Affrontare il tema della «misericordia divina» è argomento assai delicato, e spesso immensamente fuorviato.
Che il Signore sia sempre, sempre, «sempre pronto alla misericordia», pronto a perdonare, questa è certezza solida: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34).
Nondimeno ciò non significa che: «Il Signore perdona sempre» (purtroppo questa impostazione appartiene anche ad ambienti ecclesiastici, ovvero capita di ascoltarla pure in bocca a persone che frequentano, tra l’altro con fervore e fervida partecipazione, la pratica religiosa cattolica).
Dante Alighieri, invero, nella sua Comedia, ribadisce molto puntualmente: «ch’assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente» («non può essere assolto chi non si pente, e non è possibile pentirsi e voler peccare al tempo stesso, perché è una contraddizione in termini» – Inferno XXVII, 118-120).
E questa frase è, per giunta, in bocca ad un diavolo («un d’i neri cherubini». – Ibid., 113).
Il credere che: «Possiamo lasciarci andare, tanto il Signore non mancherà mai di perdonare tutto», altro non è se non il frutto dell’astuto e maligno scimmiottamento dell’acutissimo e sottilissimo demonio: «Forse tu non pensavi ch’io loico (abile ragionatore) fossi!» (Ibid., 123). -«Il diavolo è intelligente, sa più teologia di tutti i teologi insieme» (Cf. PAPA FRANCESCO, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 26 settembre 2014); «[…] il diavolo non è stupido, è molto intelligente, più di tutti i teologi: è un grande teologo il diavolo» (Cf. Ibid., 17 gennaio 2019)
Inoltre, rimanendo in tema di «misericordia divina», ci è stato insegnato fin dai primissimi incontri di catechismo, fin da quando eravamo bambini: «Non bisogna giudicare» (Cf. Mt 7, 1: «Non giudicate, per non essere giudicati»).
Tuttavia, Colui che affermava di non giudicare, è lo stesso che oggi dice: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo» (Mt 18, 15).
Siamo di fronte ad una incoerenza o cosa?
Dinanzi a tale questione, cerchiamo di trarre aiuto, come al solito, dalle parole presenti nel Vangelo di riferimento.
1-Il primo termine che ci preme evidenziare è il nome «fratello», che in greco è adelfós.
Sarebbe straordinario concentrare una profonda catechesi su codesto sostantivo.
In questa sede, però, ci interessa porre l’attenzione sulla sua accezione più profonda, ovvero sulla sua matrice di senso.
Il sostantivo adelfós, che ha la stessa radice di «feto», viene dal termine greco delfús che significa «utero».
La correlazione di senso non difficile da rintracciare.
Nondimeno ci è gradito andare un po’ più al di sotto; maggiormente al di dentro.
In ebraico esiste un termine molto forte, ovvero rahamím.
Questo intende propriamente le «viscere di misericordia di Dio», ed è espressione della parola rehém, ovvero esattamente «utero/grembo materno».
Di ciò dato atto, è molto interessante ritrovare in dissolvenza, nel nome adelfós, proprio il respiro di questi due nomi ebraici, che certamente erano in bocca a Gesù con costanza e persistenza.
Pronunziando adelfós, difatti, Gesù già lascia trasparire la predisposizione del Signore ad aprirsi al perdono, alla misericordia viscerale nei confronti dell’uomo.
A tal proposito, poderosa, nella sua estrema tenerezza, è la pronunzia di papa Giovanni Paolo I: «[Dio] E’ papà; più ancora è madre» (Cf. Angelus Domini, 10 settembre 1978).
Ebbene: sin qui sembra che tutto fili liscio.
2-Il problema, però, sembra sorgere nel momento in cui Gesù usa il termine «ammoniscilo».
Il verbo greco adoperato è elégcho.
Correttamente tradotto con «ammonire», tale lemma, tuttavia, va ben argomentato e compreso nel suo pieno senso.
Partiamo dall’italiano.
Dal verbo in questione (elégcho) viene il nostro sostantivo «elenco».
Esso è in buona sostanza una lista, una registrazione: ma una «lista/registrazione» altro non è se non un «manifestare», un «dimostrare».
Ebbene, il verbo greco elégcho esprime esattamente questo: esso infatti vale, nella sua sostanza di fondo, «provare/esaminare/investigare» (da cui, poi, con facile naturalezza, si giunge, data una appropriata evoluzione semantica, al significato di «ammonire»).
Ecco, allora, che nel versetto in questione (Mt 18, 15) non siamo dinanzi a quel semplicistico approccio di «giudizio», il quale spesso viene confuso con «condanna», poiché da elégcho non promana una cruda ed altezzosa tracotanza.
