La comunione dei beni nella comunità gerosolimitana di atti degli apostoli

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PREMESSA

La lettura dei tre sommari contenuti negli Atti degli Aposto­li I riguardanti la vita della primitiva comunità di Gerusalemme ha, da sempre, attirato l’interesse dei cristiani, soprattutto per quanto vi è affermato sulla comunione dei beni in essa praticata, in cui molti hanno visto realizzata – almeno in germe ­ l’aspirazione di ogni tempo ad una umanità evangelica, autentica­ mente umana.

«… Erano un cuore solo ed un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune» (Al 4, 32).

Nel corso dei secoli, queste parole depositate nella Scrittura hanno fatto sognare e sperare, vivere, pensare e credere tanti. Gli studi e le ricerche in questo secolo sono stati numerosi e decisivi, in particolare nel campo storico-esegetico. Il mio intento, perciò, non è di fare un sunto di quanto è stato pubblicato, ma cercare di raccontare in modo accessibile alcuni elementi di quanto è andato emergendo negli studi recenti riguardanti questo argomento, almeno nelle linee principali.

INTRODUZIONE

Nel suo scritto De catholicae ecclesiae unitate (XXIV­ -XXVI) Cipriano indica, fra l’altro, quanto il testo di Al 4, 32-34 rappresentasse già al suo tempo (nel 250) non pili una realtà, quanto un ideale lontano, e la mancata concretizzazione fra i cristiani di una comunione materiale era vista come una conse­guenza della mancanza di unità spirituale, di unità nella fede. « …Tra noi, però, questa unanimità è venuta meno, ed è compro­messa la generosità delle opere», afferma il vescovo cartaginese al tempo della violenta persecuzione avvenuta sotto l’imperatore Decio.
Nasce allora il desiderio di indagare quale fosse la realtà storica della primitiva comunità gerosolimitana su questo aspetto, cosa intendeva esprimere l’Autore di Atti, e soprattutto se è possibile recuperare una realtà vissuta alle origini e che la storia della Chiesa sembra aver poi, se non cancellato, almeno velato, per quanto riguarda la pratica.

AUTORE E CONTESTO STORICO

Per tentare un approccio storico e filologico, anche se necessariamente limitato, occorre premettere qualcosa sul conte­ sto storico: il luogo e il tempo, cioè, in cui è vissuto l’Autore di Atti, per tentare poi di giungere, per quanto è possibile, dalle sue istanze alle fonti e ai fatti narrati. L’Autore di Atti viene individuato sia dalla Tradizione che
dalla maggioranza degli storici moderni, nell’evangelista Luca, l’Autore del terzo Vangelo, anche se il testo originario lucano, prima di arrivare alla forma attuale, potrebbe aver subito alcuni rimaneggiamenti ad opera di uno o pili redattori. Il testo lucano si può far risalire, secondo una stima abbastanza condivisa, agli anni ottanta, vale a dire dopo il terzo Vangelo, circa mezzo secolo dopo la Pentecoste.

