Ci sono momenti in cui dobbiamo imparare molte cose da capo: un inserimento in una nuova scuola, un trasloco, un cambio di lavoro, o, in modo più radicale, il matrimonio, la nascita di un figlio, l’ingresso in noviziato… Tali momenti speciali, pietre miliari nel cammino della nostra vita, Gesù li vive ogni giorno, si lascia interrogare da ogni persona che incontra: Gesù fa propria la sofferenza di un uomo che non può lavorare, che si sente diverso dagli altri, e proprio a partire da questa sofferenza si chiede che cosa significhi il comandamento del riposo sabbatico.
“Ci sono sei giorni in cui lavorare, il sabato appartiene a Dio”. Chi studiava la Torah, l’Istruzione di Dio, si era interrogato su che cosa significasse lavorare, e aveva diviso le azioni umane tra quello che era lavoro e quello che lavoro non era. Soccorrere una persona in pericolo di morte non era lavoro.
Ma Gesù sa di essere di fronte a una persona che non è in pericolo di vita. Sa che, secondo la legge, dovrebbe aspettare l’indomani per curarla. Sa, ma questo sapere non gli basta: riconosce che lasciare l’uomo così, non fare il bene oggi, significa fare il male, e non soccorrere quella vita è ucciderla.
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Dopo aver messo l’uomo dalla mano inaridita al centro di tutti, agisce. Si attira così l’odio di quanti non sono disposti a cambiare il proprio sapere per una persona che semplicemente si trova lì, nella sinagoga. La rigidità uccide. Lasciarsi ferire, mettere in discussione e cambiare, salva una vita, ma non la propria. Alla fine, queste sono le alternative. A noi la scelta.
Stefano Corticelli SJ
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Fonte: Get up and Walk – il vangelo quotidiano commentato