Intervento del Card. Bassetti al 40° Convegno nazionale delle Caritas diocesane

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GIOVANE È… #unacomunitàchecondivide

Abano Terme (PD), 16-19 aprile 2018

Per uno sviluppo di comunità, il ruolo dei giovani (Card. Gualtiero Bassetti)

Carissimi,

vi ringrazio per l’invito. È un appuntamento importante per me, in questo primo anno di impegno nella presidenza della CEI, tanto più che in questi giorni vi proponete di riflettere sulla dimensione comunitaria dello sviluppo umano, sociale e personale, per farne programma di azione ecclesiale. Così realizzate la conversione pastorale che papa Francesco ha indicato a tutta la Chiesa, e per la quale c’è ancora tanto da fare.

Vi indico un sottotitolo al tema che mi avete affidato, per segnalarvi in premessa il filo conduttore della mia riflessione. Il tema è “Per uno sviluppo di comunità, il ruolo dei giovani”, il sottotitolo potrebbe essere: “Il fondamento eucaristico della presenza sociale dei discepoli”.

Questa mia breve relazione è articolata su due momenti dedicati, rispettivamente, alla dimensione comunitaria dell’esistenza umana e al ruolo dei giovani. Ci accompagneranno due icone neotestamentarie, dalla forte incidenza eucaristica: la descrizione della prima comunità cristiana (At 2, 42-47) e il racconto dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-53).

La dimensione comunitaria

Senza troppi giri di parole, vorrei far presente che nell’esperienza cristiana, generata dalla potenza del Risorto, la comunione ecclesiale (la fraternità e sonorità cristiana) non è realizzata solo nella fractio panis, ma anche nella conseguente condivisione concreta della vita e dei beni.

Mettere le cose in comune e non considerare proprie le cose che si possiedono è una esplicitazione dell’essere divenuti credenti e della partecipazione all’unica mensa eucaristica. Al di là delle modalità con cui questa si realizza (condizionata dal mutare delle situazioni storiche e delle mentalità), senza condivisione di vita non vi è adesione al Signore Risorto che ha dato la sua vita per noi. L’evento che fonda l’esperienza cristiana è infatti il dono di sé di Gesù nella croce, che ha ingoiato la morte e con essa la necessità di difendersi dalla morte attaccandosi ai beni di questo mondo.

La Resurrezione di Cristo restituisce l’uomo alla dimensione della gratuità della vita. La vita non dipende dalle cose che possediamo o dal potere che conquistiamo, che – come recita il salmo – non possono aggiungere un solo istante alla nostra esistenza. La vita ci è donata e può essere vissuta cristologicamente solo nella logica del dono. L’immagine dei gigli dei campi non è una licenza poetica ma la realtà della vita in Cristo, che restituisce tutta l’umanità al senso profondo della creaturalità e della figliolanza universale che deriva dall’atto creatore di un Dio che non è un padrone ma un Padre. La comunità eucaristica è la profezia perenne e pentecostale di questa realtà umana fondamentale: ciò che rende possibile la vita, la vita piena, lo sviluppo umano è la fiducia e quindi il dono.

Per i cristiani, quindi, la capacità di condividere i beni e di accogliere (nelle modalità che la loro creatività dovrà sempre reinventare) non traduce tanto e principalmente una esigenza etica, ma esprime l’esistenza cristica. La salvezza e la vita sono in Lui, non nei beni che possediamo o nel potere sugli altri che conquistiamo. Fuori da questa fiducia, che si esprime necessariamente nella disponibilità della nostra esistenza e dei beni, viene meno la possibilità teologale della trasmissione della fede. Possiamo trasmettere l’involucro, magari esatto e ortodosso, delle verità della nostra fede: la fede su Cristo, ma non la fede in Cristo. Il mondo, però, ha diritto che noi gli testimoniamo che il suo segreto, la sua verità profonda è l’Amore e che questo Amore abita – se l’umana libertà lo consente – i cuori degli uomini.