Luca, con una certa probabilità, è un cristiano colto, di lingua greca, probabilmente originario della diaspora, come Pao­lo, in contatto diretto o indiretto con la missione paolina. «Forse fa parte del gruppo di animatori o “profeti”, catechisti-maestri, di una comunità cristiana in un grosso centro fuori della Palesti­na». Varie sono le ipotesi sul luogo di composizione degli Atti: Siria, Asia, Macedonia o Grecia. Generalmente viene affermato che Luca è il più «storico» fra gli evangelisti. Egli si rifà a fonti scritte e tradizioni orali; con tutta probabilità conosce il Vangelo di Marco, almeno in una sua prima redazione. Certo non si può considerare l’affermazione che Luca è uno storico, nell’orizzonte del senso che diamo noi oggi a questo termine: sarebbe un errore che la critica moderna ha già messo in luce con validi argomenti. Gli Atti rientrano nel genere letterario della «storia religiosa» e l’obiettivo dell’opera è teologi­ co-spirituale. Si è molto discusso sull’attendibilità storica (intesa in senso moderno) dei fatti narrati nel testo lucano di Atti. Ritengo che la vicinanza nel tempo tra i fatti e la loro narrazione sia già una garanzia sufficientemente ampia, se si tiene conto che lo scopo dell’opera non è cronistico e ha spesso tinte apologetiche. Ciò che a me sembra più interessante, direi fondamentale, nel testo lucano – anche per la sua attualità – è costituito dal fatto che Luca si rivolge con l’opera a cristiani non-giudei, e ciò che tenta di operare non è la semplice relazione dei fatti, ma la traduzione (sulla scia di Paolo) in categorie ellenistiche di un messaggio, quello Evangelico, nel modo in cui esso era vissuto nella primitiva comunità cristiana, a Gerusalemme. Opera, cioè, quella, che oggi si chiama un’inculturazione: il tempo di Luca è proprio quello della prima grande inculturazio­ne del messaggio evangelico predicato dagli Apostoli, testimoni di Gesti. Anche solo sotto questo aspetto, che d’altronde non è l’unico, l’opera lucana è già per noi di grandissimo interesse e attualità. Basti pensare alla tensione oggi esistente per giungere ad una nuova, reale inculturazione del messaggio evangelico a livello mondiale, nelle culture emergenti che non si rifanno all’esperienza «occidentale».

TESTO E BREVE COMMENTO

«Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nel­ l’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (AI 2,42). Con queste parole inizia il primo dei tre sommari, che Luca introduce dopo il discorso di Pietro e prima di proseguire con la narrazione di miracoli e fatti dello stesso Apostolo, con lo scopo probabile di dare il senso che tra un avvenimento e l’altro è passato del tempo. Il testo elenca, mettendoli sullo stesso piano, quattro datti» cui i cristiani della prima comunità di Gerusalemme, erano assidui:

  1. l’insegnamento degli Apostoli,
  2. l’unione fraterna,
  3. la frazione del pane,
  4. le preghiere (comuni).

1) L’insegnamento (didachè) degli Apostoli

Siccome Luca parla di cristiani già inseriti nella comunità dei credenti, questo insegnamento non è l’annuncio; si tratta di una formazione successiva, basata sull’insegnamento apostolico primitivo (kérygma). È spontaneo pensare che l’«insegnamento degli Apostoli» qui citato, vada collegato con il precedente discorso di Pietro (cf. At 2, 14-41). Ciò che caratterizza questo discorso è la testimonianza (martyrion) della Risurrezione e la interpretazione cristologica dell’Antico Testamento, la testimonianza che la Scrittura stessa dà di Gesti. Gli Apostoli sono testimoni, e come tali insegnano ciò che hanno visto, sia di persona, vivendo con Gesti, sia «dentro» alla Parola di Dio, con gli occhi della fede, illuminata dallo Spirito Santo, di cui hanno sperimentato la potenza. È il rapporto vitale col Signore Risorto e Rivelato che li costituisce testimoni .

2) L’unione fraterna (koinonia)

Il concetto di koinonia è piu ampio della traduzione: «unio­ ne fraterna». Essa è in primo luogo ‘una comunione di spiriti, che provoca, secondariamente, una comunione di beni materiali. Essere assidui alla koinonia potrebbe significare anche essere protesi alla edificazione della famiglia di Dio, già in qualche misura sperimentata al momento dell’Annuncio: è una esperienza di carità vissuta, cioè, prima che un dovere. L’assiduità alla koinonia nasce spontanea, nella comunità, dall’esperienza di cari­tà.

Dietro a questo termine greco, (koinonia), c’è, per Luca, in primo luogo tutta la novità e la forza dell’esperienza cristiana dell’amore fraterno, ma anche la realizzazione della comunità messianico-escatologica, cuore delle attese giudaiche, e – con­ temporaneamente – la pienezza dell’ideale greco dell’amicizia (philia).

