Inondati dalla luce gioiosa del risorto
La gioia dei discepoli non può essere che la gioia del loro Maestro; anzi, è Gesù stesso. Gesù risorto illumina di gioia i discepoli. Il racconto evangelico della apparizione di Gesù nel cenacolo annota: «E i discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20, 20). Era sera. Essi si trovavano là, chiusi, assorbiti nella tristezza e paralizzati dalla paura. Il Signore entra attraverso le porte chiuse e li saluta:
«Pace a voi!». Ecco, subito si accende una grande luce in quella stanza, «e i discepoli gioirono». Si rischiarano in quella serena presenza che è come un largo sorriso. La luce del Risorto inonda i loro volti, i loro cuori; lo riconoscono proprio in questa luce che li risveglia alla speranza.
Poi durante i quaranta giorni della sua permanenza tra loro, prima di salire al Padre, Gesù risorto rinnova per i discepoli l’appuntamento della gioia, rinnovando le sue apparizioni in vari momenti e in diversi luoghi. Però, come già prima della sua passione, Gesù non li illude lasciando loro pensare che il tempo del dolore è finito. No. Il viaggio del dolore, il tempo della prova, per i discepoli incomincia propria ora. Egli predice loro apertamente e ripetutamente le sofferenze cui andranno incontro, essendo essi necessariamente chiamati a partecipare anche alla sua croce – mistero di redenzione -. Li assicura però circa la forza che sarà loro data per rendere fedele testimonianza. Solo attraverso a questa partecipazione alla sua sofferenza, i discepoli potranno partecipare alla gioia della sua gloria, della sua risurrezione; potranno entrare in quella pienezza di gioia che coincide con la pienezza di vita in lui. Adesso ne hanno ricevuto soltanto un bagliore, un raggio.
Rileggiamo i capitoli 15-16 di Giovanni, riascoltiamo i bellissimi e toccanti discorsi di Gesù ai suoi discepoli nei giorni precedenti la sua passione. Egli consegna loro il suo testamento spirituale: Tutto quello che vi ho detto – cioè di rimanere in me, di volervi bene, di osservare miei comandamenti
– questo che vi ho detto, ve l’ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena (cf Gv 15, 10 ss.). Lo scopo di Gesù è quindi sempre quello di rendere felici i suoi discepoli: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia piena». E ancora: Il mondo vi perseguiterà proprio perché non siete suoi. Voi dovrete soffrire. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi. Ma tutto questo faranno a causa del mio nome. Se voi saprete soffrire per il mio nome, sarete riconosciuti fedeli, sarete riconosciuti dal Padre e avrete l’aiuto, l’assistenza dello Spirito Consolatore, di Colui che sostiene (cf Gv 15, 18-27). Soffrirete, ma per un momento transitorio. La sofferenza è sempre una pasqua, cioè è sempre un passaggio.
E continua: Vi scacceranno dalle sinagoghe, parleranno male di voi, vi oltraggeranno; allora ricordatevi che ve l’ho detto, perché se ve ne ricorderete, non vi perderete d’animo. Saprete che si tratterà del doloroso passaggio che approda alla gioia. Egli promette che non li lascerà soli, che ritornerà, che lo rivedranno e che in quel giorno la loro gioia sarà piena e nessuno potrà loro togliere la gioia perenne di cui li avrà riempiti.
Nel capitolo 17 di Giovanni si trova la splendida e commovente preghiera sacerdotale. Gesù prega per i suoi; prega il Padre. E che cosa chiede al Padre? Che egli stesso li custodisca e li renda felici: Quand’ero con loro io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi, Ma ora io vengo a te e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia (Gv 17, 13-14).
Ecco che cosa chiede al Padre: che doni ai discepoli la pienezza della gioia di cui ha ricolmato lui nella risurrezione. Questa pienezza si riversa però nel cuore dei discepoli, solo se accolgono la parola di Gesù che rivela l’amore del Padre e che li invita a partecipare alla sua passione, al suo sacrificio di obbedienza.