I cristiani sono coloro che gridano con la loro vita che è possibile vivere la fraternità, la gratuità, il dono, la giustizia, la pace. Non si tratta di utopia, di buonismo, ma di ciò di cui il mondo ha bisogno per uscire dal pauroso avvitamento su se stesso che lo sta conducendo ad offendere il creato, a strutturare il disordine come regola dei rapporti fra le nazioni, a lasciare indietro i deboli e i poveri all’interno delle società.

L’esistenza eucaristica dei discepoli di Gesù è profezia agente del progetto originario di Dio per la vita del mondo e dell’uomo. È l’uomo che non può vivere da solo, è l’uomo che vive, cresce, si sviluppa, gode e risorge dentro a relazioni improntate alla gratuità e alla gratitudine; si svilisce, si impoverisce e muore, all’interno di una esistenza improntata all’individualismo, all’avidità, all’esclusione dell’altro e alla prevaricazione sull’altro. Quando l’individualismo e l’avidità diventano l’ideologia dominante e sono posti a fondamento dello sviluppo economico e sociale, essi generano un sistema che esclude, marginalizza, depreda l’ambiente, genera tali diseguaglianze da rendere insostenibile la vita sociale. Siamo, cioè, davanti al più drammatico segno dei tempi che siamo chiamati a decifrare: può il creato sopravvivere ad una umanità che si illude di fondare se stessa e la propria crescita sull’inclinazione all’avidità dell’uomo e non sulla sua relazionalità, sulla sua socialità?

Non posso, in questa sede, riassumervi l’insegnamento di papa Francesco sulla dimensione sociale dell’evangelizzazione – che tra l’altro raccoglie e sviluppa il magistero sociale della Chiesa – ma ritengo che sia fondamentale sottolinearne la centralità. Un cristiano, infatti, non può rassegnarsi supinamente all’affermazione di una economia utilitarista e di una cultura dello scarto che esclude i giovani, gli anziani, i nascituri, i perseguitati e gli affamati.

C’è una verità dell’uomo che va profeticamente testimoniata: l’uomo non trova realizzazione e felicità nell’assecondare l’avidità, i suoi interessi personali, e nell’individualismo; l’uomo trova la sua realizzazione e la sua felicità nella condivisione di vita, nell’accoglienza dell’altro, nella vita di relazione che implica necessariamente anche la rinuncia a qualcosa dell’io. A questa verità dell’uomo è connessa una verità sociale: lo sviluppo umano, la crescita dell’umanità non possono essere esclusivamente fondati sulla ricerca dell’interesse personale e sulla competizione, ma devono anzi fondarsi sulla inclinazione dell’uomo all’altro, sulla sua capacità di riconoscersi membro di un’unica famiglia umana.

Giorgio La Pira, in un momento in cui l’ideologia fascista e nazista aveva eretto a sistema l’idea che la crescita della nazione si fondasse non sull’orientamento unificante ma sulla supremazia delle nazioni elette sulle altre e sulla supremazia di una razza sull’altra, denunciò con un articolo del 1938 sul “Frontespizio” che l’ordine statale e quello internazionale non avrebbero potuto prescindere da due leggi fondamentali intrinseche alla natura umana: la solidarietà organica e gerarchica del genere umano e “la reciproca proporzionale attrazione e integrazione fra gli uomini”. Evidentemente uno Stato che poneva a proprio fondamento non la solidarietà organica del genere umano, ma la superiorità di una razza sulle altre, e su questa base concepiva la sua missione, non era portatore di una visione coerente con i principi della legge naturale e del cristianesimo.

Ed è estremamente interessante notare come La Pira, per tutta la vita, abbia richiamato come data di inizio della sua azione politica il 1934, cioè l’anno in cui fondò, insieme a don Bensi, l’Opera di san Procolo, cioè la messa cui invitava i poveri della città e che fu l’esperienza sorgiva della sua politica: la città di Dio che penetra nella città dell’uomo. Se c’è una ragione fondamentale e centrale per cui La Pira può essere canonizzato è questa: l’aver preso sul serio la forza profetica dell’Eucarestia: da qui sono scaturite la sua sorprendente libertà e creatività in politica.

Credidimus caritati! Abbiamo creduto all’amore! L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori ed è Lui, non le nostre paure e la nostra avidità il motore della storia.

