Adorare. Per tre volte oggi ascoltiamo questa parola.
Fine. La prima volta la troviamo sulla bocca dei Magi, sapienti d’oriente, uomini che si mettono in cammino da dove sorge il sole: ad-orare, andare a pregare, è il fine del loro mettersi in moto. Forse posso percepire un contrasto tra la concretezza del camminare, fare strada, e il pregare che nell’immaginario comune di concreto ha ben poco. Una scia di luce unisce gli estremi di questo spostamento: a un estremo l’oriente di ogni alba, all’altro una stella che sorge su Betlemme. Luci con intensità diverse, che tracciano un pellegrinare dell’anima.
Turbato. Al centro del racconto è Erode a ripetere il termine adorare. Che senso può avere sulle sue labbra? Ma, più che il senso, Erode ci consegna ciò che gli procura: adorare è ciò che genera in lui turbamento. Apprendere da gente venuta da lontano che c’è un re in Giudea, che può essere adorato e che non è lui, lo turba. Tuttavia Erode non è uno sprovveduto, capisce che si tratta del Messia, dovrebbe saper collocare l’evento nel giusto piano; il Messia è il vero re, l’unto di Dio degno di adorazione, e la monarchia in Israele è un aggiustamento in vista del vero regno di Dio. Erode entra in uno stato di confusione: capita di chiedere al Signore di farsi presente nella nostra vita, ma quando ciò avviene e non corrisponde con i nostri calcoli – come Erode – possiamo essere turbati․․․
Prostrarsi. La meta di tanto camminare, il luogo indicato da un astro visibile da lontano, è una casa. Una madre col suo bambino la abitano. Disarmante regalità in uno squarcio di vita domestica al cospetto della quale si compie il fine dei Magi: adorare. Ecco un’altra azione che spiega come adorare, il prostrarsi: la sosta del corpo dopo il suo andare. E allora ecco la concretezza dell’adorare, il corpo disarmato davanti a Dio, lo sguardo basso e la mano di un bambino come carezza.
Dopo tanto cielo è la terra che mi abbraccia.
Giuseppe Amalfa SJ
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Fonte: Get up and Walk – il vangelo quotidiano commentato