Il vangelo secondo il rock

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La parola biblica deborda nei versi di Bob Dylan, costeggia l’opera di Woody Guthrie, preme nella “teologia del Padre” di Bruce Springsteen, sostiene la poetica di Johnny Cash, urla nella furia di Patti Smith.

Che si manifesti nella lotta o nell’abbraccio, nella fede o nella sua negazione, il rapporto con la Scrittura feconda il canzoniere di alcune delle voci più significative del rock.

Ed è proprio la distanza, la ferita che si apre tra la parola biblica e il suo riecheggiare nella musica pop a renderne fertile e vertiginoso il risuonare. Massimo Granieri e Luca Miele provano a catturare quegli echi inseguendo suggestioni e voci, incrociando percorsi, affastellando canzoni in modo dichiaratamente non sistematico, aperto e fluido.

Prefazione di Antonio Spadaro.

Sito web: Arena dei Rumori

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Leggi le prime pagine del primo capitolo (don Massimo Granieri)

In principio era Patti Smith

Alzati. Prendi posizione
Amplifica il sistema di Dio
(Patti Smith)

Radio Ethiopia

Sono un sacerdote passionista, indosso una tunica nera e una cintura di cuoio che testimonia la mia scelta di povertà. Sul petto porto un cuore sormontato da una croce di colore bianco che mi ricorda le sofferenze di Cristo e la purezza di vita cui sono chiamalo. È lo stesso cuore tratteggiato sul collo di Scott Campbell, il tatuatore dei divi di Hollywood, il segno esposto nelle vetrine dei tattoo shop di mezzo mondo, riprodotto sulla pelle di tanti giovani ignari della sua origine. per me è il distintivo di coloro che hanno avuto il dono di ascoltare la voce di Dio e di seguirlo da vicino, ripetendo a se stessi ogni giorno ciò che Patti Smith ha scritto sulla copertina interna dell’album Radio Ethiopia: «Fight The Good Fight».

Era il 1989 quando mi trovai tra le mani quel disco per la prima volta, avevo diciannove anni. Fu il primo episodio tangibile della rivelazione di Dio nella mia vita e della sua volontà di coinvolgermi nello sforzo di accompagnare l’essere umano in qualsiasi situazione si trovi 0 si vada a cacciare. Difficile a credersi. è stato il punk a incrociare i miei passi con quelli del Signore. Ancora oggi, ogni volta che ascolto Paths That Cross, mi ricordo di quel periodo turbolento in cui i nostri sentieri si sono incrociati, «in quel giorno pieno di grazia e nella luce dell’incontro».

Dunque, in principio era Patti, e oggi scrivo il racconto della strada fatta insieme. È stata lei stessa a farmi capire che la scrittura è un talento da impiegare per produrre frutto nel campo di Dio, una sfida alla quale non posso sottrarmi.

Perché ci si sente in dovere di scrivere? Per isolarsi, proteggersi, perdersi nella solitudine, malgrado i desideri degli altri […] Le parole che penetreranno in territori vergini, infrangeranno combinazioni non rivendicate, articoleranno l’infinito […] Dobbiamo scrivere, intraprendendo una miriade di battaglie, come se domassimo un puledro testardo. Dobbiamo scrivere, ma non senza un notevole sforzo e una dose di sacrificio: entrare in contatto con il futuro, rivisitare l’infanzia, e tenere salde le redini tra le follie e gli orrori dell’immaginazione per una palpitante corsa dei lettori.

Il palpito del punk plasmò il mio modo di pensare e di agire.

Persi la testa per quella magmatica, ardente, esplosiva rocker newyorkese che nelle canzoni invitava a scendere in strada e a impegnarsi per cercare un riscatto. Altri altisti cantavano il caos e la fine del mondo, Patti invece credeva che la musica potesse guarire, renderci più liberi. Mi procurai il disco successivo, Easter, e scoprii che sulla copertina Patti citava nuovamente san Paolo: «l gave fought a good fight, I bave finished my course». La sua voce aveva i toni accesi di un profeta che sollecita un cambiamento.

Ognuno può opporsi al sistema cui è sottomesso, lanciare un grido per rivendicare il proprio diritto di non rimanere solo. isolato e senza prospettive. Allora non capivo che, anche per chi non crede, un simile grido è una viscerale invocazione a Dio. Oggi so bene che quello che nel punk è un pugno in faccia al nemico. in molti casi, è una preghiera ardente, l’espressione di un grande bisogno di consolazione.

[…]

Leggi le prime pagine del secondo capitolo (Luca Miele)

La teologia del Padre (e della sua assenza): Bruce Springsteen

Che cosa si trasmette da padre e figlio? Quale eredità il primo consegna al secondo? Ogni rapporto tra padre e figlio è ritmato da un movimento ondulatorio: rivolta e fedeltà, emulazione e desiderio di affrancamento, urgenza di essere riconosciuti e consapevolezza dell’ineluttabilità della separazione. («Ogni ragazzo deve fare la sua strada», Independence Day).

Nella produzione giovanile di Bruce Springsteen la generazione si rovescia nel suo opposto, in de-generazione. Ciò che si trasmette da padre a figlio non è la custodia della promessa che la vita di ogni figlio annuncia, ma la colpa, il peccato, la dannazione. Il dolore e la rabbia, che innervano il rapporto tra padre e figlio, si aggrumano attorno a due figure bibliche: Adamo e Caino (Adam Raised a Cain). Nel brano del 1978, Springsteen ci immette subito in una semantica religiosa, ci catapulta dentro un territorio sacramentale. La canzone si apre con la scena di un battesimo, di un battesimo che fallisce. L’immersione nelle acque non sancisce una rinascita ma l’inconciliabilità del padre e del figlio, la loro impossibilità ad abitare la stessa casa, l’incapacità di condividere lo stesso spazio affettivo prima ancora che fisico. Il padre fallisce. La sua figura si svuota, il suo ruolo si nullifica. La sua vita è inghiottita dal dolore, dal fallimento:

«Papà ha lavorato tutta la vita / e per nient’ altro che dolore / Ora
cammina in queste stanze vuote / cercando qualcuno da maledire».

Non solo non protegge, non solo non consente il fiorire della vita, non solo non protegge, non solo non salva: il padre “maledice” il figlio. Caino eredita le fiamme (della perdizione), eredita i peccati. Il figlio percepisce sé stesso come un Caino, un assassino, un figlio della degenerazione appunto, marchiato, nella carne, dallo della dannazione, del peccato.

È l’abbozzo di una teologia: una teologia del Padre o della sua assenza. Perché tra padre terreno e padre celeste si apre — nelle canzoni di Springsteen — uno scambio, un transito, un passaggio, una trasmigrazione: il primo si dilata fino ad assumere i contorni dell’altro, fino a confluire, a confondersi nell’altro. Padre terreno e Padre celeste diventano, a tratti, indistinguibili. Il mondo del primo significa, restituisce il volto dell’Altro. Indagarne i riverberi, le incarnazioni, i volti, consente di cogliere il perimetro della “teologia del padre” tracciata nella sua produzione dal rocker di Born in the USA.

Quali figure di padri/adulti si incontrano, allora, nel mondo poetico di Springsteen? A quali raffigurazioni del mondo adulto dà voce il cantante americano? In Badlands, altra traccia di Darkness on the Edge of Town, appaiono le figure del povero, del ricco e del re, figure ascrivibili al mondo adulto.

[…]

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