Una vita che è sostenuta dalle braccia del Padre
«Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3). Un Gesuita, il padre Almire Pichon, centrava tutta la sua spiritualità su queste parole tratte dal vangelo di Matteo. I genitori, e soprattutto le sorelle di Teresa, furono sue discepole, sue figlie spirituali. Non lo fu invece Teresa, la quale aveva scritto più volte, esplicitamente, che il suo “Direttore” è stato Gesù, e solo Gesù1.
Thérèse Françoise Marie Martin, meglio nota come Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, morta al Carmelo di Lisieux appena ventiquattrenne nel settembre 1897 e canonizzata da Pio XI nel 1925, nei suoi scritti originali, pur citando quasi mille volte i testi della Sacra Scrittura non citò mai quel testo. Eppure le sue sorelle per cinquant’anni anni hanno condotto tutti, Papi compresi, a vedere in lei una perfetta realizzazione di quell’ “infanzia spirituale” che era stata insegnata loro dal padre Pichon. Lo hanno fatto non solo nella divulgazione devozionale, nella presentazione degli scritti di Teresa, molto spesso cambiati a questo scopo, ma anche nelle testimonianze ai Processi canonici e nella corrispondenza che intrattennero con la Santa Sede per la preparazione dei discorsi di Benedetto XV e di Pio XI, per i quali vennero usati gli scritti della sorella Celina, appositamente inviati alla Santa Sede. In una lettera, finora dimenticata nel suo significato di fondo, Paolina, la sorella maggiore di Teresa, la “Piccola Madre” e poi in convento sua priora, dieci giorni prima che Teresa entri nel Carmelo le scrive che sì, lei dovrà essere certamente «una santa, ma una piccola santa», con il maiuscolo nell’originale manoscritto. Era, ed è rimasta una pista «unica ma falsa», sulla quale tutti converranno per decenni interpretando tutti i testi di Teresa, e anche nascondendone pur in buona fede alcuni tra i più significativi.
André Combes, studioso di spiritualità, poi docente alla Sorbona e al Laterano, nel 1946 si reca a Lisieux per studiare i testi di Teresa e viene accolto proprio dalla sorella della santa, madre Agnese, come cappellano dello stesso Carmelo. In quattro anni di lavoro intenso scopre le manomissioni dei testi e chiede che vengano emendate per restituire ai fedeli e agli studiosi ciò che veramente Teresa scrisse. Ma quando proporrà la pubblicazione integrale dei “Manoscritti”, nei quali si scopriranno ben settemila interventi e correzioni della stessa madre Agnese, nel giugno del 1950 per ordine di un Visitatore Apostolico sarà “espulso” dal Carmelo e da Lisieux.
Tra l’altro anche la sorella di Teresa, Madre Agnese, nella stessa circostanza, forse perché cominciava a comprendere le ragioni di Combes, pur essendo stata nominata a vita da Pio XI, viene di fatto deposta, e la priora che le succede, all’arrivo a Lisieux di un nuovo Visitatore Apostolico, che chiede di vedere tutti i documenti originali, in una notte della fine del 1951, farà bruciare il «Petit Carnet», cioè il testo più antico dei «Novissima Verba», perché in esso non era contenuta, come sulla bocca di Teresa, l’identificazione della sua “piccola via”, e quindi della sua vera “dottrina” con l’infanzia spirituale. Il cambiamento era stato introdotto nel testo, come pronunciato al 17 luglio 1897, dopo ben 13 anni, attorno al 1910.
Si deve dunque a quella manipolazione l’immagine non corrispondente alla realtà divulgata come la via di Teresa, e si comprende dunque come mai Pio XI, che pure aveva amato e canonizzato egli stesso Teresa, quando nel 1932 gli fu prospettata la nomina di Teresa a Dottore della Chiesa, reagì negativamente e con durezza, confermata e rafforzata dal suo successore Pio XII.
