Il commento al Vangelo di oggi, 10 aprile 2015 – don Antonello Iapicca

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Gettare noi stessi in Cristo

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Siamo giunti al Venerdì in Albis, a una settimana esatta dal Venerdì Santo, il Venerdì della Croce e dello scandalo: “Voi tutti vi scandalizzerete di me in questa notte; infatti sta scritto: colpirò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che io sarò risuscitato, vi precederò nella Galilea” (Mt. 26, 31-32). Lo scandalo, che significa inciampo, è sempre in agguato, perché l’alba della resurrezione non è mai separata dalla notte della Croce. E’ un unico Mistero che si realizza nella vita dei cristiani, che, non dimentichiamolo, coincide con la loro missione nel mondo. Pietro e gli apostoli dovevano farne l’esperienza; dovevano sperimentare il fallimento del Venerdì del Golgota, scendere nel sepolcro dell’impotenza, per abbandonarsi completamente al potere di Cristo. Perché la vita e la missione di un cristiano e della Chiesa seguono sempre le orme di Cristo crocifisso, sepolto e risorto. Il Vangelo di oggi e quello di domani ci raccontano il cammino di purificazione di Pietro e dei suoi fratelli, attraverso il quale hanno imparato che cosa sia la missione che il Signore ha affidato alla sua Chiesa, per compierla nell’amore a Lui, che significa la completa identificazione dell’apostolo con Colui che lo ha mandato.

Vediamo allora come hanno imparato ad essere missionari, cioè cristiani. Gli apostoli avevano “visto” il Signore risorto e avevano “gioito” nel contemplare le sue “mani e il costato” che testimoniavano che Egli era proprio il loro Maestro, Gesù di Nazaret crocifisso tre giorni prima sul Golgota. Avevano ascoltato le sue parole che, accogliendoli nella sua risurrezione, schiudevano dinanzi a loro la vita nuova che li attendeva: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Infine si erano inchinati al soffio di Gesù che donava loro la sua stessa vita, in virtù della quale avrebbero compiuto la missione che gli aveva affidato: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”.

Poi, per formarli e fortificarli nella fede, “Gesù fece in presenza dei discepoli molti altri segni miracolosi”. E così, ricolmi dello Spirito Santo, “dopo questi fatti”, Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli partirono per la Galilea, dove “si trovavano insieme” quando “Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade”. Sono state fatte molte ipotesi sulla presenza in Galilea degli apostoli, ma io sono persuaso che essi vi si trovassero in obbedienza all’invio del Signore. Avevano sperimentato lo “scandalo” di Gesù e la “dispersione del gregge”, ma, proprio per averlo “visto risuscitato e aver ricevuto lo Spirito Santo, erano certi che li avrebbe preceduti in Galilea. Era quello il luogo della missione! Infatti, non a caso Giovanni presenta sette apostoli insieme a Pietro: “è il simbolo della Chiesa che viene mandata alle Nazioni, mentre i Dodici era il simbolo della Chiesa che veniva mandata alle dodici tribù di Israele. Nelle città pagane c’era sempre un consiglio, la “bulé”, il “Buletérion”, il consiglio dei sette saggi della città che prendevano le decisioni, e adesso abbiamo sette discepoli che sono quelli mandati ai pagani” (Frédéric Manns). E cosa fanno? “Vanno a pescare” con Pietro, in obbedienza alle parole con le quali Gesù, proprio dopo la pesca miracolosa sulle stesse rive del Mare di Tiberiade, aveva profetizzato a Pietro la sua missione, e in lui anche quella degli altri discepoli: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”.

Pietro dunque, insieme agli altri sette, “si trovava” nel compimento delle Parole di Gesù alla cui intelligenza, nel Cenacolo dove si era mostrato risorto, aveva dischiuso la loro mente. Pietro e i suoi fratelli come la Chiesa, come le nostre comunità cristiane, come ciascuno di noi, “si trovavano” nel cammino della vita nuova inaugurata dal Mistero Pasquale di Gesù, sulle rive della missione, gettando le reti per pescare i pagani. Ma era arrivato il venerdì della purificazione, ed essi dovevano entrarvi perché fosse purificata quella parte di loro che ancora apparteneva alla terra. Quella che, di fronte alle difficoltà, alle sofferenze, ai fallimenti della missione emerge in tutti gli apostoli alle prime armi, in tutti i neofiti che iniziano a camminare nella vita nuova. In ciascuno di noi quando arriva questo venerdì in Albis, di certo gravido di problemi, di situazioni difficili che inducono a dubitare che Cristo risorto ci abbia davvero preceduto nella nostra Galilea. Sono inviato a “pescare” mio figlio dal mare del mondo che lo ha ghermito; oppure a “pescare” mio marito che non ne vuol sapere di aprirsi alla vita; oppure a “pescare” i miei parenti precipitati nelle acque del risentimento e dei pregiudizi; oppure a “pescare” quel fratello che sta tradendo sua moglie, quella parrocchiana che sta affogando nell’anoressia, e quei giovani schiavi della droga, e quella sorella che ha scoperto di avere un cancro terminale e si dibatte nella disperazione, e quegli anziani che non accettano i propri limiti e non si fanno aiutare. Che fare? Mamma mia che difficile questo venerdì, che difficile la missione di un cristiano…

