Precipitate le prime piogge autunnali, e con esse le temperature, la chiesa si va ripopolando: si torna al ritmo invernale, che prevede la domenica di andare (sempre senza esagerare!) alla messa: “Adelante, Pedro, con juicio”.
Durante la celebrazione liturgica, è molto interessante osservare come l’Eucaristia sia lo “Spezzare” (il Pane) per antonomasia, ma anche l’omelia sia essa stessa uno “spezzare” (la Parola di Dio); ed è molto singolare notare come il “Pane Spezzato”, pur se assorbito mediante un processo biologico, sia nutrimento per l’anima, mentre la “Parola spezzata”, pur se catturata dalle facoltà spirituali, sia strumento per regolare le azioni concrete.
Ecco allora l’importanza di accostarsi con devozione sia al Pane che alla Parola: la devozione sia “dignità” dinanzi al Pane (cfr. 1Cor 11, 27); la devozione sia “franchezza” dinanzi alla Parola (cfr. Ef. 6, 17-19).
Riservandoci di approfondire il “Pane Spezzato” quando il Signore vorrà (anche se il tema l’abbiamo già sfiorato in passato), in merito allo “spezzare la Parola” c’è da considerare che non è mai un atto “finito”, poiché la Scrittura, che è “bellezza così antica”, è sempre nuova e non smette mai di generare. La Parola di Dio ha una potenza così detonante, che non possono bastare dieci minuti di predica, o dieci righe di analisi esegetica.
È missione del sacerdote, al di là del “compitino” omiletico, rendersi sempre disponibile per qualsiasi dubbio o chiarimento, ma è dovere del fedele avere la buona volontà di scrutare la Parola di Dio e di approfondirla al di fuori del portone della chiesa: la non disponibilità del sacerdote porta il fedele allo smarrimento e alla vulnerabilità, ma la non volontà del fedele (anche il sacerdote lo è) porta all’aridità e all’arbitrarietà.
Il Paraclito (cfr. v. 25) assista lo scrivente ed il lettore, affinché non venga mai a mancare loro la “parresìa” nella ricerca incessante del senso della Parola di Dio.
La pericope odierna è un passo molto conosciuto, ed offre una molteplicità di spunti.
Prima di cogliere la parola oggetto della nostra consueta riflessione, proviamo a suggerire alcune briciole da cui il lettore può fare gemmare personali approfondimenti e meditazioni.
In primo luogo, piace allo scrivente osservare un piccolissimo esempio di come i quattro Vangeli suonino un’unica sinfonia, addirittura in episodi apparentemente non in sinossi: lo “sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola” e il riferimento ai “cani” (v. 21), non rimandano armonicamente all’episodio di Matteo 15, 26-27 e di Marco 7, 27-28 (la donna che aveva la figlia tormentata da un demonio nella regione di Tiro)? E la presenza ripetuta del nome “Lazzaro” (vv. 20, 23, 24, 25, 27), assieme al “non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (v. 31), non sono in armonia con il capitolo 11 di Giovanni?
In secondo luogo, sarebbe degno di essere lungamente meditato il nome “Lazzaro”. In greco il sostantivo “làzaros” significa “spoglia_mortale/morto”. Inoltre il “Lazzaro” di questa parabola è l’unico che tra tutti i racconti di Gesù ha nome proprio. Nelle narrazioni emblematiche di nostro Signore, non essendoci protagonisti nominati, uno dei compiti del lettore/ascoltatore spesso è quello di inserire il proprio nome, dopo aver definito il soggetto che rappresenta il proprio ricalco: ma al cospetto di questa parabola, è forse idea del Signore che ogni ascoltatore/lettore può identificarsi solo e soltanto con l’ “uomo ricco”?
In terzo luogo, la parabola del “Ricco epulone”, la quinta consecutiva (la prossima sarà soltanto all’inizio del capitolo 18 [escludendo un breve racconto paradigmatico in Lc 17, 7-10]) sembra richiamare sottilmente tutte le precedenti quattro, con velati riferimenti che si scovano solamente in trasparenza.
1 – Richiamo alla “Pecora smarrita”. Il versetto 20 recita: “Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta”. Il sostantivo “porta” in greco è “pulòna” che in sé ha la radice “pel” che significa “essere_appresso/aver_cura”, ma anche “pascolare”.
2 – Richiamo alla “Moneta smarrita”. Il versetto 21 recita: “bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola”. Il sostantivo “tavola” in greco è “trapèzes” che vale “tavola/mensa”, ma anche “banco_dei_cambiavalute (banca)”.
3 – Richiamo al “Padre misericordioso”. I versetti 20, 23, 24, 25, 27 citano il nome “Lazzaro” che, come visto sopra, allude esplicitamente alla morte (argomento già trattato); ma anche interessante è il versetto 21 nel quale viene usato il verbo “sfamarsi”, che nel greco originale “khortasthènai” è identico a quell’ “avrebbe voluto saziarsi” del figlio più giovane.
4 – Richiamo all’ “Amministratore disonesto”. Il versetto 19 recita: “C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti”. L’ “uomo ricco” (ànthropos ploùsios) è lo stesso in ambo le parabole, e quel “si dava” in greco è “eufrainòmenos” che in sé ha la radice “frèn” (argomento già trattato).