Ebbene: espulso Combes da Lisieux, a poco a poco si capì che la richiesta di pubblicare i testi autentici era giusta, e dal 1956 iniziò l’opera di recupero, ove possibile, degli originali di Teresa…Un cammino lungo, che lentamente fa emergere le linee di una vera dottrina originale e nuova. Combes, e poi altri grandi teologi come Von Balthasar e Laurentin, mostrano il vero volto di Teresa, e così nel 1997 arriverà la decisione di Giovanni Paolo II che la proclama dottore della Chiesa. Benedetto XVI, infine, all’Udienza Generale del 6 aprile del 2011 descriverà ai fedeli la dottrina autentica della Santa di Lisieux e indica in Teresa una «guida per tutti, soprattutto per coloro che, nel Popolo di Dio, svolgono il ministero di teologi».
La vera dottrina, la fede pensata e vissuta da Teresa di Lisieux, non è la dottrina dell’«infanzia spirituale», bensì quella che mostra al credente l’«Enfant de Dieu», Gesù figlio di Dio, che per grazia «divinizza» la creatura umana con l’invasione d’amore del suo Spirito, trasformandola in sé stesso, come Teresa aveva esplicitamente scritto in una lettera a Celina: «siamo chiamate a divenire noi stesse divine (devenir des Dieux nous-memes)». Ne segue che amare Dio e amare il prossimo diventa un unico amore, in cui il modello è lo stesso amore che è Dio, la fiamma dello Spirito Santo che trasforma la creatura e la rende, per grazia, una sola cosa con sé. Vista nella sua verità recuperata, la dottrina di Teresa è quanto mai necessaria in questo terzo Millennio» e «appare come la risposta provvidenziale di Dio alle nebbie dei maestri del sospetto suoi contemporanei – Feuerbach, Marx, Nietzsche e Freud soprattutto – testimoniando che l’umanesimo della rivelazione cristiana è l’opposto dell’umiliazione dell’uomo, e annuncia l’offerta, alla sua libertà, della divinizzazione e trasformazione in eternità, vissuta già nel tempo, del dono della vita.
Con questo Teresa, approfondisce il dato della Tradizione, legato soprattutto all’Oriente cristiano, secondo il quale Dio scende per salvare, trasfigurando l’uomo in Cristo nello Spirito. Ma, sottolinea Teresa, questo non è per coloro soltanto che ne sono trovati degni; non avviene a seguito di un lungo percorso di ascesi e purificazione2. L’ascesi semmai è risposta, non presupposta, al dono. È una manifestazione della comunione di affetti, della simbiosi che esiste tra noi e Dio nella vita nuova dell’umanità del Risorto. Non voler fare ascesi o simmetricamente, scegliere di fare “penitenza come bestie”, significa rifiutare quel che ci viene donato da Dio. Ciascuno darà « secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9, 7), la quale è frutto dello Spirito del Signore (cfr. Gal. 5, 22). Questa risposta è, in fondo, una richiesta a Dio: che continui e porti a termine ciò che ha iniziato in noi.
Siamo di fronte al superamento definitivo dell’ eclisse di un dato di fede tradizionale. È un “comprendere”, e non solo un “sapere” la fede che ci è stata trasmessa circa la “partecipazione dell’uomo alla divinità di Dio”: «Il Verbo si è fatto carne perché diventassimo “partecipi della natura divina” (2 Pt 1,4): “Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio”3. Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio”4. “Unigenitus […] Dei Filius, suae divinitatis volens nos esse participes, naturam nostram assumpsit, ut homines deos faceret factus homo – E l’unigenito […] Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinchè, fatto uomo, facesse gli uomini dei”5» (CCC 460). Egli «trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3,21).
Di questa fede, Teresa, guidata dallo Spirito di Dio, come figlia di Dio (cfr. Rom 8, 14), dovette dare prova «alla tavola dei peccatori» (MC 6r°). Lì colse per esperienza la possibilità di credere, data a ciascuno; di restare cioè fedeli al “Dio della speranza, che ci riempie di ogni gioia e pace nella fede” (Rm 15,13).
Teresa sapeva di non avere un compito da svolgere, ma una vita da vivere come enfant de Dieu.
