Non finiremmo mai di scrivere, se dovessimo soffermarci su ogni dettaglio della pericope odierna.
Difatti la narrazione dell’Ultima Cena -alcuni studi ipotizzano come il Cenacolo fosse la casa della famiglia dell’evangelista odierno, ovvero Marco è gravida di richiami storici e rimandi teologici.
Da notare, infatti, come in questa narrazione marciana siano presenti, netti e chiari, innanzitutto dei riferimenti legati propriamente alla tradizione culturale-storica ebraica.
Il primo è certamente il richiamo alla recita della benedizione (cf. Mc 14, 22: «E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”»), che rimanda direttamente alla proclamazione della berachà («benedizione» in ebraico), o meglio delle varie berachòt («benedizioni»), che gli Ebrei ritualmente recitano nella celebrazione della Pèsach («Pasqua» in ebraico); berachòt , comunque, che per gli Ebrei non sono solamente formule che si recitano durante i riti o in specifiche occasioni, ma fanno parte del “parlare corrente” del pio ebreo (a noi, invece, appartengono, purtroppo, altri intercalari correnti…). Difatti gli Ebrei benedicono Adonài («Il Signore» in ebraico) in ogni modo e maniera, per qualsiasi cosa, in ogni momento della giornata (ad esempio si pronunciano berachòt quando si sente un tuono o si vede un fulmine o un arcobaleno). –cf. Mc 6, 41: «Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione [in greco è eulógesen], spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti». Rileviamo altri dettagli dal Vangelo odierno. La richiesta di avere un luogo per «mangiare la Pasqua» (cf. Mc 14, 12.14) non era una singolarità, poiché, durante la celebrazione di Pèsach, era prassi per gli abitanti di Gerusalemme riservare e tenere a disposizione una stanza della casa per coloro che, in pellegrinaggio, salivano alla Città Santa, lasciando le proprie abitazioni. Interessante rilevare, ancora, come l’uomo «con una brocca d’acqua» (cf. Mc 14, 13) potrebbe essere un appartenente alla comunità degli Esseni (non era consuetudine, infatti, che l’incarico di attingere l’acqua fosse assegnato agli uomini; ma nella comunità degli Esseni le donne non c’erano, quindi tale incarico spettava per forza agli uomini). Inoltre, il luogo dove ad oggi è riconosciuto il sito del Cenacolo si ritiene che fosse situato proprio nel quartiere esseno di Gerusalemme (comunque, ci limitiamo solamente a riportare, senza confermare o ribadire, queste tesi in merito agli Esseni, facendo infatti presente come nel testo evangelico questo dato personaggio sia descritto semplicemente come «uomo con una brocca d’acqua», senza alcun riferimento all’attingere o altro)
Proseguendo nell’analisi del Vangelo odierno, notiamo come nel testo ci sia esattamente il termine “Eucaristia”: «Poi prese un calice e rese grazie» (Mc 14, 23).
L’atto del «rese grazie», infatti, è reso col verbo eucharistésas (letteralmente «bene/buono [eu] – grazia/ringraziare [cháris]»). -Interessante notare come in un altro racconto evangelico della moltiplicazione dei pani non ci sia la “benedizione” (come visto sopra), ma il “rendimento di grazie”: «Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie [eucharistésas], li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano» (Gv 6, 11). Certamente il “pronunciare la benedizione” (sul pane – cf. Mc 14, 22) e il “rendimento di grazie” (sul calice – cf. Mc 14, 23) possono essere considerati sinonimi, ovvero una medesima pratica all’interno dello stesso rito (nel caso di specie del Vangelo odierno il rito di Pèsach), nondimeno si potrebbe rilevare, in questa “duplicità”, da una parte (berachà – nel greco del Vangelo odierno si usa il verbo eu-logéo [letteralmente «bene/buono-dire»] ) il voler sottolineare l’appartenenza propria di Gesù al mondo ebraico (è indiscutibile come Gesù fosse un ebreo), dall’altra parte, adoperando il termine visceralmente greco eucharistésas (si poteva benissimo usare nuovamente eulogéo, il quale, però, pur se anch’esso sia termine prettamente greco, tende, in tal caso, ad essere adattato come calco dell’ebraico), il voler evidenziare l’apertura di Gesù alle cosiddette “genti”. Da notare anche come eu-charistéo (da cui eucharistésas) sia costruito lessicalmente come eu-logéo: sarebbe stimolante scrutarne il parallelismo ma anche indagarne le rispettive particolarità distintive. Ma non sarà questa l’occasione per farlo
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Facendo un altro cenno ad un’altra nota storica (ma in tal caso anche teologica), è suggestivo rilevare come in Mc 14, 14 Gesù dica: «Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”», mentre in Mc 14, 15 Gesù prosegue, specificando: «Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta».
