Il nostro corpo ha una memoria, tiene traccia di tutto; noi non ce ne rendiamo neanche conto, ma i nostri gesti, le parole che scegliamo, rivelano tutto: i pesi, le fatiche, le ferite. La pelle è ciò che ci fa da confine. Il confine di quest’uomo è stato violato e tutto il suo dolore si riversa fuori. Non può nasconderlo, non riesce a trattenere nulla. Non ha più nulla con cui coprirsi, nulla può bastare, perché la sua stessa carne cade in pezzi.
Senza un confine, ogni contatto diventa sofferenza, persino una carezza – per questo non gli resta altro che l’isolamento. Chi si vive come una maledizione non può che tenersi a distanza. C’è una regola non scritta a cui ci si attiene da sempre, che ci dice che è bene mostrarci forti, che è sbagliato chiedere aiuto, e invece è proprio infrangendo questa regola che il lebbroso può smettere di morire.
Dice «se vuoi» perché in fondo teme di non meritare quella cura. Ma nonostante questo trova il coraggio di chiedere quello che desidera di più, di chiedere una cosa impossibile, mostrandosi ai piedi di Gesù con tutto lo schifo che si porta dentro. Gesù non sopporta di vederci ridotti in questo stato, non ha paura di contaminarsi, e si fa carezza proprio dove fa più male. Prende il nostro posto, diventa lui l’uomo costretto a morire, a isolarsi, a stare fuori, perché, come spesso accade, poi noi dimentichiamo di fare quello che andava fatto.
La legge prevedeva che il lebbroso offrisse un sacrificio per la sua purificazione. E allora Cristo diventa quel sacrificio mancato – e il lebbroso, che prima si teneva in disparte, non può che essere viva testimonianza di salvezza. Il suo corpo è ora tutto un segno visibile di benedizione per gli altri, la sua pelle rifiutata è ora accolta.
Caterina Bruno
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Fonte: Get up and Walk – il vangelo quotidiano commentato