Per i discepoli la gioia di vedere Gesù nei quaranta giorni dopo la sua risurrezione si fa poi gioia di contemplarlo mentre egli sale al cielo. San Luca, narrando come avvenne l’ascensione di Gesù, dipinge quasi a vivaci pennellate i discepoli che guardano il Signore mentre viene elevato in alto e fa notare che, dopo averlo visto scomparire nella profondità del cielo, ricolmi della sua presenza spirituale, interiore, sicuri della fedeltà della sua parola, ritornano a Gerusalemme e sono pieni di gioia: «Tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (Lc 24, 52-53).
Incomincia l’attesa, la grande attesa del ritorno del Signore. E vediamo che questa attesa è tutta pervasa di gioia; è pervasa di gioia perché è pervasa di fede, di speranza, di sicurezza nella parola che egli ha dato. Perciò anche nel primo capitolo degli Atti si dice che gli apostoli con Maria, la madre di Gesù, stavano radunati in preghiera in attesa del dono dello Spirito. In questa permanente riunione di preghiera essi sono pervasi di pace e di gioia. E da questo momento la gioia dei discepoli è attesa del ritorno di Gesù e insieme esperienza della sua invisibile ma reale presenza in mezzo a loro.
Gioia nello Spirito Santo
Lo Spirito Santo, che viene donato nel giorno della Pentecoste, è la forza che li investe dall’alto; è una specie di ebrietas, di ebrezza spirituale che li spinge a parlare di Gesù ex abundantia cordis. Essi sono così ricolmi di lui da traboccarne. E’ loro gioia, quindi, poterne parlare, proclamare il suo nome, annunziare il suo vangelo, nonostante le minacce e le persecuzioni. Anzi, questa gioia interiore li fa esultare proprio nelle tribolazioni e nelle sofferenze patite per lui.
Un giorno, dopo essere stati imprigionati, flagellati, minacciati, gli apostoli sono di nuovo lasciati in libertà a condizione che smettano finalmente di parlare di quel galileo. Risultato? Ecco:
«Essi se ne andarono dal sinedrio, lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5, 40-41). Era un vanto per loro, un motivo di fierezza l’avere patito qualche cosa per colui che aveva tanto patito per loro. In latino l’espressione è bellissima: «Ibant gaudentes»; andavano saltando di gioia, perché erano stati oltraggiati per amore del nome di Gesù. Quindi, per nulla intimiditi, «ogni giorno, nel tempio e a casa non cessavano di insegnare e di portare il lieto annunzio che Gesù è il Cristo» (At 5, 42).
Davvero è un lieto annunzio quello che essi lietamente diffondono! Il vangelo della gioia, portato dovunque con franchezza ed entusiasmo, fa aumentare il numero dei credenti. Cresce così la gioia mentre cresce la fraternità, la famiglia di Dio, la chiesa.
La gioia dei discepoli consiste anche nello stare insieme fraternamente a pregare, a lodare il Signore, a condividere i beni, a spezzare insieme il pane, cioè a celebrare l’eucarestia, memoriale della passione-morte-risurrezione del Signore. Questa è una grandissima gioia, in una atmosfera di novità e di stupore pieno di adorazione.
Così la gioia del vangelo attraverso questi credenti si diffonde anche in altre città, in mezzo ad altre popolazioni. La gioia è comunicata insieme con la parola del vangelo, con il dono dello Spirito Santo mediante il battesimo e l’imposizione delle mani. La gioia è proprio il segno della presenza dello Spirito Santo, dono del Signore risorto.