La grazia della fede, ricevuta con il Battesimo, ha trovato un terreno propizio nella famiglia di Teresa che scrive: «Il fiore che sta per raccontare la sua storia si rallegra di dover dare conoscere le premure del tutto gratuite di Gesù… È Lui che l’ha fatto nascere in una terra santa, e come tutta impregnata di profumo verginale». (MA, 4v°). Il reciproco amore dei genitori di Teresa era noto a tutti. Le lettere di Zélie al fratello o alla cognata ne sono una testimonianza. «Mio marito è un sant’uomo. Ne auguro uno simile a tutte le donne. Io sono sempre felicissima con lui: mi rende la vita molto serena»6;«Egli mi comprendeva e mi consolava. … I nostri sentimenti sono stati sempre all’unisono ed egli è stato per me un consolatore ed un sostegno»7.
Luigi e Zélia educarono con le parole e l’esempio i figli alla fede – preghiera comune, partecipazione comune alle celebrazioni – e alle virtù – collaborazione vicendevole, comprensione, rispetto e correzione fraterna – favorendo la vocazione di ciascuno. Pur avendo una famiglia numerosa, non ricusavano di aiutare chi era nel bisogno. «Se in famiglia vigeva la legge della parsimonia, con i poveri si era generosi. Si andava alla loro ricerca, si invitavano a casa e dopo averli rifocillati, vestiti, si esortavano al bene»8.
La fede, dunque, rivela a Teresa fin dalla più tenera età la paternità/maternità di Dio ed il suo amore misericordioso: «Sempre il Signore è stato per me compassionevole e pieno di tenerezza… lento a punire e abbondante nella misericordia» (MA 3v°). Scriverà verso la fine della sua vita… «Mi ha dato la sua Misericordia infinita, ed è attraverso essa che contemplo le altre perfezioni divine!… Allora, tutte mi appaiono sfavillanti d’amore, la giustizia stessa (e forse ancor più di qualsiasi altra), mi sembra aureolata d’amore» (MA 83v°). Essa ha capito che la debolezza, l’impotenza, il peccato stesso, lungi dall’ostacolare la misericordia di Dio, la suscitano e la attirano: «Sì, lo sento, anche se avessi sulla coscienza tutti i peccati che si possono commettere, andrei, con il cuore spezzato dal pentimento, a buttarmi fra le braccia di Gesù, perché so quanto teneramente Egli ama il figliol prodigo che torna da lui… Sento che questa moltitudine di offese sarebbe come una goccia d’acqua gettata in un braciere ardente» (NV 11 luglio 6).
I due “grazie” di Teresa
Sostenuta dalle braccia del Padre, da questa percezione chiara del suo essere Misericordioso Teresa, crescendo, mostrava sempre più la forza di Lui nell’affrontare la vita. Finì per interpretare la fede come un «totale abbandono» allo Spirito di Gesù. Non prospetta il recupero di una presunta innocenza dell’età infantile. Per lei, segnata da ipersensibilità ed eccessivo attaccamento a sé, chiese la grazia della “conversione”, quel cercare e trovare in sé la forza di un Altro, che descrive proprio come uscita dall’infanzia, sulla scia di Cristo “Enfant de Dieu”: «La notte di Natale del 1886 fu, è vero, decisiva per la mia vocazione, ma, per essere più esatta, devo chiamarla: la notte della mia conversione. In questa notte benedetta, della quale è scritto che rischiara le delizie stesse di Dio (N.d.T. Sal 138, 10 Et nox illuminatio mea in deliciis meis), Gesù che si faceva bambino per amore mio, si degnò di farmi uscire dalle fasce e dalle imperfezioni dell’infanzia. Mi trasformò in modo tale da non riconoscermi più.
