È risaputo come il Vangelo secondo Giovanni sia particolarmente profondo e richieda un approccio assai attento, ovvero una scrutatio molto molto accorta.
Nel testo giovanneo storia e kérygma (annuncio teologico) si armonizzano in una ineffabile sinfonia, e il racconto di questo Vangelo (come anche per gli altri tre, nonché per l’intera Sacra Scrittura) pur se storia, non va letto solo come storia; e pur se kérygma, non va letto solo come kérygma.
Tale “con-fusione” non deve spaventare, anzi, se presa nel suo senso primario e letterale deve essere cercata e sostenuta quando ci si trova al cospetto della Parola di Dio (il latino cum-fundo intende «riversare insieme/mettere insieme»), nondimeno a causa di questa medesima “confusione” (nel suo senso derivato di «turbamento per assenza di chiarezza») non è sempre facile spiegare, con modi e termini immediatamente comprensibili, quanto è contenuto nei Testi Sacri.
A maggior ragione oggi, che siamo dinanzi alla narrazione dell’Evento per antonomasia: la Risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo.
Leggendo o ascoltando il testo odierno secondo Giovanni, notiamo come Pietro e l’altro discepolo -La Tradizione ha identificato fin da sempre quest’ultimo con lo stesso evangelista Giovanni, ma in nessuna riga del quarto Vangelo viene mai dato un nome a questo specifico discepolo. E questo vacuum narrativo ha dato adito e opportunità a stravaganti proposte di avanzare variopinte individuazioni, riconoscendo in questo misterioso discepolo tanto Lazzaro quanto, addirittura, Maria Maddalena. Per quel che ci riguarda siamo ferrei nel rifarci alla Tradizione, dato che questa è strettamente connessa alla Parola di Dio e dato che entrambe, Tradizione e Parola di Dio, scaturiscono dalla stessa sorgente divina, per divenire una cosa sola che tende allo stesso fine (cf. Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Dei Verbum; Catechismo della Chiesa Cattolica, 80), entrando nel sepolcro vuoto, videro un qualcosa di “strano” che, però, fu decisivo per credere.
Ma cosa videro di così decisivo?
Onestamente il testo evangelico in traduzione italiana, così come lo ascoltiamo o leggiamo, non riesce a rendere l’idea di ciò che dovrebbe essersi manifestato agli occhi dei due personaggi sopra menzionati entro quel sepolcro gerosolimitano, tanto da turbarli, prima, quanto da convincerli, poi, della Risurrezione.
Spesso, come ci è consueto, facciamo riferimento al greco originario dello scritto, per cavarne un senso più letterale, preciso e profondo. Tuttavia in questa occasione non basterebbe neanche il greco.
La “colpa” della insufficiente comprensione del Vangelo odierno, comunque, non è né dei traduttori né dello scrittore sacro, bensì dell’Evento: come si può, infatti, descrivere l’indescrivibile, ovvero racchiudere in parole l’indecifrabile e sconvolgente “trasumanare” della Risurrezione di Gesù? -Cf. D. ALIGHIERI, Paradiso, I, 70-72: «Trasumanar significar per verba non si poria; però l’essemplo basti a cui esperienza grazia serba»
Invero, leggere letteralmente il testo greco originario del Vangelo di questa domenica di Pasqua potrebbe aiutare ad avvicinarci maggiormente all’esperienza provata e vissuta da Pietro e l’altro discepolo, tuttavia se si restituisse una sua resa letterale in traduzione italiana, questa risulterebbe molto incastrata e difficoltosa (occorrerebbe inventarsi persino dei neologismi appositi), poiché non è facile trasporre in maniera comprensibile (tanto in lingua originale, quanto, figuriamoci, in una traduzione) l’inquietudine e lo sconcerto di coloro che sperimentarono l’assenza di un corpo che eppure c’è ma che non c’è più, ovvero la presenza di un corpo che palesemente non c’è eppure è impossibile che non ci sia.
