente un servizio che prende in considerazione il bene del popolo di Dio che partecipa alle celebrazioni. È importante che il lettore sia una persona rispettabile, che dia prova di uno status ecclesiale irreprensibile, dotato di una buona reputazione e che, inoltre, sappia leggere bene, cioè in modo chiaro e con un eloquio chiaro che permetta al popolo di capire l’articolazione delle frasi del testo sacro. Per cui, una persona molto devota e rispettabile che non è in grado di leggere, cioè di farsi capire dal popolo che partecipa alla celebrazione, non deve essere chiamato al ministero del lettore.
I « ministranti » (o « chierichetti »), chiamati anche « accoliti » possono essere anche « istituiti » (si tratta allora, in questo caso, di adulti e uomini (viri ): can. 230 § 1), « benedetti » o semplicemente chiamati a dare questo servizio occasionalmente o in maniera più o meno costante. Devono ricevere una formazione adeguata per poter adempiere le loro funzioni con dignità, cioè senza commettere quegli errori che porterebbero necessariamente pregiudizio alla qualità e all’armonia della celebrazione. Spetta al Vescovo diocesano autorizzare, per motivi particolari, persone di sesso femminile ad esercitare eccezionalmente questo ministero, sempre tenendo conto della preferenza data tradizionalmente dalla Chiesa agli uomini e ai ragazzi.12
La Lettera circolare della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ai Presidenti delle Conferenze Episcopali, del 15 marzo 1994 (Notitiae 39, 1994, 333335), in applicazione della Risposta del Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi, a proposito dell’interpretazione autentica del can. 230 § 2 (le funzioni liturgiche che i laici, uomini e donne, possono svolgere secondo il can. 230 § 2, comprendono anche il servizio sull’altare? Affirmative et iuxta instructiones a Sede Apostolica dandas. Cf. AAS 86, 1994, 541), stabilisce che spetta a ciascun Vescovo nella propria diocesi, dopo aver ascoltato il parere della Conferenza Episcopale, emettere un giudizio prudenziale su ciò che è conveniente fare per uno sviluppo armonioso della vita liturgica nella sua diocesi. Inoltre, l’obbligo di continuare a favorire il servizio sull’altare affidato a ragazzi, che ha consentito uno sviluppo incoraggiante delle vocazioni sacerdotali, rimarrà sempre. In una Lettera del 27 luglio 2001
La musica è parte integrante delle celebrazioni liturgiche; per questo, da secoli, la Chiesa riconosce il ruolo della « schola cantorum »; essa ha il compito di interpretare brani di musica liturgica. Tuttavia, in proposito, bisogna osservare, che sarebbe un abuso concedere alla schola cantorum un posto tale da sopprimere la partecipazione del popolo al canto durante la celebrazione liturgica. Peggio ancora sarebbe se i membri della schola agissero in modo da attirare l’attenzione su di sé a scapito dell’azione liturgica, invece che attenersi al proprio ruolo che consiste nell’essere un aiuto destinato a rafforzare lo spirito religioso dei partecipanti alle celebrazioni liturgiche. Rimane il fatto che il ruolo della schola cantorum è stato riconosciuto dalla Costituzione sulla Liturgia come un vero e proprio ministero liturgico.13
La mancanza di ministri ordinati per la distribuzione della santa Comunione giustifica il servizio di ministri straordinari della distribuzione della santa Eucaristia. Questi ministri possono essere costituiti in maniera stabile, oppure essere chiamati in un caso imprevisto. Si tratta di un ministero di supplenza e in nessun caso di una sorta di « promozione » del laicato. Il numero insufficiente di sacerdoti o diaconi per la celebrazione del sacramento del battesimo può portare il Vescovo ad autorizzare dei laici ad essere ministri straordinari di tale sacramento.14
(Notitiae 421-422, 2001, 397-399), la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti precisa, da una parte, che la libertà del Vescovo diocesano non può essere condizionata dalle eventuali decisioni dei Vescovi limitrofi a favore del servizio sull’altare da parte delle donne, e, dall’altra, che l’eventuale autorizzazione del Vescovo deve sempre lasciare la possibilità ai sacerdoti della diocesi di non far ricorso se non a gruppi di chierichetti formati esclusivamente da maschi, dato l’obbligo contenuto nella Lettera sopracitata del 1994, riguardo allo sviluppo delle vocazioni sacerdotali.