E’ qui che la parte di noi ancora appartenente alla terra si sveglia e si fa strada in mezzo alla gioia della Pasqua. Pensavamo fosse morta completamente ma “il Battesimo, donando la vita della Grazia in Cristo, cancella il peccato originale e volge di nuovo l’uomo verso Dio; le conseguenze di tale peccato sulla natura indebolita e incline al male rimangono nell’uomo e lo provocano al combattimento spirituale” (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 405). Ecco che cosa deve scoprire Pietro e noi con lui: che c’è un combattimento da assumere, per far scendere nel sepolcro il proprio “io” e risorgere nell’ “Io sono” di Cristo. Leggiamo con attenzione le parole di Pietro: “Io vado a pescare”. Non vi è riassunta la nostra esperienza di fronte alle difficoltà? Io, il centro del nostro universo. Io, e giù decisioni, gomitate e sudate per realizzare i progetti concepiti in perfetta solitudine. Normalmente non ci piace confrontarci, e, se proprio dobbiamo, ci dotiamo di tutte le alchimie politiche e diplomatiche perché i nostri interlocutori si accomodino dalla nostra parte. Così con la moglie, il marito, i genitori, gli amici, con chiunque. Anche nella vita religiosa, dove la consegna della propria volontà sarebbe determinante, si è arrivati in questi anni alla famosissima “obbedienza dialogata”, un nuovo modo di definire l’indipendenza del volere e del fare, anche sotto un bel saio o infilata in una sottana nera.

Nell’atteggiamento di Pietro c’è molto di noi, come anche nel suo esito fallimentare. L’io si infila nel buio della notte e ne esce sconfitto. Come sta accadendo oggi, in questo venerdì in Albis. Anche se sarà la “terza volta che il Signore si manifesta”, anche se lo abbiamo visto altre due volte risorto e vivo, più potente della morte prendere i nostri fallimenti e trasformarli in luce vivissima di pace e amore, Lui continuiamo a “non accorgerci che è Lui”. Con le reti di tutti i giorni, con gli strumenti umani con cui tentiamo di “pescare” gli uomini che ci sono affidati, continuiamo a “non riconoscerlo” nelle persone e negli eventi della missione. E ci intestardiamo a voler prendere la vita a modo nostro, con la sicumera stolta e superba di chi sa, di chi ha capito. Ma non riconosciamo il suo volto che si affaccia all’ “alba” dei nostri giorni. Così, stanchi, ci trasciniamo a riva con il cuore ferito dall’ennesima delusione. Padri, madri, figli, fratelli, preti suore, è questa la nostra situazione? Perfetto, è il passaggio fondamentale, è il segno che il Vangelo si sta compiendo, non il contrario! Coraggio, albeggia anche oggi, la notte dei nostri sforzi inutili volge alla fine, e un volto ci si fa incontro. Forse attraverso quello di un amico, di un prete, o quello stranoto della moglie, del marito, di nostro figlio, quel volto ci inchioda con una parola che ci spezza il cuore, una domanda che non avremmo mai voluto sentire: “Hai qualcosa da mangiare?”. Come dire: “Com’è andata la pesca? Sei felice? Hai amato sino a gettarti in mare per pescare dalla morte chi ti è accanto?”.

E la risposta è inevitabile: “no”. Non ho amato così, ho tentato con il mio io, ma i pesci sono scappati sentendo odore di egoismo e superbia. E’ interessante notare che Gesù nel Vangelo chiede letteralmente se i discepoli hanno del “Prosphagion” – “companatico”, qualcosa che accompagni il pane, che è il cibo sostanziale. Gesù dà per scontato che il grosso, il cibo che fa vivere, lo mette Lui, e non potrebbe essere diversamente. Ma sa anche che non basta. Sa che per nutrirsene davvero, per non renderlo vano, è necessaria l’obbedienza della fede, “il companatico” del nostro io “ferito”, della nostra ” natura indebolita e incline al male” da consegnare a Lui, la nostra vita che accompagni il Pane della vita. Obbedire nella sua obbedienza, quella che l’ha condotto sino alla Croce del Venerdì Santo, sino al fondo del sepolcro. Per compiere la sua missione, Gesù si è nutrito della volontà di Dio, l’autentico pane quotidiano, tuffandosi nel mare della morte; così anche Pietro è invitato ad andare a pescare l’unico alimento capace di dare sostanza alla vita e alla missione, ovvero l’obbedienza di Cristo, proprio in quel mare che ha segnato il suo fallimento.