Come negare il fatto che queste due frasi evidenziate siano strane e fastidiose alla comprensione: ci perdoni il lettore, ma questo è un modo per tentare di rendere con una certa qual logica, l’illogicità di quanto videro (e credettero) i due testimoni della Risurrezione, ovvero per tentare di rendere il più adeguatamente possibile il greco originario del Vangelo di Pasqua.
Ebbene, dato che non possiamo proporre un trattato di esegesi o teologia, in questo piccolo scritto proviamo a sottoporre alla nostra analisi “solamente” -Solo per questi due versetti sono state scritte biblioteche di commenti, eppure neanche la somma di tutte queste produzioni riesce a soddisfare compiutamente la piena comprensione del tema i versetti 6 e 7 del capitolo 20 secondo Giovanni (li riportiamo in colonna per rilevare le sezioni di analisi):
«(6)Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò
1 – i teli posati là,
2 – (7)e il sudario – che era stato sul suo capo –
3 – non posato là con i teli, ma avvolto
4 – in un luogo a parte».
1 – In merito al citatissimo «i teli posati là» (in greco tà othónia keímena), l’orientamento generale volge oramai a giacere cheto sul fatto che l’Evangelista intenda propriamente «il lino funerario (tà othónia) sgonfiato (keímena)», dove con l’aggettivo «sgonfiato» si intende tentare di descrivere il fatto di come quel corpo involto all’interno di quel lenzuolo (la Sindone?) fosse assente pur se era evidente e provato il fatto che non c’era stato alcun movimento ovvero alcuna manovra di estrazione.
2 – Secondo noi è fortissimamente interessante scrutare, con molta cura, quanto viene appresso, a partire da «il sudario – che era stato sul suo capo -» (in greco tò soudárion ò ẽn epì tẽs kefalẽs autoũ).
Circa tale frase, vogliamo fare una precisazione sul verbo «era stato (ẽn)».
La traduzione col trapassato prossimo («era stato») è certamente ammissibile, dato che in greco l’imperfetto (ẽn) può tendere addirittura al passato remoto. Tuttavia l’imperfetto greco esprime principalmente il concetto della durata, nel passato, di un’azione, ovvero un’azione che era in corso di svolgimento in un dato momento passato, o anche un’azione abituale nel passato.
Detto ciò, la resa in traduzione del greco ẽn, nel caso in oggetto, sarebbe opportuno trasfonderla proprio con l’imperfetto italiano. Quindi, la trasposizione preferibile, secondo noi, è: «il sudario – che era sul suo capo –».
Adesso, pian piano, possiamo iniziare a comprendere, con una progressiva escalation enfatica, ciò che videro Pietro e, poi, l’altro discepolo.
Difatti (invitiamo il lettore a meditare con molta concentrazione sui vari passaggi-sfumature che man mano avanzeranno), c’è una bella differenza tra l’osservare «il sudario – che “era stato” sul suo capo -» (azione passata e conclusa), con l’osservare «il sudario – che “era” sul suo capo -» (azione continuativa): il sudario continuava ad essere ancora poggiato sopra il viso di quel corpo che ineccepibilmente non c’era (il lino funerario era chiaramente sgonfiato, svuotato, vuoto) eppure era impossibile che non ci fosse, altrimenti il sudario non poteva “continuare a poggiare”.
Ma in che modo “poggiava”?
3 – Seguitiamo a guardare assieme a Pietro: «non posato là con i teli, ma avvolto» (in greco ou metà tõn othoníon keímenon allà entetuligménon).
Dal punto 1 di cui sopra, già sappiamo come la traduzione della prima parte di questa frase sia da rendere con «non sgonfiato con il lino funerario (la Sindone?) (ou metà tõn othoníon keímenon)».
Proviamo, quindi, ad interessarci del verbo entetuligménon («avvolto»).
Tale termine, declinato da en («in/dentro») + tulísso («avvolgere») è espressione del sostantivo túlos che intende esattamente «protuberanza dura/callosità».