Quando Filippo andò ad annunziare il vangelo in una città dei Samaritani, molti di questi credettero nel Signore Gesù, e allora «vi fu grande gioia in quella città» (cf At 8, 5-8). Anche nella descrizione del viaggio di Filippo che, lungo la strada da Gerusalemme a Gaza, evangelizza un etiope e poi, arrivando ad una sorgente, subito lo battezza, si fa notare che quando il diacono scomparve (portato altrove dallo Spirito) il neo-battezzato proseguì il suo cammino «pieno di gioia». Non soltanto “con gioia”, ma “pieno”, “ricolmo” di tale sentimento infuso dall’alto. Vi si riconosce proprio la sovrabbondanza della gioia messianica annunziata dai profeti.
Negli Atti degli apostoli si legge più di una volta che la chiesa «cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo» (9, 31). Crescere voleva dire camminare, andare avanti, andare incontro al Signore e portare agli altri l’annunzio della salvezza. Cresceva e camminava proprio perché era colma del conforto, ossia della forza e della gioia dello Spirito Santo. Non poteva contenersi perché dentro le urgeva l’amore, il dinamismo della vita divina che tende sempre ad espandersi, comunicarsi, donarsi.
Con la predicazione di Barnaba e Paolo ad Antiochia siamo ormai nel mondo pagano. Ecco, anche i pagani «si rallegravano e glorificavano la Parola di Dio e abbracciavano la fede» (cf At 13, 48-49 e passim). Stupendo! I pagani si rallegravano e rendevano gloria alla Parola di Dio; l’accoglievano, l’abbracciavano passando così alla fede nel vero Dio. I “discepoli”, tutti quelli che ora seguivano il Signore Gesù, erano «pieni di gioia e di Spirito Santo». Pieni di gioia, perché pieni di Spirito Santo: è la stessa cosa. Questo è, dunque, il segreto della prodigiosa diffusione del vangelo.
La gioia pasquale dell’apostolo delle genti
Uno dei più grandi diffusori della gioia nel mondo pagano è san Paolo, l’uomo che incontra il Signore sulla strada di Damasco mentre si reca a perseguitare i credenti in lui. Il Signore lo atterra folgorandolo e se lo conquista come una preda.
L’esperienza interiore di Paolo sulla strada di Damasco è l’esperienza del Cristo risorto, ma anche del Cristo crocifisso. Da questo incontro rimane infatti come stigmatizzato per sempre: porta impresse nel suo corpo e nel suo spirito le ferite gloriose del Cristo. Il Cristo risorto lo tocca, lo ferisce, lo pervade tutto, perciò – se noi leggiamo attentamente le sue lettere – vediamo che la gioia di Paolo gronda sempre del sangue della croce, e che la sua sofferenza è sempre abbagliata dalla luce gloriosa della risurrezione. Paolo, infatti, si dice contento proprio quando soffre. In lui c’è sempre l’unità e la totalità del mistero pasquale; c’è sempre l’esperienza del Cristo crocifisso e risorto.
Nel capitolo ottavo della lettera ai Romani, Paolo esprime il gemito dell’umanità e di tutta la creazione come travaglio di parto, come passaggio alla vera vita mediante una nuova nascita. Si tratta proprio del passaggio pasquale. Tutta l’umanità e tutta la creazione gemono, ma in questo gemito si fa strada un grido di esultanza. Tutto gioisce in modo indicibile passando dalla croce alla gloria. Per questo Paolo conclude la lettera ai Romani – scritta con tanta sofferenza – rallegrandosi di loro perché hanno accolto la Parola e sono passati alla fede nel vero Dio, e augura la pienezza della letizia pasquale: «Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù (cioè per la forza) dello Spirito Santo» (Rm 15, 13).
Siamo salvati, ma in speranza; e siamo ancora in cammino; dobbiamo soffrire per passare alla gloria. Occorre abbondare di Spirito Santo per pregustare la gioia e la pace che troveremo nel pieno compimento del regno di Dio. Questa è la nostra grande consolazione e la nostra “beata speranza”.