Senza questo cambiamento, sarei dovuta restare ancora chi sa quanti anni nel mondo. Santa Teresa, la quale diceva alle sue figlie: “Voglio che non siate donne in nulla, ma uguali in tutto ad uomini forti” (Cammino 7, 8), santa Teresa non avrebbe voluto riconoscermi per sua Figlia, se il Signore non m’avesse rivestito della sua forza divina, se non m’avesse armata lui stesso per la guerra» (Lettere, 1/11/1896 – a p. Roulland ). «Non so come io mi cullassi – leggiamo ancora nei suoi manoscritti – nel pensiero caro di entrare nel Carmelo, trovandomi ancora nelle fasce dell’infanzia! Bisognò che il buon Dio facesse un piccolo miracolo per farmi crescere in un momento, e questo miracolo lo compì nel giorno indimenticabile di Natale (N.d.T. Notte tra il venerdì 24 e sabato 25 dicembre 1886); in quella notte luminosa che rischiara le delizie della Trinità Santa, Gesù, il Bambino piccolo e dolce di un’ora, trasformò la notte dell’anima mia in torrenti di luce… In quella notte nella quale egli si fece debole e sofferente per amor mio, mi rese forte e coraggiosa, mi rivestì delle sue armi, e da quella notte benedetta in poi, non fui vinta in alcuna battaglia, anzi, camminai di vittoria in vittoria, e cominciai, per così dire, una “corsa da gigante” (cf. Sal 18, 6) … Come i suoi apostoli avrei potuto dirgli: “Signore, ho pescato tutta la notte senza prender nulla”; più misericordioso ancora per me che non per i suoi discepoli, Gesù prese egli stesso la rete, la gettò e la tirò su piena di pesci. Fece di me un pescatore di uomini, io sentii un desiderio grande di lavorare alla conversione dei peccatori, un desiderio che non avevo provato così vivamente… Sentii che la carità mi entrava nel cuore, col bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri, e da allora fui felice!» (MA 45r° ).
Dieci anni dopo la “Grazia di Natale”, nel 1896, viene la “Grazia di Pasqua”, che apre l’ultimo periodo della vita di Teresa, con l’inizio della sua passione in unione profonda alla Passione di Gesù; si tratta della passione del corpo, con la malattia che la condurrà alla morte attraverso grandi sofferenze, ma soprattutto si tratta della passione dell’anima, con una dolorosissima prova della fede (Ms C, 4v°-7v°). Vive questa grande prova per la salvezza di tutti gli atei del mondo moderno, chiamati da lei “fratelli”. Teresa «Diventa veramente una “sorella universale”! La sua carità amabile e sorridente è l’espressione della gioia profonda di cui ci rivela il segreto: “Gesù, la mia gioia è amare Te” (P 45/7)»9 (cfr MB, 3v°). Segreto di un’ultima vittoria, attraversando la prova della fede.
Non fu un fenomeno improvviso ma si era già annunciato precedentemente nel corso della sua breve vita. Ne veniamo a conoscenza dalle lettere. In particolare nella lettera alla sorella Pauline (Agnese di Gesù) del 1 settembre 1890 scrive:
«[…]non capisco il ritiro che faccio, non penso a nulla, in una parola sono in un sotterraneo pieno d’oscurità!…Oh! domandi a Gesù, lei che è la mia luce, di non permettere che le anime siano private, per causa mia, della luce di cui hanno bisogno, ma che le mie tenebre servano a rischiararle [cfr. ccc 460]. Gli chieda pure che faccia un buon ritiro e che egli sia contento di me quanto lo può essere. Allora anch’io sarò contenta e accetterò, se questa è la sua volontà, di camminare tutta la mia vita per la via oscura che sto percorrendo, pur di arrivare un giorno al termine della montagna dell’amore. Ma credo che questo non avverrà mai quaggiù». Questo ritiro avrebbe dovuto preludere alla pronuncia dei tre voti di obbedienza, castità e povertà dell’ 8 settembre e alla professione religiosa del 24 dello stesso mese. Quel giorno, il 24 settembre era presente anche la cugina e compagnia di infanzia Maria Guerin che proprio in quell’occasione decise che sarà carmelitana.