All’orecchio di un greco, come è quello dei lettori di Luca, il termine koinonia evocava in modo preciso tutto un filone della sapienza greca. Aristotele, per esempio, ha un’espressione proverbiale ben nota: «Tutto è comune fra gli amici [[koinà tà philon]; nella koinonia, infatti, sta l’amicizia» (Eth. Nic, VIII, 2).

Luca, si potrebbe dire, esprime in termini di ideale greco l’esperienza della carità, vissuta dalla comunità cristiana di Geru­salemme.

Questi riferimenti letterari e filologici al tema dell’amicizia ritornano nei sommari lucani di Atti e li ritroveremo anche più avanti.

3) La frazione del pane

Mette in luce un altro elemento di comunione nella comunità primitiva.

Quasi con certezza non è da leggersi nell’espressione «frazio­ne del pane» un rito eucaristico come lo comprendiamo oggi (Eucaristia sacramentale). Si tratta di un pasto comune, come quello che Paolo nelle sue lettere chiama «Agape fraterna» e in cui è contenuto – in modo ancora non distinto – il culto eucaristico, che si andrà definendo e precisando, a partire da Paolo stesso, nel corso di tutto il primo e parte del secondo secolo.

Qui è ancora un pasto, molto vicino ai pasti di Gesti con i discepoli.

4) Le preghiere

Sotto il termine «preghiere», forse viene compreso sia il culto al Tempio che le preghiere quotidiane, patrimonio del pio israelita.

Frazione del pane e preghiere erano già associate nelle consuetudini giudaiche.

Il quadro complessivo di queste prime affermazioni di Luca, contenute in Al 2, 42, apre l’orizzonte in modo preciso sui termini concreti dell’esperienza di comunione dei primi cristiani di Gerusalemme: la koinonia è legata ai testimoni della fede (Apostoli) e ai pasti comuni e alle preghiere, elementi dietro cui si intravvede un’intensa solidarietà, ricca di calore umano, espressione e frutto della novità evangelica.

Il v. 44 introduce un’ulteriore specificazione.

«Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune» (Al 2, 44).

È evidente la connessione fra il soggetto della frase: «i credenti» – o «tutti quelli che erano diventati credenti» – e l’azione, direi la conseguenza: «mettevano tutto in comune» (apanta koina).

Il motore del mettere in comune è la fede in Gesù. Luca pare qui voler precisare che la koinonia cristiana non deriva in primo luogo dall’amicizia (philia), come nel proverbio riportato da Aristotele, ma è l’unione nella fede in Gesù, che realizza un ideale umano altissimo: la fede vissuta insieme realizza l’amore fraterno; e l’amicizia, espressione di questo amore fraterno, provoca a sua volta la comunione dei beni materiali.
Lo stare «insieme» (epì tò auto) è un’espressione di rilievo, in Luca. L’espressione ricorre più volte (5 in Atti) ed è analoga per significato ad un’altra che si incontra poco dopo (cf. At 2, 46; 5, 12) e che ricorre dieci volte in Atti e una volta in Paolo (omolhymadon) e in nessun altro luogo del Nuovo Testamento.
Questi termini esprimono il senso dell’unanimità, dell’unità – nella comunità – e indicano, con una certa probabilità, il senso che i credenti hanno di stare insieme non perché riuniti in un preciso luogo, ma per il fatto e la coscienza di essere un corpo, una comunità (yahdd) – significato che può alludere al concetto di Ecclesia (citato come tale ben 25 volte in Atti) .
Per quanto riguarda la finale del versetto: « …e tenevano ogni cosa in comune» (apanta koina), va subito rilevato che il termine greco richiama il tema dell’amicizia, il koinà tà philon, citato da Aristotele, ma risalente, forse, a Pitagora.

II detto è noto, nella letteratura, a partire dal V sec. a.c. Platone lo cita volentieri nella Repubblica e Aristotele (in Eth. Nic., IX, 8) lo usa anche accanto all’espressione «un’anima sola» (psychè mia) che ricorre anche in At 4, 32. Per dare un’idea della popolarità e notorietà di questa espressione, basti dire che viene segnalata – fra gli altri – in Euripide, Menandro, Teren­zio, Plutarco, Teofrasto, e, nell’Occidente latino, in Marziale, Cicerone, Seneca.

