Il sabato santo è il giorno che intercorre tra la morte di Gesù e la sua resurrezione. Sembrerebbe un banale tempo di transizione, per noi che conosciamo la vicenda. Ma chi per chi l’ha vissuto la prima volta, non è stato così. In quel giorno, le persone che hanno visto Gesù morire in croce sanno cosa è successo, ma non sanno ancora cosa accadrà e rimangono con il fiato sospeso.
Per loro, il sabato santo è il giorno in cui essere costretti a “stare” in quella morte: non ci si può sottrarre. La sensazione è che tutto non sarà più come prima, ma non si riesce ancora a intravedere quale nuova piega prenderà la vita. Un tempo di sospensione che segue una situazione che ormai ha segnato la nostra esistenza e dalla quale non si può più uscire.
Quello del sabato santo, è il tempo dove sperimentiamo una certa impotenza rispetto a quello che è successo. Avremmo potuto prevedere, avremmo dovuto capirlo, avremmo voluto prepararci. Invece è successo così all’improvviso e ne siamo stati travolti. L’impotenza è quella scomoda sensazione per cui ci accorgiamo che la nostra esistenza non è pienamente nelle nostre mani, né come singoli, né come collettività.
Da qui, è facile cominciare a raccontarci una storia rassicurante e inquietante allo stesso tempo: se io sono impotente nel gestire la mia stessa vita, allora significa che oltre me esiste qualcuno più potente che può fare quello che io non posso controllare. Un dio che può fare il bello e il cattivo tempo a suo piacimento, senza nemmeno interpellarmi. Un tipo così è meglio che ce lo teniamo amico e facciamo qualcosa che può renderlo contento, così magari sarà benevolo con noi. Nasce il sacrificio, la preghiera di richiesta e contemporaneamente la paura di non avere fatto abbastanza e dunque il senso di colpa. Chiamiamo “grazia” quell’intervento, sporadico ma pur sempre benefico, con cui questo dio interviene in nostro favore. E chiamiamo “mistero” il modo incomprensibile con cui lui interviene nella nostra vita. Ecco la religione, che ci fa vivere la vita a partire dalla paura che l’impotenza sprigiona come suo veleno.
Il sabato santo è il tempo dell’immobilità. Ci sentiamo spiazzati perché il mondo si è rovesciato. Gli abbracci, i baci, le carezze, che prima erano segno di affetto e di cura, ora sono gesti che incutono timore. È successo anche a Gesù: con un bacio è stato tradito. L’isolamento, invece, viene implorato come atteggiamento di rispetto e di cura reciproca. Verrebbe quasi da dire: non c’è più religione!
Ecco, appunto, non c’è più religione. Forse è proprio così. Rimane però il sentire dell’uomo, che nel bene o nel male di questa vicenda si ri-scopre umano. Umano, quando il suo sguardo comincia a osservare particolari che prima sfuggivano; umano quando sente solidarietà con chi è in prima linea a combattere, anche se non lo conosce personalmente. Umano quando si stupisce di fronte alla natura che si riappropria dei suoi spazi (e dei nostri); umano quando si lamenta della sua libertà negata. Umano quando riscopre la bellezza del tempo gratuito; umano quando soffre per non poter salutare una persona cara che muore.
Ecco il sabato santo: un tempo che ci è consegnato come stra-ordinario per rivivere la nostra umanità. Un tempo che finalmente posso decidere come vivere. Posso riempirlo di tante cose da fare. Tanta creatività, tanto chiasso, tanta effervescenza. All’inizio tutti lo abbiamo fatto. Ma, a lungo andare, sentiamo che questo non ci lascia un gusto buono: finché concepiamo questo tempo come un contenitore da riempire, non c’è cosa interessante che possiamo intraprendere che poi non ci stanchi.
Possiamo vivere questo sabato santo come tempo di silenzio, dove l’impotenza diventa sospensione del fare e l’immobilità diventa persistenza dell’essere. Il silenzio attiva una modalità di sguardo unica capace di trasfigurare la realtà che mi sta intorno: la contemplazione. Il sabato santo è il tempo dove fermarsi a contemplare. E scopriamo che i nostri occhi sono fatti apposta per contemplare. In questa sosta, ci prepariamo alla resurrezione, una rinascita che non sarà automatica, né spontanea. Avverrà quando prenderemo consapevolezza della bellezza di questo sguardo contemplativo e ci decideremo a vivere la nostra vita per esso. Lì scopriremo che Dio ora vive dentro di noi.
Ecco il nuovo credente che si delinea all’orizzonte: colui che una volta passata la scena attuale, di fronte a un mondo che tenderà a regredire a quello di prima, avrà il coraggio di ricordare ciò che tutti hanno potuto contemplare almeno per un momento: che il nostro cuore ha ripreso a battere, che il nostro pianeta ha ripreso a respirare, che il regno di Dio è vicino. Forse ci renderemo conto che basta poco per creare un mondo migliore. Allora cominceremo a ricordare questo momento non come una disgrazia che ci è piovuta addosso, bensì come una benedizione che ci ha salvati. Proprio come è successo ai discepoli duemila anni fa…
Flavio Emanuele Bottaro SJ