Anche nella seconda lettera ai Corinzi san Paolo parla delle sue debolezze e delle sue tribolazioni, di tutto quello che ha patito nel suo avventuroso itinerario apostolico. E come ne parla? Ecco:
Siamo tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo (2 Cor 4, 8-10).
In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto (2 Cor 6, 4-10).
È beato nelle tribolazioni! «Afflitti, ma sempre lieti». Sul piano della logica umana tutto è paradossale, ma sul piano della fede ogni cosa è nel suo giusto ordine. Essere partecipi del mistero pasquale di Gesù è l’esperienza più beatificante.
Proseguendo la lettera in tono confidenziale, Paolo esprime poi gioia e consolazione per l’affetto e l’aiuto dei fratelli.
Riferendosi a Tito scrive: «Egli ci ha annunziato il vostro desiderio di aiutarlo, il vostro dolore, il vostro affetto per me; cosicché la mia gioia si è ancora accresciuta» (2 Cor 7, 7).
Paolo è contento di avere sofferto e di soffrire ancora, perché questo gli permette di sperimentare la carità, l’affetto, la compassione e la consolazione da parte dei fratelli, di coloro che egli ha generato alla fede. E più bello avere qualcuno che condivida con noi la sofferenza che non avere sofferenze. Da ciò si dimostra che davvero il segreto della gioia è sempre l’amore.
Inoltre si dice contento d’aver scritto ai Corinzi una lettera severa che li ha rattristati, ma che anche li ha stimolati al pentimento, dopo il loro riprovevole comportamento:
Se anche vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne dispiace. E se me ne è dispiaciuto vedo infatti che quella lettera, anche se per breve tempo soltanto, vi ha rattristati ora ne godo; non per la vostra tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi.
Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra; perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte. Ecco, infatti, quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio! Ecco quello che ci ha consolati. A questa consolazione si è aggiunta una gioia ben più grande per la letizia di Tito, poiché il suo spirito è stato rinfrancato da tutti voi. Mi rallegro perché posso contare totalmente su di voi (2 Cor 7, 8-11.13.16).
Facendo poi l’elogio dei cristiani della Macedonia che sono stati tanto generosi nella colletta per la chiesa di Gerusalemme, scrive: «Nonostante la lunga prova della tribolazione, la loro grande gioia e la loro estrema povertà si sono tramutate nella ricchezza della loro generosità» (2 Cor 8, 2). Si trova grande gioia, dunque, nel saper dare generosamente con spirito di fede e di carità.
Tornando alla propria personale esperienza, san Paolo confida umilmente che il Signore gli ha dato una prova senza tregua, una spina nella carne, e che alla sua supplica per esserne liberato gli ha risposto: «Ti basta la mia grazia» (cf 12, 7-10). Accettando volentieri e umilmente le proprie debolezze, esce in quella stupenda esclamazione: «Superabundo gaudio in infirmitatibus meis».
Se questa è la volontà del Signore, io sovrabbondo di gioia nella mia debolezza, nelle mie infermità. Perché?
Perché in questa mia infermità, in questa mia debolezza, in questa mia umiliazione, sperimento maggiormente la potenza di Cristo. Perciò anche in altri punti dei suoi scritti l’Apostolo dice:
«Quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12, 10), perché in me c’è più spazio per Cristo.
Proprio in base alla sua esperienza egli può esortare e convincere di questo anche i fedeli. Nel congedarsi dai Corinzi in questa lettera dice: «Fratelli, state lieti!». State sempre lieti, rimanete nella letizia, «tendete alla perfezione», cioè alla perfetta letizia che coincide con la santità.
Non siate lieti soltanto in qualche momento, ma “state”! Siate nello stato di letizia, che è lo stato del cristiano, vivendo in pace, perché il Dio dell’amore e della pace è in mezzo a voi. Proprio questa letizia prova il fatto che si è con il Signore, che si vive alla sua presenza.