Dopo questo primo annuncio le tentazioni contro la fede dopo un periodo di tregua riprendono infatti in un secondo annuncio del calvario finale durante il ritiro spirituale avuto luogo dall’8 al 15 ottobre 1891. Teresa così scrive a proposito di quest’altro evento:
«In quel tempo avevo delle grandi prove interiori, fino a domandarmi talvolta se esistesse un Cielo»10 (MA 80 v°)
Ma è a Pasqua del 1896 che la sua fede entra nel buio più fitto, portando la grande incredulità del suo tempo11. Il cielo viene sottratto allo sguardo di Teresa che partecipa alla vita di Gesù nel Venerdì Santo: «quando tutto l’amore – per il Padre e per gli uomini, così lontani tra loro; per il Cielo e la terra così dolorosamente separati – abitò nel Cuore del Dio fatto Uomo, che conobbe insieme il dolore della lacerazione e la beatitudine della unità. E Teresa si sente decisa «a dare l’ultima goccia di sangue, per confessare che esiste un Cielo» (Ms C, 7r)»12. Sa che è Dio stesso a operare nella sua anima questa “strana separazione”: «si direbbe che voglia darmi ad intendere che non ci sia il Cielo… Io non fingo, è proprio vero che non ci vedo niente… Ma bisogna che canti forte forte nel mio cuore: “Dopo la morte la vita è immortale!”, altrimenti, se non facessi così, finirebbe male» (QG 15 agosto).
«Godevo allora di una fede tanto viva, tanto chiara, che il pensiero del Cielo formava tutta la mia felicità, non potevo credere che vi fossero degli empi i quali non avessero la fede. Credevo che parlassero contro il loro stesso pensiero negando l’esistenza del Cielo, del bel Cielo ove Dio stesso vorrebbe essere la loro ricompensa eterna. Nei giorni tanto gioiosi della Pasqua, Gesù mi ha fatto sentire che esistono davvero anime senza fede, le quali per l’abuso delle grazie13 hanno perduto questo tesoro immenso, sorgente delle sole gioie pure e vere. Ha permesso che l’anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte, e che il pensiero del Cielo, dolcissimo per me, non fosse più se non lotta e tormento… Questa prova non doveva durare per qualche giorno, non per qualche settimana: terminerà soltanto all’ora segnata da Dio misericordioso, e… quest’ora non è ancora venuta. Vorrei esprimere ciò che penso, ma, ahimè, credo che sia impossibile. Bisogna aver viaggiato sotto questo tunnel cupo per capirne l’oscurità. Cercherò tuttavia di spiegarmi per mezzo di un paragone.
Suppongo d’esser nata in un paese circondato da una bruma spessa, mai ho contemplato l’aspetto ridente della natura inondata, trasfigurata dallo splendore del sole; fin dall’infanzia, è vero, ho inteso parlare dì queste meraviglie, so che il paese nel quale sono nata non è la mia patria, che ce n’è un’altra alla quale debbo aspirare incessantemente. Non è una storia inventata da un abitante del paese triste ove sono, è una realtà sicura perché il Re della patria luminosa è venuto a vivere trentatré anni nel paese delle tenebre; ahimè! Le tenebre non hanno capito che quel Re divino era la luce del mondo. Ma, Signore, la vostra figlia ha capito la vostra luce divina, vi chiede perdono per i suoi fratelli, accetta di nutrirsi per quanto tempo voi vorrete del pane del dolore e non vuole alzarsi da questa tavola colma dì amarezza alla quale mangiano i poveri peccatori prima del giorno che voi avete segnato. Ma anche lei osa dire a nome proprio e dei suoi fratelli: «Abbiate pietà di noi Signore perché siamo poveri peccatori!» Oh, Signore, rimandateci giustificati… che tutti coloro i quali non sono illuminati dalla fiaccola limpida della fede, la vedano, finalmente… Gesù, se è necessario che la tavola insozzata da essi sia purificata da un’anima la quale vi ama, voglio ben mangiare sola il pane della prova fino a quando vi piaccia introdurmi nel vostro regno luminoso. La sola grazia che vi chiedo è di non offendervi mai!
