Dinanzi al Prologo del Vangelo secondo Giovanni e a tutta la sua ineffabilità, ogni commento risulta insufficiente ed insoddisfacente (cf. SANDALO).
L’omelia più efficace per un sacerdote, in questi casi, sarebbe non fare l’omelia.
Spesso, infatti, dinanzi alla Parola di Dio, più che adoperarsi in tante chiose, l’omileta farebbe bene ad esercitarsi esclusivamente a leggere bene.
La Parola d Dio, invero (e quante volte ce lo siamo detti), è viva e sempre nuova, e non ha destinatari remoti o ipotetici, poiché parla singolarmente e specificamente a ciascuno che la sta ascoltando in quell’attimo esatto, in quel preciso istante, in quel puntuale momento. E se la Parola di Dio viene letta per bene (tanto dal sacerdote quanto dai lettori), questa non sollecita solo i ricettori dell’orecchio, ma fa vibrare visceralmente le intime corde del cuore, suscitando nell’ascoltatore la più sublime di tutte le omelie, ovvero quella che viene direttamente dal proclama della Parola di Dio stessa, la quale si rivolge ad ogni singolo ascoltatore quale fosse l’unico destinatario della sua voce, il quale, a sua volta, accoglie la Parola di Dio come se questa parlasse proprio a lui solo, proprio di lui solo.
Detto ciò, dato che a noi è dato di proporre comunque un breve scritto, cercheremo di limitarlo ad alcuni piccoli cenni esegetici. E tali cenni ammiccheranno ad un verbo greco dal significato apparentemente semplice: lambáno.
Nei diciotto versetti che compongono il Prologo secondo Giovanni, il verbo lambáno è presente quattro volte, ovvero in Gv 1, 5.11.12.16.
Tuttavia c’è una particolarità da notare: in due di questi quattro versetti, il verbo lambáno è accompagnato da una preposizione.
Vediamo insieme:
«la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta (katé-laben)» (Gv 1, 5);
«Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto (paré-labon)» (Gv 1, 11);
«A quanti però lo hanno accolto (élabon)
ha dato potere di diventare figli di Dio […]» (Gv 1, 12);
«Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto (elábomen):
grazia su grazia» (Gv 1, 16).
Il verbo lambáno, che significa propriamente e nel suo senso fondamentale «prendere/ricevere», soprattutto con riguardo al versetto di Gv 1, 5 ha sollecitato esegesi molto interessanti su cui non ci soffermeremo in maniera approfondita.
Richiamiamo solamente la versione CEI 1974 che traduce così: «la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta», e ciò è ad intendere, validamente, con «le tenebre non l’hanno compresa».
Invero l’Evangelista non è conforme ad una traduzione piuttosto che ad un’altra, ma le regge entrambe, in quanto le tenebre non hanno compreso la luce e l’hanno rifiutata (non accogliendola – CEI 1974), nondimeno non sono riuscite a vincerla (CEI 2008). -Sarebbe da approfondire anche la sfumatura di senso che rende fortemente vicini, ma immensamente distanti, i due significati letterali sopra menzionati di lambáno, ovvero «prendere» e «ricevere». Difatti con «prendere» l’azione è tendenzialmente “attiva”, mentre con «ricevere» è paradossalmente l’opposto, ovvero “passiva”
Torniamo alla nostra suggestione: come mai in Gv 1, 5.11 il verbo lambáno è accompagnato da una preposizione, mentre in Gv 1, 12.16 no?
Ebbene, kata-lambáno (da cui la coniugazione katé-laben di Gv 1, 5), possiede la preposizione katá che descrive un movimento direzionale «dall’alto verso basso».
Ecco che, letteralmente, il verbo kata-lambáno avrebbe quale significato proprio quello di «prendere da sopra/ricevere ponendosi sopra».
Il secondo verbo, poi, ovvero para-lambáno (da cui la coniugazione paré-labon di Gv 1, 11), possiede la preposizione pará che delinea un tracciato indicante «presso/attorno».