Coltivatore della gioia nel cuore dei credenti
Potremmo, se non bastasse, dare uno sguardo anche alle altre lettere di san Paolo. In quella scritta ai Galati egli dice espressamente che la gioia è frutto dello Spirito Santo (5, 22) e che il segreto della gioia è perciò sempre la vita secondo lo Spirito. Chi vive secondo lo Spirito ha la gioia; di più: è gioia. Notiamo che nell’elencare i frutti dello Spirito Santo l’Apostolo pone al primo posto l’amore perché lo Spirito Santo stesso è amore e poi subito la gioia, perché dall’amore scaturisce immediatamente la gioia. Amore e gioia danno la pace; e poi tutto di conseguenza: bontà, pazienza, benevolenza, fedeltà, mitezza.
Se è così, bisogna guardarsi dallo spegnere lo Spirito, poiché si spegnerebbe la fonte di tutti i buoni frutti (cf Ef 4, 30). Se con una condotta indegna contristiamo lo Spirito Santo che è in noi, diventiamo terreno arido; i frutti della grazia non possono maturare e il lavoro dell’Agricoltore è reso vano. Se ci pensiamo, ci appare inconcepibile il fatto che lo Spirito Santo possa essere contristato, mortificato in noi! Contristato vuol dire in certo modo contratto, messo allo stretto, soffocato per l’angustia dello spazio.
All’inizio della lettera agli Efesini san Paolo espone il piano di Dio e lo presenta come una chiamata ad ereditare il regno della luce, a diventare santi in Cristo per essere lode della sua gloria, cioè per essere un canto di gioia a colui che ci ha creati e che in Cristo ci ha benedetti «con ogni benedizione spirituale».
Nella lettera ai Filippesi rivolge a quei suoi carissimi figli anzitutto con un inno di ringraziamento perché il loro ricordo è per lui motivo di gioia (cf 1, 3ss.). Li considera dei privilegiati. Perché? «Perché a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui sostenendo la stessa lotta che mi avete veduto sostenere…» (1, 29-30). La gioia vera, per il cristiano, è ricevere la grazia di partecipare ai patimenti di Cristo, perché questo dà la sicurezza della partecipazione anche alla sua gloria, alla sua gioia.
Accennando poi alle sue sofferenze mentre è in prigione, Paolo dice che è contento ed esorta loro a non rattristarsi per questo, ma anzi a goderne con lui. Le sue sofferenze egli le considera come il sangue versato in libagione sul sacrificio della loro fede. Come rattristarsi per una realtà di grazia tanto bella? «E anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, “sono contento” e “ne godo” con tutti voi. Allo stesso modo anche voi “godetene e rallegratevi” con me» (2, 17-18).
Sempre nella lettera ai Filippesi raccomanda di accogliere il fratello Epafrodito che ha sofferto, di accoglierlo con premura, rallegrandosi al vederlo, come ci si rallegra nel vedere il Signore:
«Accoglietelo dunque nel Signore, con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui; perché ha rasentato la morte per la causa di Cristo» (2,29-30). «Accoglietelo con piena gioia». Perché? Perché questo fratello che ha sofferto per la fede porta le stigmate, le ferite gloriose del Cristo. La motivazione della gioia è sempre il Signore presente in tutti e in tutto. I cristiani, se sono autentici, se sono in comunione di carità, essendosi abbeverati all’unico Spirito (cf 1 Cor 12, 13), devono vivere sempre nella gioia spirituale. E un dovere rallegrarsi.
Proprio perché li vede fedeli a questo impegno, l’Apostolo, con accenti vibranti di affetto e commozione, dice: «Rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti» (2, 2). «Perciò, fratelli miei carissimi, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore cosi come avete imparato, carissimi… Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini» (4, 1. 4-5).