Madre amata, quello che le scrivo è disordinato; la mia piccola storia che somigliava a una fiaba si è cambiata a un tratto in preghiera, non so quale interesse lei potrà trovare a leggere tutti questi pensieri confusi ed espressi male. Ma io non scrivo per fare opera letteraria, bensì per obbedienza; se l’annoio, almeno ella vedrà che la sua figliola ha dato prova di buona volontà. Continuerò dunque senza scoraggiarmi il mio piccolo paragone al punto in cui l’avevo lasciato. Dicevo che la certezza di andare via, un giorno lontano, dal paese triste e tenebroso mi è stata data fin dall’infanzia; non solamente credevo ciò che ascoltavo dalle persone più importanti dì me, ma anche avevo in fondo al cuore le aspirazioni verso una regione più bella. Come il genio di Cristoforo Colombo gli fece intuire che esisteva un mondo nuovo, allorché nessuno ci pensava, così io sentivo che un’altra terra mi avrebbe servito un giorno di stabile dimora. Ma ad un tratto le nebbie che mi circondano divengono più spesse, penetrano nell’anima mia e l’avviluppano in tal modo che non riesco più a ritrovare in essa l’immagine così dolce della mia Patria, tutto è scomparso! Quando voglio riposare il cuore stanco delle tenebre che lo circondano, ricordando il paese luminoso al quale aspiro, il mio tormento raddoppia; mi pare che le tenebre, assumendo la voce dei peccatori, mi dicano facendosi beffe dì me: «Tu sogni la luce, una patria dai profumi più soavi, tu sogni di possedere eternamente il Creatore di tutte queste meraviglie, credi uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte che ti darà non già ciò che speri, ma una notte più profonda, la notte del niente». Madre carissima, l’immagine che ho voluto dare delle tenebre che oscurano l’anima mia è tanto imperfetta quanto un abbozzo paragonato al modello; ma non voglio continuare a scriverne, temerei di bestemmiare… ho paura d’aver già detto troppo…
Che Gesù mi perdoni se gli ho fatto dispiacere, ma egli sa bene che, pur non avendo il godimento della fede, mi sforzo tuttavia di compierne le opere. Credo di aver compiuto più atti di fede da un anno, che non in tutta la vita. Ad ogni occasione nuova di battaglia, quando il nemico mi provoca, mi conduco da valoroso; sapendo che la viltà consiste proprio nel battersi in duello, volgo la schiena all’avversario senza degnarlo di uno sguardo; corro verso il mio Gesù, gli dico che sono pronta a versar fino all’ultima stilla di sangue per testimoniare che esiste un Cielo. Gli dico che sono felice di non godere di quel bel Cielo qui, sulla terra, affinché egli l’apra per l’eternità ai poveri increduli. Così, nonostante questa prova che mi toglie ogni godimento, posso dir tuttavia: «Signore, voi mi colmate dì gioia con tutto ciò che fate – Salmo 41». Perché, esiste forse una gioia più grande che soffrire per amore vostro? Più la sofferenza è intima, più nascosta è agli occhi delle creature, e tanto più vi rallegra, o Dio mio! Ma se, cosa impossibile, doveste ignorare voi stesso la mia sofferenza, sarei felice di possederla se per mezzo di essa potessi impedire e riparare una sola colpa commessa contro la fede.
…. il velo della fede … non è più un velo per me, è un muro che si alza fino ai cieli e copre le stelle. Quando canto la felicità del Cielo, il possesso eterno di Dio, non provo gioia alcuna, perché canto semplicemente ciò che voglio credere. A volte, è vero, un minimo raggio scende a illuminare la mia notte, allora la prova s’interrompe per un attimo, ma subito dopo, il ricordo di questo raggio, invece che rallegrarmi, rende ancor più fitte le mie tenebre» (MC 5v°; 7v°). Teresa è convinta che Dio le ha inviato la prova solo nel momento in cui lei aveva la capacità di accettarla: [Il Signore] «mi ha mandato questa prova solo nel momento in cui ho avuto la forza di sopportarla; se l’avessi avuta prima, credo davvero che mi avrebbe gettata nello scoraggiamento… Ora essa toglie tutto ciò che avrebbe potuto esserci di soddisfazione naturale nel desiderio che avevo del Cielo… Madre amata, adesso mi sembra che niente mi impedisca di prendere il volo, perché non ho più grandi desideri se non quello di amare fino a morire di amore… (9 Giugno)» (MC 7v°). Il gioia di Teresa, abbiamo detto, stava nell’amare Dio. Ora questo amore è eclissato e lei lo prega. Vuole credere così prega l’amore, giungendo infine a pronunciare queste sorprendenti parole: «Non credo più alla vita eterna: mi sembra che dopo questa vita mortale non ci sia più nulla. Tutto è scomparso per me. Resta solo l’amore»14. A Teresa la vita eterna non diceva più nulla dal punto di vista emotivo: ormai amava Dio per se stesso e in tutto ciò che disponeva per lei. Come Giovanni poteva dire: «Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi… » (1Gv 4,16), che si manifesta in un fatto concreto e rilevabile da chiunque: «voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli» (Mt 7, 11). In noi c’è Altro. E ci invita a Sé.