Luca accoglie qui il senso che il detto aveva in origine: la comunione dei beni è un fatto spontaneo, che nasce dall’amicizia. Niente di giuridico, dunque, né di istituzionale. II rapporto fra i cristiani, basato sulla carità fraterna – che nasce dall’unità della fede – porta spontaneamente a mettere in comune quanto ciascuno possiede (e che continua «legalmente» a possedere), realizzando una vera amicizia.

È un atto di generosità reciproca tra persone, che viene illuminato anche alla luce di un altro detto riferito da Aristotele, e che doveva essere noto a Luca: «L’amicizia è una sola anima [mia psychèJ in due corpi». Anche nel mondo giudaico doveva essere noto il concetto di koinonia, di beni in comune, se è vera la notizia che Giuseppe Flavio riporta, e che è, d’altronde, confermata da fonti essene. Scrivendo a lettori non-giudei, egli riferisce (Ant., XV, 371) che gli Esseni realizzavano una conviven­za (nel testo greco: koinonik6n) che andava anche al di là della generosità esistente fra «amici», in quanto era donazione totale dei propri beni alla comunità nel momento in cui si entrava a farne parte.

Il v. 45 è un’esplicitazione di questa liberalità e libertà nella koinonia.

«… chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (AI 2, 45).

Questa affermazione è sulla linea degli altri versetti, ma aggiunge che la misura della generosità è il bisogno del fratello. Luca non propone cioè un ideale di rinuncia, ma la generosità in funzione del bisogno del fratello; vale a dire che il distacco non è in funzione della rinuncia ma affinché non ci siano poveri nella comunità.

Globalmente, nei tre versetti di questo primo sommario, si ha l’impressione di leggere, anche al di là delle intenzioni dell’Au tore, l’aspirazione ad una «età dell’oro», in cui tutto è comune a tutti, in una comunità conforme alla natura. Vi si potrebbe anche cogliere l’idea che la comunità non esiste dove c’è disugua­glianza economica.
Questa umanità ideale era ben nota, nel Mito, ai Cinici, agli Stoici ed ai neo-Pitagorici; e riecheggiava, nel giudaismo, in modo implicito, nella condizione biblica dell’umanità in Eden e nell’attesa di una comunità messianica. Ma per Luca, pur assumendo egli tutto ciò, il fondamento della realtà (e non del Mito) è l’amore fraterno, cuore del NT-fondamento che si esplicita e si arricchisce accogliendo tutti i positivi, anche se parziali, significati presenti nella cultura greca e giudaica.

Nel secondo sommario lucano (cf. Al 4, 32.34-35) i concetti espressi in Al 2, 42.44-45 vengono ripresi e si introducono nuovi elementi.

«La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola» (Al 4, 32a).