Scrivendo ai Colossesi, Paolo esprime la propria gioia di soffrire per loro e per tutte le chiese:
«Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo» (1, 24). Ed egli li accende di fervore inondandoli di gioia pasquale: Siamo risorti con Cristo dice quindi siamo figli della luce, figli della gioia. «Rivestitevi, dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine… » (3, 12ss.). Ciò vuol dire: Rivestitevi di Cristo e cantate il cantico dell’uomo nuovo, il cantico della salvezza, quindi della gioia.
In questo passo, appunto dopo aver esortato a rivestirsi di Cristo, ossia di tutti i suoi sentimenti, raccomanda di essere riconoscenti, di vivere nella carità, nella pace: «Cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. E tutto quello che fate, in parole e opere, fatelo nel nome di Gesù Cristo, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre» (3, 16-17).
Vivere nel rendimento di grazie e nella gioia significa essere davvero rivestiti dei sentimenti di Cristo che nei giorni della sua vita terrena «esultò nello Spirito Santo e disse: Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli… » (Lc 10, 21). Come Gesù, vivere per il Padre e trovare nel Padre la pienezza della gioia: questo deve essere l’intento del cristiano.
San Paolo generando alla fede, si ritiene collaboratore, o meglio, coltivatore della gioia nel cuore dei credenti. Ai Tessalonicesi egli scrive congratulandosi per la loro fede e per il loro impegno nella carità poiché in tal modo, tramite loro, si diffonde ovunque il buon profumo di Cristo e quindi la gioia riempie il cuore di molti altri fratelli (cf 1 Ts 3, 6ss.).
La consegna della gioia
… nell’apostolo Pietro
La consegna della gioia del Signore è stato l’impegno anche di tutti gli altri apostoli e discepoli: del resto, essa coincide con l’annunzio del vangelo.
San Pietro nella sua prima lettera esordisce affermando che quanti amano il Cristo in questa vita, pur senza vederlo, soffrendo gioiscono in lui e pregustano la contemplazione del suo volto di gloria: … Siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro che, pur destinato a perire, tuttavia si prova con il fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo: voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime (1 Pt 1, 6-9).
… nell’apostolo Giacomo
Sulla stessa linea è l’esortazione di san Giacomo: Considerate perfetta letizia, fratelli miei, quando subite ogni genere di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri… (1, 2-4).
Questa «perfetta letizia», volto dell’autentica santità, contrassegno del cristiano, è più facilmente riscontrabile tra gli umili e i poveri. Ai ricchi e orgogliosi è invece rivolto il pressante invito a deporre la loro fatua allegria e a piangere di compunzione, appunto per rendersi idonei a ricevere la vera gioia dal Signore (cf Gc 4, 9-10).
… nella lettera agli Ebrei
Non meno significativo è quanto si legge nella lettera agli Ebrei. Coloro che si sono accostati a Dio non più col terrore ma nella piena confidenza, essendo stati avvicinati dal Mediatore della nuova alleanza e resi partecipi dell’«adunanza festosa», dell’«assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli», devono offrire continuamente a Dio un sacrificio di lode (cf 12,22-24; 13, 15), cioè un omaggio di gioia. Ecco in quale modo: Non scordatevi della beneficenza e di far parte dei vostri beni agli altri, perché di tali sacrifici il Signore si compiace. Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi, perché vegliano su di voi come chi ha da renderne conto; obbedite, perché facciano questo con gioia e non gemendo: ciò non sarebbe vantaggioso per voi (13,16-17).
Sincera fraternità, condivisione generosa, ascolto e obbedienza: ecco i connotati del vero culto a Dio.
La gioia nel sacrificio
Commentando la Sacra Scrittura Origene scriveva: «Tu generi la gioia se tutto stimerai gioia, quando ti imbatterai in varie tentazioni e offrirai questa gioia in sacrificio a Dio. E quando ti avvicinerai lieto a Dio, egli ti renderà nuovamente quello che avrai offerto, e ti dirà: Di nuovo mi vedrete e gioirà il vostro cuore e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia. Così dunque riceverai moltiplicato quello che avrai offerto a Dio» (Omelia ottava sulla Genesi).