In quel momento Pietro riascolta la stessa parola che l’aveva chiamato e inviato, dentro la stessa esperienza di fallimento, perché quella che, al principio, era una profezia e una promessa, divenga ora l’esperienza decisiva del suo compimento. Nel mare della morte dove affogare il proprio “io”, Pietro deve sperimentare l’incontro con il Signore, con la sua obbedienza fatta Pane e companatico, fatta carne in lui, cibo nel cibo, obbedienza nell’obbedienza, consegna mutua all’identico destino pasquale. Pietro sorgerà dal suo stesso fallimento come Cristo è risorto dalla morte, e il cammino di emersione dal mare della morte è quello dell’obbedienza, incarnazione più pura ed autentica dell’amore. Pietro è attirato nell’azione di Cristo, accetta infine la contraddizione che veste ogni suo e nostro pensiero, parola e gesto; Pietro è la Roccia proprio perché ci indica la terra dove piantare la fede, l’inestricabile contraddizione che ci accompagnerà sempre, e che è inutile voler estirpare inseguendo vani sogni di fedeltà e coerenza che la carne, sino all’ultimo respiro, ci impedirà; Pietro può confermare nella fede perché prima ci conferma nella nostra povera realtà, nella consapevolezza che il dato oggettivo che apre le nostre giornate è la contraddizione con cui la carne ferisce il nostro spirito; Pietro ha capito che senza Cristo non può far nulla, che la fede e l’obbedienza con cui compiere la missione, sono un dono di Lui. Pietro capisce che potrà essere la Pietra solo se accoglierà umilmente il frutto della Parola che, all’alba di ogni relazione e di ogni evento, risolve nell’amore più forte della carne e del peccato, ogni nostra contraddizione.

Pietro ci insegna l’autentica umiltà, la terra buona e benedetta dove Gesù può compiere meraviglie per ogni uomo; Pietro rivela la Chiesa, povera e debole, la Sposa in attesa dell’amore dello Sposo per compiere la sua missione. Così Pietro, e noi con lui, cammina nell’esodo che lo fa passare dallo sconforto di ogni affanno infecondo alla tranquillità della fede, all’obbedienza libera che conferirà alla sua vita lo slancio infinito che lo condurrà alla stessa morte del Signore. Quella voce familiare che lo chiama a gettare la rete nel suo fallimento, nell’esito deludente della sua vita, lo spinge all’esperienza decisiva, quella che aprirà i suoi occhi al riconoscimento del Signore, della sua maestà infinita che infonde sovrabbondanza laddove regna il fallimento; Pietro entra, come Gesù, nel mare dove lascia il suo “io”, e ne esce con uno slancio nuovo, innamorato, appassionato, invincibile. In questa pesca Pietro è trasformato, è divenuto companatico di Cristo, amato nell’Amato trasformato, come cantava San Giovanni della Croce.

Ed è l’esperienza alla quale siamo tutti chiamati. Entrare nella notte e nel mare dei nostri fallimenti e delle nostre contraddizioni, obbedendo alla stessa parola che ci ha chiamati. Sperimentare, esattamente dove si sono infrante le nostre speranze, il potere dell’amore e dell’obbedienza. Obbedire e gettare la rete alla “destra” della barca, immagine del Corpo crocifisso del Signore, dal quale sono sgorgati il sangue e l’acqua dal Suo costato. Gettare ogni giorno la vita nelle acque del battesimo di misericordia, buttarsi in Lui, rinnegare se stessi, perdere la vita. Gettare le reti alla destra dove il Paraclito intercede per ciascuno di noi, dove lo Spirito Santo ci fa santi, ci fa rinascere liberi e fecondi. Gettare ogni nostro istante in Cristo, così com’è, con le sue contraddizioni, peccati e debolezze, con gli errori e le stoltezze, è il segreto della missione, l’unico modo ragionevole di vivere, aggrappati dove c’è la vita.