«Tutti i credenti» di Al 2, 44 sono qui diventati «la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede».
A parte l’idea di crescita della comunità, che esprime l’azione dello Spirito nel tempo, e che realizza la Chiesa, il soggetto principale sono sempre i credenti, e quindi la loro fede, quasi Luca volesse sottolineare – e probabilmente questa è proprio la sua intenzione – che tutto quanto si realizza nella comunità, ha come unica sorgente la fede in Gesù!.
L’espressione «erano un cuore solo e un’anima sola» è molto significativa. Essa non vuole esprimere, come potrebbe apparire ad un lettore moderno, una distinzione tra sfera affettiva e sfera spirituale, che l’esperienza comunitaria della fede unificherebbe. L’espressione greca «un’anima sola» (psychè mia) richiama, in modo direi esplicito, il tema dell’amicizia già ricordato.
Aristotele, nell’Etica a Nicomaco (IX, 8) accanto al più  volte citato koinà là phil6n riporta anche l’altro detto: «L’amicizia è una sola anima (psychè m{a) in due corpi». L’anima (psychè) secondo le categorie ellenistiche di ispirazione neo-platonica, non è qui intesa come una parte dell’uomo distinta dal corpo, ma quasi come sinonimo dell’essenza dell’uomo: l’uomo è l’anima.
Luca introduce anche il cuore (kardia), concetto estraneo al mondo greco, per integrare il momento ellenico della sua affermazione, rifacendosi ad una categoria che non è ellenica ma giudaica, anzi biblica. Il cuore esprime l’essenza biblica dell’uomo, per cosi dire, in quanto sede della sua volontà di amare Dio.
Luca distingue nell’uomo due componenti, dunque, ma si appella a due mondi, a due linguaggi, quasi forse a voler mostrare che l’unità fra i credenti è unità di popoli, di culture, oltre che di uomini, di amici. Il cuore è un tema caro a Luca (il cui greco è generalmente sempre ricchissimo di semitismi), che egli inseri­sce spesso, anche quando le sue fonti non ne parlano.
Anche Paolo per esprimere l’unanimità si serve della espressione «una sola anima» (per es. in Fil 1, 27).
Per quanto riguarda l’uso di «anima» unita all’idea di unità (unanimità), indubbiamente Luca si rifà a Paolo. In Fil 2, 2, per esempio, Paolo afferma la necessità di un solo pensiero, una medesima carità, di essere «uniti nell’anima» (sYmpsychoi). Questo pensare la stessa cosa, essere unanimi, per Paolo, (cf. anche 2 Cor 13, 11; Rm 12, 16; 15, 5) non vuoI dire avere le stesse opinioni, ma che la pluralità non minacci l’unità in una sola fede (cf. Rm 15, 5-6) 11.
Rifacendosi a Paolo, Luca quasi certamente vuole mostrare, nella sua descrizione in At 4, 32, una comunità che vive secondo un perfetto modello di unità.

La seconda parte del versetto (4, 32b) afferma:

«… nessuno diceva sua proprietà quanto gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune».

Qui viene detto in modo sufficientemente esplicito che la comunione dei beni non è una comunione giuridica, ma ciascuno conserva la proprietà legale e morale dei beni, che però considera come patrimonio comune – di cui è amministratore – e quindi chi ha bisogno di qualcosa gliela può chiedere, come se ne fosse il proprietario. La frase termina con la stessa espressione (pdnta koind) di At 2, 45, cui si ricollega, richiamando il tema dell’amicizia. Il v. 33 è ritenuto – come il 2,43 – generalmente un’inter­polazione non lucana, del redattore. Il testo lucano, riprenderebbe al v. 34: «Nessuno, infatti, era fra loro bisognoso … » (At 4, 34) Con questo versetto viene lasciato il tema dell’amicizia e si passa ad una formula che pare desunta dal testo biblico del Deuteronomio: Dt 15,4 12 • Nel testo ebraico del Deuteronomio, la frase suona come una raccomandazione: «Del resto non vi sia alcun bisognoso in mezzo a te; perché ]HWH certo ti benedirà nel paese che ]HWH tuo Dio ti dà in possesso ereditario, purché tu obbedisca fedelmente alla voce di ]HWH tuo Dio avendo cura di eseguire tutti questi comandi che oggi ti do» (Ot 15, 4) 13. Nel testo ebraico, la frase «purché tu obbedisca … alla voce di JHWH» è subordinata al «possesso ereditario» del paese e non al fatto che vi siano o no dei bisognosi. Nella traduzione greca (LXX) la raccomandazione deutero­nomica diventa già una promessa: «Non vi sarà alcun indigente …se obbedirai alla voce di JHWH.