Sapeva Teresa che «ogni anima era libera di rispondere agli inviti di Nostro Signore, di fare poco o molto per Lui, in una parola scegliere tra i sacrifici che Egli chiede15» (MA 10v°). Allora come nei giorni della sua prima infanzia aveva esclamato: «Dio mio, scelgo tutto. … quello che vuoi tu…» (ivi).
Dal fondo della sua esperienza Teresa ora ci mostra il luogo di comprensione della realtà e del mistero del volere di Gesù: il suo «pregare», il suo affidarsi a Dio, leggendo in questa logica tutta la propria esistenza: «Sono veramente lontana – scrive – dall’essere una santa, solo questo ne è già la prova; invece di rallegrarmi per la mia aridità, dovrei attribuirla al mio poco fervore e fedeltà, dovrei sentirmi desolata perché dormo (da 7 anni) durante le mie orazioni e i miei ringraziamenti, ebbene, non sono desolata… penso che i bambini piccoli piacciono ai loro genitori quando dormono come quando sono svegli; penso che per fare delle operazioni, i medici addormentano i malati. Infine penso che “il Signore vede la nostra fragilità, e si ricorda che noi siamo solo polvere” » (MA 76r°). In questo straordinario passaggio Teresa mostra ulteriormente la sua coscienza di come la condizione necessaria per entrare nel Regno, consista nell’essere “figli” del Padre, “Enfant de Dieu”. Qualsiasi cosa faccia, un figlio è amato. Vegli o dorma, non è per questo meno figlio. Il Padre conferma ogni desiderio grande di santità [domanda], ogni uscita dalla fanciullezza del proprio figlio, ma è anche il Padre della debolezza e del sonno dei momenti nei quali ogni figlio non è neppure cosciente di essere tale [lode]. Ciò che conta non è più, allora, l’opera particolare che si compie, che sarà a volte enorme, altre volte piccolissima, ma una vita che è sostenuta dalle braccia del Padre. In questa qualità di rapporto sta il segreto della “piccola” Teresa, la quale pensa la propria fede»16 così.
«Costa a Dio abbeverarci alla fonte delle lacrime – scrive Teresa – ma sa che è l’unico mezzo per prepararci a conoscerLo come Egli medesimo si conosce e a diventare dei noi stessi!…» (LT 57 a Celina 2v°). Alla fine, ci dice, la fede, da sola, non capisce; è l’amore vissuto a “capire” Dio, a capire l’Amore (che è anche il “per sempre” del nostro amore). Semplice e concreta Teresa ci indica l’amore di Gesù. «Non si tratta più di amare il prossimo come se stessi, ma di amarlo come lui, Gesù, lo ha amato, come Lui l’amerà fino alla consumazione dei secoli»; questo «amore del prossimo è tutto sulla terra, si ama Dio nella misura in cui lo si pratica». E la fiducia di ogni uomo si apre soltanto alla vista di questo abbandono.