Dove sta la suggestione?
Ebbene, il termine greco adoperato in Mc 14, 15 è anágaion, letteralmente descrive uno «stare/andare in alto da terra»). -Molto interessante notare come la “stanza al piano superiore”, cosa che anche noi consideriamo tale, era l’ambiente “migliore”, più pulito ed igienico, che certamente evitava la commistione con gli spazi adibiti per gli animali (pensiamo anche alle case coloniche dei nostri nonni: di certo le stalle non stavano al piano superiore). Inoltre nella stanza al piano superiore c’era usualmente la “stanza per antonomasia” della casa, ovvero la camera nuziale
Il termine del versetto 14, invece, che viene tradotto con «stanza» (che poteva essere benissimo ripetuto da Gesù, ma così non è stato), è katáluma, che letteralmente tratteggia uno «sciogliersi verso il basso»: movimento diametralmente opposto rispetto a anágaion.
Invero è Gesù stesso ad incarnare, in sé, queste incongruenti ed opposte duplicità. Difatti Egli è Colui che pur essendo Dio (alto) si è svuotato nella condizione di servo (basso: cf. Fil 2, 6-7); è Colui che è morto in croce, subendo la condanna più infima, ma allo stesso tempo l’affissione in croce è un vero e proprio innalzamento; è Colui che ha pienamente svelato il senso compiuto del termine ebraico kavòd, termine che intende sia «pesantezza» sia «gloria» (la Croce, infatti, pesava sulle sue spalle – cf. Gv 19, 17, essendo allo stesso tempo il suo trono di gloria – cf. Gv 19, 30. Nella tomba, poi, le sue vesti rimasero posate là, “appesantite” nel loro essere sgonfie, poiché Egli era “gloriosamente” risorto)
Ebbene, venendo alla parola oggetto del nostro odierno commento, vogliamo trarla da Mc 14, 26:
«Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi».
Anche qui siamo in tema prettamente ebraico.
Difatti il cantare l’inno era usanza tipica ebraica che anima e conclude il sedèr pasquale (col termine ebraico sèder letteralmente si intende «sequenza/ordine» con cui si svolge la celebrazione della cena pasquale).
Dato ciò, la circonlocuzione sopra evidenziata è resa, nel greco originario del testo evangelico, con un unico termine, un unico verbo, ovvero ymnéo.
Questo verbo, che intende propriamente «cantare/celebrare/inneggiare», può avere due scenari di senso molto interessanti.
Esso, infatti, è connesso al nome ýmnos, che significa «canto/inno», ma quest’ultimo nome ha una derivazione discussa.
Invero il sostantivo ýmnos è riconnesso certamente al nome Ýmen che è propriamente «Imene – canto nuziale».
Nondimeno è possibile che ci sia anche un legame con un altro nome, scritto allo stesso modo, ovvero sempre ýmen, che significa letteralmente «membrana» –ma non è forse vero che con il termine «imene» intendiamo quella membrana femminile legata proprio al rapporto coniugale? ma la sua radice arcaica vale esattamente «legare/cucire» -ma non è forse vero che gli inni venivano accompagnati da strumenti musicali spesso fatti proprio con le membrane animali (es. il tympanum)? E non è forse vero che il matrimonio è esattamente un legame, così come il legame per eccellenza è proprio il rapporto coniugale?
Ebbene, ecco come nel Cenacolo si sia stretta la nuova-seconda Alleanza (ovvero si sia celebrato il compiuto-definitivo “matrimonio”) tra Dio e l’uomo, ed ecco come la cosiddetta festa del Corpus Domini abbia valore certamente nell’ottica della Passione di Gesù Cristo, ma sia propriamente connessa anche all’unità coniugale-matrimoniale-sponsale, tanto universalmente tra Dio e l’uomo (essere umano), quanto particolarmente tra uomo (maschio) e donna («Ma dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola» – Mc 10, 6-8).
Difatti, se domenica scorsa (Solennità della Santissima Trinità) abbiamo celebrato l’Unità Trinitaria di Dio, non poteva esserci data migliore se non quella odierna per considerare la celebrazione e contemplazione dell’unità sponsale tra uomo e donna, immediata e diretta proiezione dell’Unità Divina.
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.