Offrire la propria sofferenza, la propria povertà portandola all’altare con “viso lieto”, questo noi spesso trascuriamo di fare, presumendo invece di presentare con ragione le nostre lagnanze al Signore per il costo della vita… per il prezzo troppo alto della nostra cittadinanza nel suo regno. Camminando in questa “valle di lacrime” non dobbiamo perdere di vista la meta del nostro pellegrinaggio. La celeste Gerusalemme la chiesa nostra madre già glorificata con Cristo non cessa di incoraggiarci ricordandoci le divine promesse:
Una grande gioia mi viene dal Santo per la misericordia che presto vi giungerà dall’Eterno vostro salvatore. Vi ho visti partire tra gemiti e pianti, ma Dio vi ricondurrà a me con letizia e gioia, per sempre (Bar 4, 22-23).
Allora: «Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza» (Is 12, 3).
Saranno raggianti di felicità quelli che, passati attraverso la grande tribolazione della presente vita, avranno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello, si saranno cioè purificati mediante la sofferenza che li ha resi partecipi della croce del Redentore (cf Ap 7, 9-15). Là, nella santa dimora del cielo, gli eletti: Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’Agnello li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi (Ap 7, 16-17).
I verbi della promessa sono al futuro, ma questo futuro di salvezza e di gioia già ci appartiene, già trasfigura le fatiche del nostro quotidiano cammino, se ogni passo è compiuto nella fede, nella speranza, nell’amore.
Le origini eterne della nostra gioia
L’apostolo Giovanni che più da vicino ha attinto alla sorgente del cuore di Cristo torna a farci contemplare le origini eterne della nostra gioia:
Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita… lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta (1 Gv 1, 1-4).
I discepoli avevano visto e toccato la Gioia divina fatta visibile nella persona di Gesù; l’avevano vista affondare nelle tenebre del venerdì santo e risorgere all’alba di un nuovo giorno senza fine. Riempiti della sua presenza non possono fare a meno di testimoniarla, anche a prezzo di molte sofferenze, affinché essa diventi anche la nostra gioia pura e inalienabile. Tale gioia è la comunione con il Padre e il Figlio nell’Amore che è lo Spirito Santo; è il mistero ineffabile della santissima Trinità nella cui sfera siamo attirati.
Il nostro destino felice
Così quello che era “in principio” cioè all’origine di tutte le cose si trova anche alla fine e rimane per sempre. In principio era la gioia e sempre rimarrà la gioia: Dio. Questo è il nostro destino felice. Questo desideriamo ardentemente raggiungere.
«Vita felice – esclama sant’Agostino – è il gaudio per la verità; è quindi gioire di te che sei la verità, o Dio, mia luce, salvezza del mio volto, mio Dio. Questa vita beata tutti la vogliono…» (Conf. X, 23 ).
Sì, tutti la vogliono, ma come la cercano? «C’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il bene?» interroga il Signore. «Se, all’udirlo, tu rispondi: Io! così ti soggiunge il Signore: se vuoi avere la vera ed eterna vita… sta lontano dal male e fa il bene, cerca la pace e perseguila» (cf Sal 33).
Bisogna dunque cercare la gioia sull’unica diritta strada della verità che è il Vangelo.
Lontano, Signore, lontano dal cuore del tuo servo che a te si confessa, lontano il pensiero che godendo di qualunque gioia possa essere felice. Vi è infatti una gioia che non è data agli empi, ma a coloro che ti servono con gratuità — per puro amore — e la gioia di costoro sei tu stesso. Questa è la vita felice: gioire per te, di te, a causa di te. Altra felicità non esiste (Conf. X, 22).
Ti rendiamo grazie, Signore! Amen! Alleluja!
Tratto dal libro “DIO DELLA MIA GIOIA” – di Anna Maria Canopi O.S.B. – Ed. PIEMME