E in tal senso, ancora più marcato, si esprime il Targum palestinese: «Se vi applicherete alla Legge… non vi saranno indigenti…» (Targ. Jer., 1).
La lettura di Luca della Bibbia dipende dai LXX, per cui egli vede, nel fatto che non c’erano indigenti fra i cristiani, il compimento di una promessa biblica, escatologica. In ciò, proba­bilmente, i cristiani di Gerusalemme vedevano un segno della realizzazione, nella loro comunità, della comunità messianica della fine dei tempi, prossima alla parusia.
Il tema, però, potrebbe richiamare anche la già ricordata mitica «età dell’oro», che per i greci era un esplicito avvenimento del passato, delle mitiche origini 14, mentre nel concetto analogo del giudaismo contemporaneo a Luca era divenuto soprattutto un evento «venturo», messianico.
Con molta probabilità il riferimento a DI 15, 4 apparteneva ad una delle fonti di cui disponeva Luca, ed esprimeva una tradizione di ambiente gerosolimitano, ma che ben si innestava sulla novità evangelica dell’amore fraterno, fondato su Gesù. Luca la fa propria e la connette con temi paralleli noti al mondo ellenistico, cui si rivolge.
Proseguendo nella lettura del v. 4, 34 e del successivo v. 4, 35, si incontra un nuovo elemento, finora sconosciuto.

«…(b) quanti possedevano campi o case, Ii vendevano, (c) portava­ no l’importo di ciò che era stato venduto (35a) e lo deponevano ai piedi degli apostoli; (b) e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (AI 4, 34b-35).

I versetti 34b e 35b, presi di seguito, ripetono esattamente quanto affermato già in AI 2, 45.
La novità è rappresentata da 4, 34c e dal successivo 4, 35a: «portavano l’importo di ciò che era stato venduto, e lo deponeva­ no ai piedi degli apostoli». Si potrebbe pensare, se non ci fosse quanto precede (cf. AI 2, 45 e 4, 34b) e quanto segue (cf. AI 4, 35b; 4, 36-37; 5, 4) che tra i primi cristiani di Gerusalemme vi fosse una sorta di comunismo dei beni, amministrato dagli Apostoli.
In effetti, la questione del «comunismo primitivo» è stata a lungo dibattuta, all’inizio di questo secolo, proprio sulla scorta della notizia riferita da AI 4, 35. La quasi perfetta identità di espressione, però, fra 4, 34c seguito da 4, 35a e il successivo 4, 37, fa ritenere oggi a diversi studiosi che la prima frase sia una generalizzazione introduttiva, che cioè generalizza il caso eccezionale di Barnaba riferito da AI 4, 37 15.
Forse Luca aveva nelle sue fonti una notizia di un eccezionale atto di generosità riguardante Barnaba, il compagno di Paolo. Il gesto di Barnaba viene infatti riferito come eccezionale, e questo ‘ non si spiegherebbe se effettivamente «tutti» facevano cosi.
L’intento di Luca poteva essere quello di esaltare l’esempio di Barnaba, per mostrarlo ai suoi lettori: non intendeva quasi sicuramente puntare su un generalizzato eroismo. Può darsi che il fatto, per i cristiani a cui si rivolgeva, fosse di particolare significato e valore, cosi da indurre Luca a sottolinearlo con forza. Il distacco dai beni è un tema lucano 16 e anche più generalmente evangelico, risalente certamente alla predicazione di Gesù, in cui esso aveva forse anche più forza e radicalità di quanto Luca esprima.

Questa probabile generalizzazione di Luca in AI 4, 35 non deve però portarci a generalizzare a nostra volta, minimizzando la generosità dei primi cristiani. Basti pensare alla organizzazione della distribuzione quotidiana in AI 6, 1-6, che doveva essere un peso economico non indifferente per una comunità povera come doveva essere quella di Gerusalemme, costituita probabil­mente da gente semplice, non ricca, in maggioranza di origine galilea. Ben diversamente doveva avvenire nelle nuove comunità greche, nate dalla predicazione paolina, dove il tenore di vita era più elevato. Si spiegherebbe cosi, almeno in parte, la colletta richiesta a Paolo, fra le sue Chiese, per aiutare i «santi di Gerusalemme», di cui parla Paolo stesso nelle sue lettere (cf. Rm 15, 26; 2 Cor 8) ed a cui anche Atti accenna in 11, 29.

