La discussione che nasce tra i discepoli su chi fosse il più grande non ci è estranea.
Anche se a volte riusciamo a nasconderlo, ogni volta che c’è qualcuno accanto a noi tendiamo a misurare il suo valore e a compararlo a quello che noi pensiamo di valere. Il più delle volte da questi paragoni ne usciamo perdenti, perché ci misuriamo su quelle caratteristiche di noi su cui ci sentiamo più insicuri e vediamo che ciò che a noi manca negli altri invece abbonda. È da qui che nasce un senso di inadeguatezza e di tristezza da cui facciamo fatica a liberarci. A volte invece da questi paragoni usciamo vincitori: capita di dirci che siamo più belli, simpatici, intelligenti di altri. Allora ci riempiamo di superbia, giudicando duramente dentro di noi la persona che abbiamo davanti․․․ fino a che non troviamo uno migliore di noi (perché c’è sempre uno migliore di noi), e la tristezza torna.
I paragoni creano in noi tristezza e superbia, sempre, perché il problema non sono io o l’altro, è il fatto in sé di fare paragoni. Sono uno degli strumenti più usati dal nemico perché se ne esce sempre perdenti, carichi di sentimenti negativi. Il paragone trasforma l’altro in un avversario da cui difendersi e contro cui competere per vincere un premio che non esiste.
Il genio di Gesù è quello di mettere in mezzo un bambino facendo interrompere la competizione, perché chi mai penserebbe di entrare in competizione con un bambino? Gesù sa che se salta la competizione non esistono più avversari da vincere, lo sguardo si libera dal giudizio e ciò che manca all’altro non è più motivo di superbia ma invito a mettermi al servizio, alla vicinanza. Lo sguardo libero fa abbassare le mie difese e mi fa guardare alle mie imperfezioni come a quello spazio vuoto che ha bisogno dell’altro per essere completato.
Questo è il frutto dello Spirito: mostrarmi che l’altro non è un nemico da schiacciare, ma colui che se accolto mi rende pienamente me stesso.
Leonardo Vezzani SJ
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Fonte: Get up and Walk – il vangelo quotidiano commentato