« C’è un mistero interpretativo del nostro tempo, che alcuni increduli cominciano a capire, perché dicono: non vedo niente, non so che cosa accadrà dopo la morte, ma so che è importante amare. Ma chi ha trovato il primato dell’amore vero, sacrificato, disinteressato, generoso, solidale, inizia a entrare nel senso della vita, della storia e dell’eternità. Certo, l’amore deve diventare intelligente, amore che intuisce i misteri eterni di Dio, però forse a qualcuno si rivela come amore ben prima che ne sappia trarre le conclusioni dottrinali e teoretiche più ampie. Il Signore fa risplendere la via dell’ amore quando vuole, si rivela come amore anche a una generazione incredula, e aiuta noi, anche attraverso le prove della nostra fede, a riscoprire l’essenziale della vita cristiana»17.
- 1 Cfr. per ex. Lettera a Celina del 6 luglio 1893: «I direttori spirituali fanno progredire nella perfezione imponendo un gran numero di atti di virtù, e hanno ragione; ma il mio direttore, che è Gesù, non m’insegna a contare gli atti, mi insegna a fare tutto per amore, a non rifiutargli nulla, a essere contenta quando mi dà un’occasione di dimostrargli che lo amo, nella pace, nell’abbandono. Gesù fa tutto, io non faccio niente»
- 2 “Noi abbiamo cessato di essere somiglianti a Dio; ma non abbiamo cessato di riflettere l’immagine di Dio” (Filocalia IV, 83). Cristo, con la sua morte e la sua resurrezione, ha risuscitato l’uomo, dandogli una nuova somiglianza a Dio, ossia divinizzandolo. Secondo Gregorio Palamas Dio scende per salvare tutti coloro che sono trovati degni di essere trasfigurati in Cristo nello Spirito. L’uomo è divinizzato dopo che l’uomo ha percorso un lungo cammino di ascesi e purificazione (cfr. http://www.gregoriopalamas.it/testi.htm).
- 3 SANT’IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, 3, 19, 1: SC 211, 374 (PG 7, 939).
- 4 SANT’ATANASIO DI ALESSANDRIA, De Incarnatione, 54, 3: SC 199, 458 (PG 25, 192).
- 5 SAN TOMMASO D’AQUINO, Officium de festo corporis Christi, Ad Matutinas, In primo Nocturno, Lectio 1: Opera omnia, v. 29 (Parigi 1876) p. 336
- 6 lettera a Isidoro, 1 gennaio 1863
- 7 lettera alla figlia Paolina, 4 marzo 1877
- 8 Celina, Procès.. 336r
- 9 Benedetto XVI, Udienze, 6 aprile 2011
- 10 «J’avai alors de grande épreuves intérieures de toutes sorte (jusqu’à me demander parfois s’il y avait un Ciel)».
- 11 Teresa è appunto tentata: la tentazione la spinge fin quasi alla soglia del cedimento, fin là dove ella può resistere solo se si abbandona di schianto nelle braccia del Padre. E Teresa vince la tentazione del dubbio proprio con questo totale “lasciarsi andare”.
- 12 A. M. Sicari, La teologia di S. Teresa di Lisieux, Dottore della Chiesa, Ed ocd Jaka Book, Milano 1997, p. 141
- 13 La cura di Dio verso di noi, la sua misericordia, che si manifesta nell’amore concreto dei fratelli e sorelle nella fede. La chiama queste opere di misericordia, corporali e spirituali: Dar da mangiare agli affamati, Dar da bere agli assetati, Vestire gli ignudi, Alloggiare i pellegrini, Visitare gli infermi, Visitare i carcerati, Seppellire i morti – Consigliare i dubbiosi, Insegnare agli ignoranti, Ammonire i peccatori, Consolare gli afflitti, Perdonare le offese, Sopportare pazientemente le persone moleste, Pregare Dio per i vivi e per i morti.
- 14 Testimonianza di suor Teresa di Sant’Agostino al Processi di canonizzazione, PO, 583/584, 402.).
- 15 «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia»(2Cor 9, 7)
- 16 Cf. G.Moioli, L’esperienza cristiana di Teresa di Lisieux. Note introduttive, Glossa, Milano, 1998
- 17 Carlo Maria Martini, Il coraggio della speranza, Piemme 1998. La meditazione di Martini è stata tenuta ai sacerdoti dell’arcidiocesi di Milano l’11 febbraio 1997.