In quarto luogo, in virtù del fatto che in merito alle parabole del “Padre misericordioso” e dell’ “Amministratore disonesto” abbiamo dato loro la definizione di “aperte”, in quanto il finale non ci è dato, non potrebbe essere proprio il racconto escatologico odierno quella “chiusa” che manca?
In quinto luogo, sarebbe opportuno fare una riflessione circa i “novissimi” e, almeno personalmente, lo scrivente gradirebbe che le omelie dei cari sacerdoti tornassero ad affrontare con vigoria tale argomento. “Morte_Giudizio_Inferno_Paradiso” molto spesso vengono privati della compagnia dei due fratelli centrali, e ciò avviene non di rado negli atrii ecclesiastici: eppure nel passo odierno del Vangelo, Gesù non omette ciò che certi pulpiti defalcano.
E di spunti come questi ce ne sarebbero a iosa…
Fermarsi a questi cinque è necessario allo scrivente per non impazzire.
Per quanto ci riguarda, vorremmo rimanere in scia dell’ultima sollecitazione appena proposta (il “quinto luogo”) e raccogliere una parola che nella lettura, ovvero nell’ascolto, potrebbe passare inosservata poiché apparentemente troppo scontata: TORMENTI.
Essa nella traduzione in italiano è ripetuta tre volte (sempre usando il sostantivo), ma ai versetti 23 (plurale) e 28 (singolare) il greco originale usa il nome “bàsanos”, mentre al versetto 25 adopera il verbo “odunào” (anche usato nel versetto 24, tuttavia l’italiano non traduce “tormento/tormentare”, ma “soffro terribilmente”).
Proviamo a dare uno sguardo ad entrambi i termini.
Il verbo “odunào” (soffrire_dolore) è connesso al sostantivo “odùne” (dolore/affanno) che ha in sé la radice “èdo” la quale intende “mangiare”. Giusto è il dubbio istintivo del lettore (che c’entra “mangiare” con “dolore”?), ma il frequentatore “fedele (di questa nostra rubrica)” sa già che basta porre bene attenzione al percorso di senso, per comprendere un apparente sconnessione lessicale. Il “mangiare” non si concreta forse in un atto di “corrosione/erosione”? E non è un modo di dire (non solo un modo di dire…): “il dolore divora”?
Inoltre il sostantivo “odùne” è strettamente connesso ad una espressione latina: “curae edaces” ovvero “pensieri divoratori/logoratori”.
(Curioso che dalle radici linguistiche appena citate derivi il nome “accidia”. Non è, infatti, l’accidioso un “tras-curato”, ma anche, a detta di gergo, un “rosicone”?)
Passando al secondo termine, il sostantivo “bàsanos” come primo significato ha “esame/prova”, ma il senso proprio è “ricerca_(della_prova)_con_la_tortura”.
Anche in questo secondo caso c’è una connessione con un’altra espressione latina: “lapis lydius” ovvero “pietra di paragone”, con cui si intende “metro_di_giudizio/termine_di_confronto”. E proprio da “bàsanos” deriva “basanite” ovvero un basalto porfirico usato come “pietra di paragone” per stimare la purezza dei minerali.
(Curioso che la basanite sia “porfirica” così come, al versetto 19, i vestiti “di porpora” [in greco “porfùran”] del ricco epulone).
Date queste premesse, al cospetto del Vangelo di questa domenica possiamo dedurre quanto segue.
L’inferno esiste: Parola di Dio! (v. 23)
Stare negli inferi è tormento: Parola di Dio! (vv. 23, 25, 28 e [implicito] 24)
Il tormento infernale addenta con due fauci: essere “costretti_con_la_tortura _a_dare_prova” (bàsanos) che Dio esiste (poiché il “seno di Abramo” [v. 22] sarà allora manifesto), e tale ammissione è “corrodersi (odunào) in una ustione (en tè flogì, v. 24)”.
In eterno!
(Molto interessante è la parola “khàsma” (v. 26) che viene tradotta con “abisso”: il senso proprio di questo sostantivo tuttavia è “stare_a_bocca_spalancata” ma anche “sbadigliare/vomitare”. Ma, non è vero che il dolore/affanno fa spalancare la bocca? Non è vero che il mangiare/divorare lo si fa a bocca spalancata? Non è vero che l’accidioso sbadiglia? Non è vero che confessare una prova sotto tortura è come vomitarla? Straordinario, inoltre, sarebbe sviluppare un raffronto tra il “grande khàsma” in cui è precipitato l’ “uomo ricco”, contrapposto al “kòlpos di Abramo” [“seno”, ma anche “utero/grembo/ventre”] in cui fu portato Lazzaro, ma lo lasciamo assieme alla molteplicità dei vari spunti suggeriti)
Immagina lo scrivente, infine, che nella mente del lettore sia già balenato quell’episodio in cui, intrappolato nel ghiaccio (non è forse vero che il ghiaccio ustiona?), con disperato dolore, un dannato fu costretto a rispondere, sollevando la bocca da un cranio eroso.
Fu sola poesia, pur se di sommo poeta?
Sia gradita ad ogni lettore la propria risposta.
Allo scrivente piace pensare, che se a detta dell’intellighenzia quel bigotto di un cattolico altro non è che un “medievale”, quanto manca alla sua bocca per giungere alla conclusione che Gesù si sia ispirato a Dante?
A cura di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.