Certi tipi di veleno ti entrano in corpo e ti privano della forza di andare avanti, lentamente e in modo subdolo si fanno strada nella carne e dalle caviglie, da un passo che sembrava innocuo, infettano tutto. Colpiscono le gambe e le paralizzano, rendendo incerti i nostri passi, le braccia si chiudono in un ostinato silenzio, arrivano alle mani con cui offri una carezza, il cuore si ferma, la gola si chiude, la vista si appanna.
Il popolo guidato da Mosè si trascinava nel deserto senza fiducia e questo andare senza fiducia offre il calcagno ai serpenti che strisciano per terra cercando vittime. Mosè dovrà fare un simulacro, un serpente di bronzo, e innalzarlo su un’asta, perché guardandolo la gente possa guarire. Ci sembra un gesto inconsistente, privo di significato, di utilità, eppure è proprio questo gesto che ci permette di alzare lo sguardo dalla terra della nostra sofferenza. Solo davanti alla croce si capisce il senso di questo gesto.
Cristo innalzato per sollevare il nostro sguardo dalle nostre debolezze, Cristo morto che prende su di sé la nostra morte, i nostri veleni, Cristo uomo che per amore prende la forma del serpente, la forma del peccato, per risparmiarci le conseguenze del peccato, per renderci liberi. La croce per restare in vita, per imparare a consegnare nelle mani di Dio la nostra vita.
Guardare a Cristo sulla croce è l’atto di fiducia più estremo che si possa fare perché è disumano e incomprensibile restare a guardare un uomo che sta morendo per te. Lasciarsi sollevare la testa china fino a incrociare il suo volto, lasciarsi asciugare le lacrime, lenire le sofferenze, sciogliere i pugni chiusi, abbandonarsi a questo immenso. Non siamo soli. Non lo si può capire, ci si può solo consegnare, a Lui solo possiamo consegnare le nostre ferite.
Caterina Bruno
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Fonte: Get up and Walk – il vangelo quotidiano commentato