Invero elégcho veicola certamente un «biasimo»; ma più precisamente un «biasimo che invita (non impone) l’interlocutore a rendersi consapevole di un proprio vituperio che viene reso manifesto, che viene dimostrato». -Suscitiamo il lettore a porsi (o forse se la stava già ponendo) la seguente domanda: «Ma per tradurre un verbo, occorre tutta questa circonlocuzione?». Ebbene, ecco la funzione di «iniziarsi» alla fede cattolica. Invero, per ben comprendere le Sacre Scritture, la Parola di Dio, non basta il catechismo frequentato da bambini; non bastano le varie (ottime, sia ben chiaro) traduzioni in lingua corrente che si ascoltano o si leggono (le quali naturalmente saranno sottoposte di continuo a modifiche ed aggiustamenti, ai fini di una sempre migliore adeguatezza ai tempi; adeguatezza, tuttavia, che non sarà mai piena ed esaustiva: «Tradurre è tradire»): occorre «iniziarsi» alla fede, che non è un semplice sentirsi «ammessi» (entrare), bensì l’essere «im-messi» (penetrare). Solo così il gheriglio della nostra fede può essere maggiormente svelato ed assaporato; e solo così la fede potrà pervadere «prepotentemente» la nostra vita (Cf. I Lettura di domenica scorsa: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso» – Ger 20, 7; Cf. At 9, 3-4: «E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?”»)
Anche per codesto verbo (elégcho), inoltre, siamo a richiamare due espressioni ebraiche che emergono in trasparenza.
La prima è la radice darásh (da cui il termine midrásh, ovvero «indagine esegetica della Scrittura»), che intende tecnicamente «scrutare/investigare/consultare».
Ecco come in quell’«ammoniscilo» (elégcho) di Gesù è possibile ascoltare il sussurro di codesto verbo ebraico (darásh), che tende decisamente alla «ricerca della verità» (valore tanto proclamato nelle aule di tribunale, ma spesso così poco praticato), ad una maggiore «comprensione della verità»; non ad un cavilloso macchinare o ad un subdolo tramare.
La seconda ci conduce ad una pratica giuridico-processuale ebraica chiamata rív.
Tecnicamente rív è una lite giudiziaria, ma ha una sua interessantissima specificità: è «una controversia a due (parti processuali) che tende ad una riconciliazione» (ben contrario al mishpát, che invece è «lite che tende alla condanna»).
Ecco allora, come in quell’«ammoniscilo» di Gesù sia riscontrabile decisamente quest’accezione di «lite/controversia», quest’accezione di «giudizio», che non tende al mishpát, bensì al rív, ovvero a dirsele di tutti i colori (perché nel rív ci si pone assolutamente in forte dibattito, in forte contrasto, finanche a dirsele di ogni sorta), avendo, però, come fine quello del riavvicinamento, della riconquista della concordia andata perduta (il fatto di «dirsele di ogni sorta», nel rív esprime non il vomitare contro l’altro lo spezzante disprezzo dell’odio, quanto piuttosto la foga di quel desiderio di accordo e di unione al momento assenti, ma di cui si va ardentemente in ricerca, in recupero).-Facciamo notare con molto, molto interesse, come tale pratica del rív possa essere una delle chiavi interpretative per il famigerato episodio della cosiddetta «Cacciata dei mercanti dal Tempio» da parte di Gesù, nel quale è esattamente scritto come il Signore, in quell’occasione, fosse propriamente animato non dalla cieca ira dell’odio, ma da «Lo zelo (passione ardente) per la tua casa mi divorerà» (Gv 2, 17). Chiaramente, di converso, il processo del Sinedrio contro Gesù non è per nulla un rív, bensì pienamente un mishpát. Ci è gradito rilevare, poi, ma solo dandone cenno senza approfondire, come le caratteristiche del rív siano riscontrabili anche in un altro versetto del Vangelo odierno, ovvero Mt 18, 19: «In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo (in greco è sumfonésosin, tecnicamente «suoneranno-insieme» ovvero «avranno lo stesso suono/voce») per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà»
Giunti a conclusione, facciamo notare al lettore un altro appunto, circa il quale costui è già perito.
Nel versetto che oggi ci ha fatto da guida, ovvero Mt 18, 15, c’è un’espressione verbale che abbiamo imparato a conoscere la volta scorsa: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo».
Il verbo adoperato per «va’» è esattamente upágo, che abbiamo detto significare «condurre (ágo)-sotto (upó)»;
che abbiamo detto essere un «ordine» che concerne il «fare la scelta tra il Signore e il maligno».
Ecco, dunque, che Gesù ci sollecita ad andare ad ammonire il fratello sempre con atteggiamento di «umiltà» (upó – «sotto»), poiché io sono «fratello a mio fratello» (ovvero «ammonitore non esente dall’incorrere in ammonimento a suo volta»);
tuttavia questo condursi «con umiltà» ad ammonire il fratello non è un’imposizione da parte del Signore, poiché siamo e saremo sempre liberi di scegliere (ma la scelta, questa si, va fatta!) se rendere testimonianza al rív di Gesù Cristo o al mishpát del maligno.
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.