La parabola dei talenti è parte degli ultimi racconti che Gesù, secondo Matteo, propone ai discepoli sul monte degli Ulivi; in queste parabole parla delle cose ultime, riferendosi però a ciò che va messo al primo posto e a ciò che va evitato. Si parla anche di cosa può andare male perché sapendolo si possa scegliere e agire in modo che vada bene.
In questo caso, la fine del terzo servo non è un esito da temere, cominciando a implorare misericordia al Signore. E non è neanche un finale che sta già scritto nel fatto di ricevere un solo talento. Sarebbe come dire che le ultime cose sono già scritte all’inizio: sarebbe solo questione di un destino, o un Dio talent scout spietato, che darà tanto ad alcuni, con in aggiunta la capacità di rischiare e di guadagnare ancora di più, e ad altri darà poco, perché tanto non saranno in grado di investire nemmeno quello.
La fine del terzo servo non sta nella quantità dei talenti ricevuti, ma nel suo scavare una buca a sé stesso prima che al talento. È proprio quella terra rimossa che copre tutto, che isola, che separa dal mondo, dalla storia, dagli altri a rappresentare la sua condanna. La terra può custodire un seme e farlo morire per far nascere una pianta. Ma la moneta sotto terra significa non aver capito nulla di quella moneta, di chi l’ha data, della sua natura.
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Il talento sotto terra così come l’amore, il tempo, la parola se non viene messo in circolo, vissuto, condiviso marcisce, si consuma, perde ogni valore. Scavare la fossa al talento è scavare la fossa a sé stesso. È non aver capito niente di una vita data in prestito perché sia condivisa con quel mondo che l’ha accolta e lì porti un frutto che possa essere riconsegnato al padrone, al Signore, a Colui che si fida e affida.
Leonardo Angius SJ
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Fonte: Get up and Walk – il vangelo quotidiano commentato