Ecco che, letteralmente, il verbo para-lambáno avrebbe quale significato proprio quello di «prendere presso/ricevere attorno».
Negli altri due versetti, invece, ovvero Gv 1, 12.16 (élabon e elábomen), il verbo lambáno è privo di qualsiasi aggiunta.
Cosa si può rilevare da tutto ciò?
Ebbene, possiamo notare come le due situazioni in cui sono presenti le forme composte di lambáno (Gv 1, 5.11) descrivano occasioni “negative”, di diniego della Luce, di dissociazione dal Verbo, mentre gli altri due contesti, in cui lambáno è presente senza alcuna rielaborazione (Gv 1, 12.16), segnino vicende “positive”, di piena apertura alla Luce, di vero e proprio assorbimento del Verbo.
Dove può portarci questa lettura?
Ebbene, quante volte ci capita di “rielaborare” il Signore, volerlo “addizionare” di significati secondi-terzi-quarti, comprese anche molte e(i)segesi (cf. LUCA 1 VERSETTO 29), magari in buona fede per tentare di capirlo meglio («Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto [paré-labon]» – Gv 1, 11), o purtroppo per scimmiottarlo e contraffarlo («la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta [katé-laben]» – Gv 1, 5)?
Il Signore non deve essere adulterato: non dobbiamo aggiustarlo affinché Egli torni nei nostri conti.
Il Signore, infatti, va accolto nella sua asciutta ma autentica sostanza, ovvero va preso direttamente con ferma fede e senza alcuna vergogna («A quanti però lo hanno accolto [élabon] ha dato potere di diventare figli di Dio […]» – Gv 1, 12) e va ricevuto direttamente con pieno abbandono («Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto [elábomen]: grazia su grazia» – Gv 1, 16). -Interessante notare come Gv 19, 27 si possa richiamare alle note che abbiamo ora sottolineato: «Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse (élaben) con sé». Ecco che il «discepolo che egli amava» (Gv 19, 26), che la Tradizione identifica con l’Apostolo Giovanni, proprio sotto la croce capì come l’incarico che Gesù gli stava affidando andasse propriamente “preso (élaben)” senza nulla aggiungere; capì come le parole del Crocifisso dovessero essere decisamente “ricevute (élaben)” senza nulla premettere. Rileviamo, poi, come il «con sé» di Gv 19, 27 sia lo stesso di «fra i suoi» di Gv 1, 11, ovvero il greco eìs tà ídia. Ecco che il «discepolo che egli amava» fu quello che, fra i suoi, non abbandonò Gesù nel Getsemani, “prendendolo fino a quando, e quanto, era in grado di comprenderlo” (para-lambáno), ma lo seguì al Gòlgota amandolo fino al fine (cf. Gv 13, 1), quindi “ricevendolo con sé fino all’incomprensibilità della Croce” (lambáno). Notiamo ancora, poi, come nell’Ultima Cena, nelle parole di Gesù ci sia sempre e solo lambáno, poiché la volontà del Padre fu dal Figlio “presa direttamente e ricevuta decisamente” (cf. Lc 22, 42) senza “rielaborazione” o “adulterazione” (preposizione) alcuna: «Ora, mentre mangiavano, Gesù prese (labòn) il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: “Prendete (lábete), mangiate: questo è il mio corpo”. Poi prese (labòn) il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti» (Mt 26, 26-27); «E, mentre mangiavano, prese (labòn) il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete (lábete), questo è il mio corpo”. Poi prese (labòn) un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti» (Mc 14, 22-23). Ecco, poi, che con quel «prendete» che Gesù rivolge agli Apostoli, il Signore indica loro di fare come Egli stesso fa, ovvero di “prendere direttamente, di ricevere decisamente, senza preposizione alcuna” («Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» – Lc 22, 42), l’incarico a cui Dio li stava chiamando
La nostra fede, invero, non è un Lego, ma è il Lógos.
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.