La conferma della volontari età della comunione dei beni, gestita dalla generosità evangelica del singolo, viene dal racconto successivo (cf. At 5, 1-11) che riferisce l’episodio di Anania e di sua moglie Saffira. La frase espressa da Pietro, al centro del racconto, è rivelatrice (cf. At 5, 4) 17, e conferma tutto quanto affermato precedentemente, ad esclusione di 4, 35a.
Il «peccato» di Anania e Saffira, per cui essi sono drammati­camente puniti in un modo che sconcerta da un punto di vista evangelico, non è la frode contro la comunione dei beni, ma il peccato contro lo Spirito 18 e contro l’autorità degli Apostoli.
Il versetto 4, 35b (perfettamente identico a 2, 45b nel finale) rivela l’idea, già accennata, di un distacco dai beni, conseguente alla solidarietà.
Paolo esprime quest’ultimo concetto con il termine «uguaglianza» (isotes) che deve esservi fra i cristiani. L’uguaglianza è considerata dal pensiero greco specifica dell’amicizia 19. A titolo di esempio, Diogene Laerzio accanto al koinà tà philon pone l’espressione philian isoteta.
Paolo esprime quest’idea in vari modi: i Gentili, con la colletta in favore della comunità gerosolimitana, saldano un debito (cf. Rm 15, 27) e danno i loro beni per averne aiuto spirituale in cambio (cf. 2 Cor 8, 14). In questo modo Paolo, si potrebbe dire, pensa che si realizzerà l’uguaglianza che deve regnare fra i cristiani. Dall’uguaglianza, su un piano esistenziale, può nascere l’amicizia, che crea fra gli amici l’armonia e che fa di essi una sola anima.

Ma ciò che in modo particolare colpisce, nella sintesi lucana, è il fatto che è l’ideale di carità – specifico del messaggio evangelico che incarnandosi pone un nuovo fondamento all’ideale greco dell’amicizia, dandogli con ciò rilievo e mettendo­ lo in luce. Si potrebbe dire che l’uguaglianza porta ad uno scambio e ad una partecipazione che si estende poi naturalmente ai beni materiali: tra amici tutto è comune.
Se è vero, quindi, che l’amicizia nasce dall’uguaglianza e viene prima di poter mettere in comune i beni materiali, è altrettanto vero, però, che la comunione dei beni – in quanto conseguenza di tutto ciò – è il mezzo attraverso cui l’amicizia si rafforza.
In definitiva, per il cristiano la comunione dei beni è una manifestazione dell’amicizia, e manifestandosi realizza una sempre più concreta uguaglianza, in cui è possibile l’unità delle anime; ma tutto ciò è, prima di tutto, amore fraterno e unità nella fede, in Gesti.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Tenendo conto dell’intento lucano di scrivere una storia religiosa con fini teologico-spirituali, come si diceva all’inizio, viene da chiedersi – a questo punto – se la comunione dei beni è un fatto storico o è l’aspirazione ad un ideale che ha le sue radici nella comunità escatologica di Dt 15, 4, sia nello stato ideale platonico e nella comunità pitagorica.
Contro la staticità deporrebbe il fatto che l’accenno alla comunione dei beni è unico e isolato: fuori di questi brani non se ne parla nel NT, se si esclude la breve notizia di At 11, 29, che corrisponde probabilmente alle collette paoline.
Dupont invece ritiene che la staticità sia da prendere in considerazione per le radici comuni che si intravvedono tra la koinonia di Atti e la comunione evangelica dei discepoli con Gesti. Entrambe rivelano le stesse caratteristiche di disponibilità radicale accanto ad un’ampia libertà.
Si può supporre che la comunione dei beni nella comunità di Gerusalemme non fosse solo un’attività caritativa ma un adattamento, in una convivenza più grande, della comunione che avevano vissuto i discepoli con Gesù.
Ovviamente, ciò che si poteva fare in pochi non si poteva più fare identicamente in migliaia o anche solo in centinaia di persone, tanto più che la parusia tardava 21. Occorreva trovare modi, noi diremmo strutture, per mantenere lo stesso spirito, nelle mutate proporzioni e condizioni.
Nel v. 4, 35, inoltre, si ha l’impressione di intravvedere una problematica sociale che è legittimamente più immaginabile nella comunità cui Luca si rivolge che in quella gerosolimitana di cui parla.
E questo è più che comprensibile: la prospettiva attraverso cui Luca guarda la comunità di Gerusalemme, ovviamente, risente delle problematiche del suo ambiente, distante nel tempo di forse 40 anni, e situato in un altro contesto. Alcuni dati sono indicativi, rivelando, per esempio, che Luca si interessa della tematica: povero-ricco.
G. Schneider osserva che il termine «povero» (ptoch6s) ricorre 10 volte nel Vangelo di Luca, contro le 10 volte di Matteo e Marco presi insieme, mentre il termine «ricco» (ploutos) e derivati ricorre in Luca 14 volte, contro le 4 di Matteo e le 3 di Marco.