Per questo stesso motivo, il Vescovo può designare dei laici come testimoni qualificati per la celebrazione canonica del matrimonio (can. 1112);15 può dare anche l’autorizzazione ai laici a presiedere al culto domenicale in assenza del sacerdote 16 o presiedere alle esequie.17
Fra i ministeri che aiutano i ministri ordinati durante la celebrazione liturgica, soprattutto quella della santissima Eucaristia, è opportuno citare il « maestro delle cerimonie », incaricato di vegliare affinché la celebrazione si svolga in modo ordinato e ciascuno dei ministri svolga esattamente il proprio ruolo. Questo incarico non è strettamente riservato ad un ministro ordinato, sacerdote o diacono, anche se è opportuno scegliere fra questi il maestro delle cerimonie.
Infine, non bisogna dimenticare il « commentatore » che, con indicazioni molto brevi e discrete, aiuta la comunità a capire le diverse parti della celebrazione liturgica. Va da sé che il commentatore deve conoscere bene il significato dei testi liturgici, cosa che presuppone che egli abbia ricevuto una formazione di alta qualità, dato che non deve dare interpretazioni arbitrarie o immaginarie dei riti che vengono celebrati, ma fare riferimento esclusivamente ai testi e ai gesti liturgici approvati dalla Chiesa. Il luogo in cui il commentatore esercita il suo ministero non è l’ambone, o luogo dell’annuncio della Parola, ma un altro luogo discreto e appropriato.
È evidente che tutte le persone che partecipano alla celebrazione liturgica esercitando un « ministero » di questo genere, devono prepararsi con cura, sia dal punto di vista spirituale che liturgico, sia a livello di conoscenze propriamente dette delle norme che regolano le cerimonie, sia di quelle che permettono di attuare una celebrazione ordinata e permeata di spirito religioso.
È opportuno insistere ancora una volta sul fatto che i ministeri di supplenza possono essere esercitati solo in assenza dei ministri ordinati, o quando questi ultimi non sono in numero sufficiente a realizzare una celebrazione in un lasso di tempo ragionevole. È indispensabile, dunque, avere ben presente l’Istruzione interdicasteriale Ecclesiae de mysterio sulla collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti, del 15 agosto 1997.18
CONCLUSIONE
La liturgia ha una dimensione « ascendente », poiché fa veramente salire verso la Maestà di Dio la lode che gli è dovuta in quanto Creatore e Redentore. Questa lode di tutta la Chiesa, Capo e Corpo, è, allo stesso tempo, personale e comunitaria: certo, essa impegna ogni fedele ma, contemporaneamente, ogni fedele fa parte del Corpo mistico di Cristo e poiché il Corpo di Cristo, che è la Chiesa, ha una struttura stabilita da Cristo stesso, suo divino Fondatore, la lode liturgica è presieduta da coloro che, essendo inseriti nella successione apostolica dall’ordinazione sacramentale, possono agire in persona Christi. Ora, il culmine di questa dimensione ascendente si colloca nella celebrazione del Sacrificio eucaristico. È vero, comunque, che la Liturgia ha anche una dimensione « discendente », poiché è attraverso le celebrazioni, in modo particolare, attraverso quella dei sacramenti, che la salvezza raggiunge gli uomini con la grazia santificante e tutti i doni che l’accompagnano. Dio, nel suo disegno eterno di salvezza per l’umanità, ha voluto che degli atti visibili fossero portatori della grazia invisibile. Questi atti, anche se sono destinati alla santificazione della persona, assumono la forma delle celebrazioni liturgiche all’interno della comunità dei credenti, che esprime la realtà ecclesiale concreta. Giunto al termine di questa riflessione, mi sembra particolarmente opportuno ritornare al testo iniziale della Costituzione del Concilio Vaticano II sulla santa Liturgia.
Eccone il testo:
La liturgia infatti, mediante la quale, specialmente nel divino sacrificio dell’eucaristia, « si attua l’opera della nostra redenzione », contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa. Questa ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati.19
Il tema della partecipazione alla celebrazione liturgica ci fa veramente toccare con mano il mistero della salvezza, l’economia mirabile con la quale il Padre misericordioso, attraverso il suo Verbo incarnato, ci rivela il suo disegno e lo compie per la forza dello Spirito Santo che rinnova tutte le cose.
