È possibile notare una sorta di continuità tra quanto abbiamo contemplato nella solennità della Santissima Trinità e le letture di oggi; una continuità che non sorprende, poiché si tratta sempre dell’unico mistero di amore espresso nelle sue infinite sfaccettature. Domenica scorsa l’evangelista Giovanni ci aveva detto che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito”; oggi, parlando di Gesù, mette in risalto lo stesso verbo “dare”: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
Ci troviamo di fronte a un’affermazione dal significato densissimo. Un versetto prima Gesù si era autodefinito come “il pane vivo disceso dal cielo”, un pane che è in grado di garantire la vita eterna. Ora Egli promette di dare questo pane, ripetendo così l’atto del donare che caratterizza l’agire del Padre. Come questi aveva dato il Figlio a causa del suo “tanto amore” per il mondo, nello stesso modo il Figlio dà sé stesso al medesimo destinatario: il mondo, un mondo che necessita del suo dono per vivere. Ancora una volta Dio si manifesta a favore dell’uomo, donatore di vita, come è sempre stato fin dal momento della creazione, quando ha soffiato nella sua creatura “un alito di vita”. Anche nel Vangelo di oggi l’uomo riceve un dono da parte di Dio; non si tratta più del soffio ma del pane.
Gesù, che nel brano delle tentazioni si era rifiutato di trasformare le pietre in pane per non presentarsi – come avviene oggi per tanti falsi venditori di felicità – come colui che soddisfa i bisogni più primari dell’uomo, ora si propone alla folla come pane di vita. Di questo pane egli afferma esplicitamente che è la sua carne; un termine da intendere non tanto in senso letterale ma come quella condizione, in cui è inclusa anche la mortalità, da lui assunta al momento dell’incarnazione.
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Come dobbiamo interpretare tale dono? Oggi celebriamo la solennità del Corpo e del Sangue di Gesù e, di conseguenza, il primo rimando va giustamente al mistero dell’Eucarestia. Ancor prima, benché non in contrasto, le parole di Gesù possono essere considerate come un invito a una comunione, a una partecipazione di vita con la Sua persona. L’immagine del mangiare rimanda infatti a una appartenenza reciproca: il cibo è sostentamento per la nostra vita tanto che, una volta ingoiato, è impossibile distinguere ciò che è nostro e quanto proviene dall’alimento di cui ci siamo nutriti. Oltre a diventare parte di noi il cibo è anche essenziale per la sopravvivenza, è quanto ci fa vivere. All’uomo, però, non è sufficiente riempire il ventre e perpetuare l’esistenza; egli aspira a una vita eterna, quella di cui parla Gesù e che trascende l’autoconservazione. Il fine ultimo del dono offerto è, quindi, ben più grande e consiste nella possibilità di “rimanere” con Gesù.
Tale verbo ha un significato più ricco e profondo del semplice stare accanto, del sostare vicino a un’altra persona; esso ci introduce invece nello spazio di Dio, a cui possono avere accesso coloro che con fede si nutrono del Corpo e del Sangue del Signore. Per loro si apre infatti la possibilità di una comunione simile a quella che intercorre tra il Padre e Figlio, una comunione dove è eliminata ogni distanza e in cui l’accoglienza reciproca e il dono di sé si esprimono senza limiti e riserve. La solennità di oggi ci rivela così chi è il nostro Dio: Uno che vuole donarsi a noi fino a questo punto, condividendo con noi la vita che circola nel seno della Trinità.
Commento a cura dalla Fraternità della Trasfigurazione.
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Fonte – Arcidiocesi di Vercelli