Il ruolo dei giovani

La condizione giovanile è oggetto di analisi, studi, riflessioni che aiutano la chiesa, anche in quella sua realtà sorgiva e di base che è la famiglia, a porsi le domande su quali siano le scelte da fare e gli atteggiamenti da assumere per mettersi al servizio dei giovani, per permettere loro di portare avanti la storia. Il coraggioso sinodo dei vescovi di ottobre ha proprio questo scopo.

Nella mia esperienza pastorale quotidiana registro la grande sofferenza prodotta nei giovani a causa dello spazio che è loro negato: spazio nel tessuto lavorativo, per molti anche spazio abitativo (perché il prezzo delle case è irraggiungibile a chi non ha famiglie in grado di sostenere l’acquisto o l’affitto). Molti giovani soffrono per la mancanza di prospettive e sono resi drammaticamente fragili dalla assenza di speranza. Per questo l’icona dei discepoli di Emmaus può ben prestarsi a introdurre questa seconda parte della mia breve riflessione, sul ruolo dei giovani nella vita comunitaria e sociale del nostro paese, del mondo e della nostra chiesa.

La prima domanda che dobbiamo porci, nel discernere le questioni connesse al ruolo dei giovani nella società e nella chiesa, è se come Chiesa li stiamo credibilmente invitando a celebrare l’Eucarestia. Nel racconto dei discepoli di Emmaus, infatti, la differenza non la fanno i discepoli prima scoraggiati e poi incoraggiati, ma Colui che, prima di spezzare il pane per loro, cammina con loro. Attenzione però, non limitiamoci a slogan abusati: colui che cammina con loro è il Risorto, che ha percorso prima di loro i sentieri della morte, per amore degli uomini, per amore proprio di quei discepoli, e ha sconfitto la morte, la solitudine, la desolazione, l’isolamento. La Chiesa percorre credibilmente i sentieri di morte che attraversano i giovani, quelli cioè che negano loro il lavoro, la casa, la speranza? È una pastorale giovanile credibile, una pastorale vocazionale autentica, quella che diserta i temi connessi al diritto al lavoro e alla casa?

Vedete, qui non si tratta di promettere posti di lavoro in maniera ideologica. Si tratta di vivere concretamente le beatitudini, e dire ai giovani “Guarda che la tua sorte mi interessa, per quanto mi è possibile denuncio il male che ti è fatto e soprattutto: la tua lotta è la mia lotta, e la mia solidarietà, assieme a te, è capace di sviluppare dinamiche creative incredibili. Non sei solo! Hai diritto a guadagnarti il pane con dignità, a fondare una famiglia su prospettive solide, perché la tua famiglia, quella che nasce dalle tue scelte e dal tuo coraggio di scommettere nell’amore, ha bisogno della casa, della scuola, della cultura, della bellezza.

E quando trovi il lavoro, hai diritto a lavorare senza essere sottoposto a continui ed estenuanti esami delle tue performances, senza essere costretto a dover dimostrare ogni giorno che sei migliore del tuo collega, che l’impresa può andare aventi bene anche senza di lui ma non senza di te”. Questi giovani hanno diritto di sapere, dalla Chiesa, che chi trasforma il loro posto di lavoro in una trincea quotidiana fa l’opera del demonio, non quella di Dio. Hanno anche diritto di sentirsi dire che non è vero che le cose vanno meglio se sono fondate sulla competizione sfrenata, ma che per far girare qualsiasi meccanismo occorre saper lavorare bene insieme ed essere contenti di lavorare insieme, e che la dignità della persona non dipende dai ruoli (necessariamente differenziati e gerarchizzati) che si ricoprono, ma dalla capacità e dalla possibilità di svolgere un lavoro in maniera umana, dalla consapevolezza che quel lavoro serve alla società, è utile, ha senso.

Senza questa credibile presenza solidale nella vita dei giovani è inutile, lasciatemelo dire con estrema franchezza, che come Chiesa ci domandiamo quale sia il loro ruolo. Giorgio La Pira, alla fine della messa di san Procolo, distribuiva il pane, non come atto di carità spicciola, ma come il primo atto concreto di solidarietà. Questo atto sarebbe stato insufficiente e insignificante (come tanti analoghi) se non fosse stato anche il primo atto di lotta politica.