La crescita numerica delle Chiese cristiane poneva, con tutta probabilità, problemi nuovi, anche in campo economico e di strutture comunitarie.
È possibile che la predicazione di Gesti chiedesse di lasciare tutto in assoluto. Luca, forse, tenta di armonizzare i suoi tempi con le richieste radicali di Gesti, riflesse nella vita della primitiva comunità di Gerusalemme.
I tempi di Luca (ca. 80-90) stanno all’inizio dell’età subapo­stolica; non è difficile immaginare un calo di tensione in Chiese in via di assestamento, dove i compiti di servizio e di governo della comunità vengono sempre più assunti da persone locali, sostituendo l’opera itinerante dei «profeti».

È inevitabile, credo, che una tensione iniziale, «rivoluziona­ ria», col tempo cali in quanto a entusiasmo e idealità, e che le generazioni «post-rivoluzionarie» debbano trovare un movente alla loro crescita nella stabilità di un impegno relativamente più costante e articolato anche se meno «avventuroso».
Ci sono moltissimi rischi in ciò, però molte potenzialità «rivoluzionarie» solo in questa fase possono diventare dati di fatto. Occorre naturalmente richiamarsi alle idealità presenti in germe all’origine, come fa Luca, per non perdere di vista l’obiet­tivo.
Ma questa idealità indispensabile deve trovare modi adeguati ai tempi nuovi, per esprimere i suoi contenuti, e questo non soltanto nelle forme ma anche nei presupposti storici e culturali. Altrimenti è inevitabile il rifugio comunitario in una vera e propria nostalgia di una più o meno immaginaria «età dell’oro», che svuota l’idealità di immediatezza e di comunicatività.

Nelle Chiese a cavallo tra il NT e l’età dei Padri Apostolici, il continuo invito a vigilare contro le ricchezze, tradisce il timore di un imborghesimento, che talora non è soltanto un timore. Basti pensare alla Didachè 4, 8 26, o l’attacco ai ricchi in Cc 2, 1-13 27, o l’obbligo della beneficenza ricordato dalla Lettera agli Ebrei, 13, 16 28, o, più avanti, Policarpo, che in Filippesi, 4, 1 29 dirà che la radice di tutti i mali è l’amore al denaro.
Se poi andiamo più in là nel tempo, l’ideale lucano si affanna. Basti ricordare la teoria dell’«Olmo e della Vite», nel Pastore di Erma (Simil., II) 30.
Questo adattamento alle istanze poste dal volgere del tempo, però, spingerà anche a cercare di tornare alle fonti evangeliche, e di comprenderle alla luce dei tempi nuovi, come in modo originale tenteranno di fare Clemente Alessandrino, all’inizio del III secolo 31, e dopo di lui, Origene.

BRUNO CANTAMESSA