Jorge A. Card. MEDINA ESTÉVEZ
NOTE
- 1 Cf. Lumen Gentium, 25; Christus Dominus, 12-16; Presbyterorum ordinis, 4-6.
- 2 Sacrosanctum Concilium, 26.
- 3 Sacrosanctum Concilium, 27.
- 4 Sacrosanctum Concilium, 28.
- 5 Sacrosanctum Concilium, 7, 2.
- 6 Sacrosanctum Concilium, 7, 1.
- 7 Sacrosanctum Concilium, 7, 3.
- 8 Lumen Gentium, 10.
- 9 Sacrosanctum Concilium, 11.
- 10 Sacrosanctum Concilium, 30 e 31.
- 11 Sacrosanctum Concilium, 28.
- 13 Cf. Sacrosanctum Concilium, 29.
- 14 Cf. Codice Diritto Canonico, can. 230 § 3. L’istruzione interdicasteriale Ecclesiae de mysterio, del 15 agosto 1997 (Disposizioni pratiche, art. 11) precisa che bisogna stare attenti alle interpretazioni troppo estensive ed evitare di concedere tale facoltà in forma abituale. Ad esempio, non possono essere assimilati all’assenza o all’impedimento, che rendono lecito deputare dei fedeli non ordinati ad amministrare il battesimo, né il lavoro eccessivo da parte del ministro ordinario né il fatto che egli non risieda nel territorio della parrocchia, né la sua non disponibilità nel giorno previsto dalla famiglia per la cerimonia. Nessuna di queste ragioni costituisce motivo sufficiente (AAS 89, 1997, 874).
- 15 Il can. 1112 esige parere favorevole della Conferenza Episcopale e l’autorizzazione della Santa Sede. In Francia, questa possibilità di delegare laici non esiste.
- 16 Can. 1248 § 2; SACRA CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Direttorio per le celebrazioni domenicali in assenza di sacerdoti Christi Ecclesia, 10 giugno 1988, Preliminari, cfr. Notitiae 263, 1988, 366-378. L’Istruzione interdicasteriale Ecclesiae de mysterio, del 15 agosto 1997 (Disposizioni pratiche, art. 7) precisa che il fedele non ordinato che guida questo genere di celebrazioni deve avere un mandato speciale da parte del Vescovo, che avrà cura di dare delle indicazioni opportune concernenti la loro durata, il luogo, le condizioni e il sacerdote che ne è responsabile. Inoltre, queste celebrazioni, i cui testi devono sempre essere quelli approvati dall’autorità ecclesiastica, costituiscono sempre soluzioni temporanee. È vietato inserire elementi propri alla liturgia del sacrificio, soprattutto la « Preghiera eucaristica », anche sotto forma narrativa. Bisogna anche ripetere sempre ai partecipanti che queste celebrazioni non sostituiscono il Sacrificio eucaristico e che non si adempie il precetto di santificare le feste se non partecipando alla Messa, anche a costo di prendere parte ad una celebrazione domenicale in assenza del sacerdote, quando la partecipazione al Santo Sacrificio non è possibile. Nel caso in cui le distanze e le condizioni fisiche lo permettono, i fedeli devono essere incoraggiati ed aiutati a fare tutto il possibile per adempiere il precetto (AAS 89, 1997, 869-870).
- 17 Cf. Ordo Exsequiarum, praenotanda, n. 19. L’Istruzione interdicasteriale Ecclesiae de mysterio, del 15 agosto 1997 (Disposizioni pratiche, art. 12) ricorda che questa possibilità esiste solo nel caso di una vera mancanza di ministri ordinati. Inoltre, poiché, a causa delle circostanze attuali di crescente scristianizzazione e allontanamento dalle pratiche religiose, le esequie possono diventare occasioni pastorali particolarmente opportune per consentire ai ministri ordinati di incontrare direttamente dei fedeli che non praticano abitualmente, è auspicabile che, anche a costo di qualche sacrificio (cum magna deditione), i sacerdoti e i diaconi presiedano personalmente i riti funebri (AAS 89, 1997, 874).
- 18 AAS 89, 1997, 852-877; traduzione francese: cf. La Documentation Catholique 2171, 1997, 1009-1020.
- 19 Sacrosanctum Concilium, 2.