Il Pane e la grazia! Quel Pane che è Cristo che si dona a noi è all’origine, nella vicenda umana, spirituale, politica e di santità di La Pira, del suo impegno antifascista a partire dal 1938, del suo impegno nell’Ente Comunale di Assistenza di Firenze, del lavoro in costituente, al ministero del lavoro e poi come Sindaco di Firenze. Quel pane è all’origine dell’esproprio delle case sfitte per darle ai senza casa, della costruzione di interi quartieri che ancora sono un faro di urbanistica, della lotta con gli operai fino all’occupazione delle fabbriche (col rischio di essere arrestato!). Non vi parlo di La Pira perché lo consideri un santino da replicare, ma perché la sua vita costituisce una testimonianza preziosa (al netto della possibilità di sbagliare che è di tutti gli uomini) di come la carità che il discepolo sperimenta nella Eucarestia sappia farsi carità creativa: esattamente come per i discepoli di Emmaus. La Chiesa italiana ha ancora la possibilità di interloquire con molti giovani, il Vangelo è capace di riempire i loro cuori.

Arrivo alla conclusione del mio intervento, che non è però affatto una conclusione ma al contrario un invito alla riflessione. Una volta che come Chiesa abbiamo chiarito la necessità di un accompagnamento e un’accoglienza autenticamente eucaristica dei giovani, possiamo provare, sulla base della nostra esperienza e della nostra storia, ad aiutarli ad individuare le sfide che si trovano a dover affrontare. Per questo esprimo la mia gratitudine per le iniziative preziose e coraggiose che la creatività pastorale della nostra chiesa sa mettere in campo, come il progetto comunità che innovano nuovi attori per lo sviluppo dei territori contro la povertà”, fondato su un approccio non paternalistico, sul rigore dello studio e dell’approfondimento, sulla consapevolezza della dimensione internazionale delle sfide, ma anche delle risorse per affrontarle.

Io credo che le sfide siano vertiginose. Il ‘900 ha consegnato, infatti, non solo errori e orrori, ma anche, in alcune società come la nostra, una certa modalità di realizzare la condivisione dei beni. Se prendiamo la nostra carta costituzionale troviamo una magna carta: il progetto del superamento della democrazia liberale per la democrazia sostanziale, quindi solidale. Vi sono i valori, fondati sul rispetto della dignità della persona, che hanno permesso al nostro paese di affrontare le crisi più difficili; essi sono, per di più, il cardine di una crescita economica – in un passato non così lontano – fra le più sorprendenti del mondo. Uno sviluppo tanto più solido e forte quanto più inclusivo e capace di esprimere la cultura solidale del nostro paese.

Non c’è però dubbio che la scala globale indebolisca fortemente le strutture solidali. D’altra parte, è un inganno dire che queste strutture saranno salvaguardate isolando le nazioni le une dalle altre, difendendosi dagli altri, perché l’isolamento è impossibile, e perseguirlo è estremamente pericoloso dal punto di vista degli equilibri internazionali.

Occorre mettere in moto la speranza: l’umanità nel suo insieme è capace di dare risposte coerenti alle sfide che la riguardano: il movimento ecologico ne è l’esempio più lampante e, nonostante le opposizioni, sta segnando importanti passi avanti.

È stato chiarito il rapporto inestricabile fra equilibrio ecologico e distribuzione equa delle ricchezze della terra. Davvero o ci si salva tutti insieme o non si salva nessuno. Non facciamoci paralizzare dalla misura vertiginosa delle sfide. È molto importante il lavoro che papa Francesco ha iniziato con i movimenti popolari: terra, casa, lavoro. Sfide globali che troveranno la loro soluzione su scala globale. Ad esse va aggiunta, almeno, la sfida sul diritto umano alla salute, con la accresciuta capacità scientifica e tecnologica di intervento terapeutico, ma da costi che rischiano di mettere in crisi interi sistemi sanitari nazionali.

Coraggio, riprendiamo il cammino verso Gerusalemme!