Il popolo era affamato, assetato, stanco: ma nella voce dei profeti Dio aveva promesso cibo in abbondanza, torrenti nel deserto, riposo pieno di gioia. Gerusalemme era schiava, umiliata, confusa: ma il Signore aveva promesso di coronarla di splendore, di farla madre di tutte le nazioni.
E noi cosa aspettiamo? Cosa desideriamo? Di cosa abbiamo bisogno, cosa ci manca? A volte fra la realtà e le promesse di Dio c’è un abisso incolmabile, una distanza che ci rende difficile capire perché il Signore agisca così e che mette in luce tutta la nostra inconsistenza. Non possiamo comprendere le parole di oggi se non entriamo fino al fondo della nostra fame, se non entriamo nel clima di tensione, di attesa e di inquieta speranza che agitava la Palestina del suo tempo.
Gesù si rivolge a questa nostra fame, a quest’attesa anche angosciata del suo popolo, e le dà conferma: fate bene a credere alle promesse dei profeti e della Scrittura; fate bene a credere al bisogno più profondo del vostro cuore, a non rimpicciolire la misura del desiderio. Ma non si limita a rimandarci a un non meglio definito futuro in cui tutte le promesse si compiranno: in Giovanni indica il primo germoglio di una salvezza già in atto, di una profezia che già ora inizia a spalancare tutto il suo potenziale. Gli ebrei si aspettavano che Elia sarebbe sceso a preparare l’arrivo del Messia, ad iniziare la nuova era delle promesse di Dio… Ecco, dice Gesù: Giovanni non è un profeta come gli altri, è un Elia, è già l’inizio del compiersi della salvezza definitiva.
C’è una realtà, presente e percepibile nella vita di oggi, che in mezzo a tutta la nostra incompiutezza e alla nostra fame di senso ci apre già ora a un “di più”.
Harambet
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Fonte: Get up and Walk – il vangelo quotidiano commentato