Senza di Lui non possiamo far nulla. Lo stiamo sperimentando, forse lo stiamo subendo. Ecco allora oggi il volto di Cristo apparire sul nostro cammino, nelle sembianze di chi ci parla nel suo nome e ci invita a gettare le reti in Lui, a lasciar perdere i nostri schemi, la stoltezza di chi non può ascoltare nient’altro che la propria voce. Sì, Gesù appare oggi sul nostro cammino e forse proprio attraverso chi sembra tarparci le ali, e mette in discussione il nostro pensare e il nostro operare. Lasciamo le nostre decisioni ai responsabili e superiori, rimettiamole al giudizio di chi ci è vicino, umiliamoci dinanzi al prossimo, tutto questo è per noi oggi “gettare le reti alla destra della barca”, dove è Cristo. Solo così potremo riconoscere che Gesù è vivo e compie il miracolo di moltiplicare i frutti della missione. In Lui e solo in Lui potremo “pescare”, cioè compiere la missione nell’amore. E’ l’amore, infatti, che permette al “discepolo amato” di riconoscere per primo il Signore. E’ l’amore che spinge Pietro a gettarsi nel mare, nella storia, per raggiungere il Signore. E’ l’amore che lo riveste dell’identità che aveva perduto a causa della prepotenza del suo “io” che lo aveva lasciato “nudo”. Qui è il punto: abbandonare il nostro io per indossare Cristo.

Questo venerdì è decisivo! Spogliamoci come Cristo sulla Croce, e consegniamoci a Lui! Vedremo “la rete gonfiarsi e non rompersi”. Vedremo il prodigio della comunione nella Chiesa “piena di pesci”, degli uomini strappati dal mare della menzogna. La “rete”, infatti, è immagine della Chiesa e “deve riempirsi di centocinquantatré pesci. Qui abbiamo la tecnica chiamata “Ghematria”; per gli antichi, sia greci che ebrei, le lettere dell’alfabeto avevano un valore numerico. Se voi scrivete in ebraico “Kaal Aawa”, che significa “la comunità dell’amore”, scoprirete che il valore numerico di queste lettere e centocinquantatré” (F. Manns). Crediamo che la missione dipenda da chissà che cosa, mentre si tratta solo di un briciolo d’umiltà che crocifigga il nostro uomo vecchio nell’obbedienza della fede, l’unica che schiude il nostro cuore all’amore. Attraverso l’umiltà “pescheremo” con la rete dell’amore e dell’unità quanti sono prigionieri delle acque della morte. Solo se essi vedranno nella Chiesa una rete tanto unita nell’amore da non spezzarsi potranno riconoscere in noi i “pescatori” inviati a loro da Gesù risorto.

Entriamo allora in questo venerdì obbedendo alla Parola del Signore che la Chiesa ci predica. Non temete, “gettando” la nostra vita in Cristo, come gli apostoli, vedremo il banchetto preparato per noi sulla terra che ci attende dopo la “pesca”: “Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane”: la meraviglia della vita con Cristo è tutta in questa esperienza: scoprire ogni giorno, al termine della pesca alla quale siamo inviati, che tutto era già compiuto in Cristo, che Lui aveva già preparato la pienezza della nostra vita, e ci aveva inviato a sperimentarla nella storia, armati della nostra sola debolezza colma del suo amore. Scoprire di aver vissuto nella missione, nella nostra giornata da figli di Dio, ciò che Lui ha già compiuto; che la nostra vita, ovunque e comunque si svolga, non è altro che la stessa vita di Cristo. Coraggio, Lui viene con noi, Lui ci attende per sigillare ogni sua opera in noi. Lui è nel fondo del mare, Lui è nella barca, Lui è alla destra di ogni nostro secondo, Lui è il Pane che sostiene e accoglie il companatico, la nostra vita benedetta dalla sua Parola. Lui è la sovrabbondanza che non distrugge nulla e tutto colma di bellezza e purezza, la pienezza che dilata all’infinito le maglie delle ore e dei giorni, il senso della storia, della vita e della morte. Lui è tutto, e tutto acquista senso nell’Eucarestia, nell’intimità d’amore con Lui, che è “mangiare” con Lui. Lui ha già fatto della nostra vita un’opera meravigliosa, Lui in noi è l’unico modo in cui possiamo compiere la missione, nella certezza di “sapere che è proprio Lui” che ci precede. Senza indugio allora viviamo con Cristo questo giorno, anticipo del banchetto celeste da assaporare con tutti quelli che il suo potere ci farà “pescare”, un frammento dell’eternità nel quale possiamo “vedere il Signore”, e saziarci del suo amore.

don Antonello Iapicca