Ecco, allora, come quel sudario che era sul capo di quel corpo non fosse poggiato (inteso come “riposto”), ma fosse propriamente poggiato (inteso come “sostenuto/sorretto”) e avesse propriamente forma/sagoma del e dal suo sostegno: questo drappo non era sgonfiato assieme al lino funerario, ma era «incallito/incrostato/corrugato/escrescente (tulísso) dal capo che continua a riempirlo e a sagomarlo da dentro (en)», il quale capo, però, era ineccepibile che non ci fosse più, poiché era chiaro e manifesto come il lenzuolo fosse vuoto di quel cadavere.
Ed ecco, allora, che la visione di Pietro assume sempre più sconcerto, in quanto NONOSTANTE TUTTO È, NON C’ERA; in quanto NONOSTANTE TUTTO NON C’ERA, È.
4 – Ma progrediamo a guardare con Pietro: «a parte» (in greco chorìs).
Questo avverbio tende a sviare e a creare enorme confusione.
Ma a chi è riferito?
Ascoltando o leggendo la traduzione in italiano («in un luogo “a parte”») questo termine sembra essere direttamente connesso a «in un luogo».
Tuttavia, penetrando il suo significato profondo, possiamo individuarne il tratto pieno e determinare come vada precisamente sistemato.
Orbene, chorìs esprime in sé l’aggettivo chẽros il quale significa propriamente «vedovo/privo/vuoto».
Ecco che codesto avverbio, quindi, non è una semplice indicazione, una mera collocazione, uno statico dettaglio spaziale, ma si anima: diviene descrittivo; risulta decisivo.
Inoltre anche l’ordine delle parole in cui è scritto il greco originario del testo ci aiuta a decifrare il senso più adatto di chorìs, nonché ad individuare il destinatario proprio della caratteristica espressa da chorìs.
La sequenza greca della riga in questione, infatti, sarebbe così: allà («ma») chorìs («vedovamente») entetuligménon («corrugato») eis éna tópon («in un luogo»).
Ebbene, è il sudario che si allaccia a chorìs: è il sudario il “vedovo”; è il sudario che, pur nella sua manifesta “vedovanza” dal capo, continua ad essere irrigidito da quel capo mai ri-mosso eppur mosso.
Ci rimane la formula «in un luogo» (in greco eis éna tópon).
Non possiamo soffermarci su ogni sfumatura di senso di questa circonlocuzione. Ci bastino solo due minimi riferimenti chiave.
Il primo è che «un (éna)» non è articolo indeterminativo ma numerale, ovvero il numero 1.
Ma per gli Ebrei il numero 1 è riferito fortemente a Dio: «Ascolta Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è uno (in ebraico ehad)» -Lo Shemà [«Ascolta»] è la preghiera liturgica ebraica più sentita (Pietro era ebreo)
Il secondo riferimento rimane su questa scia.
Il sostantivo greco tópon indubbiamente vale «luogo», ma arriva a respirare il termine ebraico Hammakom («luogo» appunto). Ma per la tradizione ebraica dire Hammakom era pronunciare il nome di Dio: «Il Luogo», infatti, era uno dei nomi di Dio. -Ribadiamo ancora come Pietro fosse ebreo
Ecco, allora, come quel sudario sorge poderosamente in tutta la sua pienezza e forza, poiché non era uno straccetto piegato in un cantuccio (come a tutti viene da figurarcelo dalla traduzione che ascoltiamo o leggiamo), ma era vedovamente corrugato «in 1 Dio/in Dio che è 1/sull’Unico Dio», IL CUI CORPO NON C’ERA MA È, POICHÉ HA ATTRAVERSATO LA MORTE SGONFIANDOLA CON LA PIENEZZA DELLA SUA RISURREZIONE.
E Pietro e l’altro discepolo riconobbero lo Stare dell’assenza di Colui che è. -Da rilevare come «stare» in greco sia (an)ístemi, ovvero il verbo che si adopera per dire «risorgere/risurrezione» (cf. Gv 11, 24-25. 20, 9)
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.