Quante volte abbiamo ascoltato le parole che Gesù ha pronunciato nella pericope di questa domenica.
E chi non ha mai pensato, difronte a questo Vangelo, come Gesù sia «esageratamente categorico», o addirittura un po’ troppo «cattivo»?
Anche i fedeli più convinti, sfidando il sacro timore reverenziale, si saranno fatti scappare, magari a mezza bocca, un: «Accipicchia quant’è incomprensibile Gesù».
I più fanatici, invece, dinanzi a pronunzie evangeliche del genere, glissando per manifesta drammaticità esegetica ogni incontro, confronto e dibattito coi detrattori della fede, non avranno fatto altro che rimuginare e rimuginare, al fine di trovare qualche escamotage per «salvare» Gesù e la situazione imbarazzante scaturita dalle sue parole.
Probabilmente anche ai seguaci contemporanei di Gesù saranno appartenute queste emozioni e questi sentimenti (Cf. Mc 3, 21: «Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: “È fuori di sé”»).
Tuttavia il Signore non è né esagerato, né cattivo, né incomprensibile, né bisognoso della nostra difesa.
Il Signore va ascoltato; la Parola di Dio va meditata e scrutata: allora si che tutto riesce a svelarsi nella sua robustezza e pienezza.
Ecco che, alla luce di quanto appena riferito, il Vangelo odierno è di una profondità immensa, che se degnamente contemplato e approfondito, non fa per nulla sbigottire, bensì fa commuovere e piangere: tanto di dolore, quanto di Gloria.
Sarebbe meraviglioso poter approfondire ogni aspetto di questa pericope, ma purtroppo, così come ribadiamo ogni volta, dobbiamo renderci concisi (tanto da risultare estremamente densi) e fornire brevi spunti.
Questi input, tuttavia, siano scintille, da cui possa germogliare l’interesse e l’autonoma motivazione del lettore nei confronti dell’attenta scrutatio della Parola di Dio, la quale non può essere ridotta (ed anche questo lo ripetiamo sempre) alle solite filastrocche, piatte e superficiali.
La Scrittura, infatti, è viva, ed è sempre nuova: perciò non è statica, bensì è animata, reattiva e vigorosa.
Non raffreddiamo, pertanto, la luce ed il calore della Parola di Dio con le consuete tiritere. Egualmente fredda, invero, sarà la nostra fede.
Ebbene, perché questa pericope farebbe commuovere e piangere di dolore e di Gloria?
1 – Se leggessimo il testo greco originale, ci accorgeremmo che la struttura portante della sequenza evangelica è costruita a «chiasmo».
Il chiasmo, invero, è figura retorica data dalle sequenze A-B / B-A, le quali coppie, inquadrate una sopra l’altra, sono ordinate esattamente con un tracciato a croce; tanto è vero che codesta figura retorica si chiama «chiasmo» proprio perché si rifà alla lettera greca «X» (khi), ovvero una croce.
Facciamo un esempio tratto dalla pericope odierna.
Il testo in italiano di Mt 10, 37 è: «Chi ama (A) padre o madre più di me (B), non è degno (A) di me (B); chi ama (A) figlio o figlia più di me (B), non è degno (A) di me (B)».
Il greco originale, invece, è: «Chi ama (A) padre o madre più di me (B), non è di me (B) degno (A); chi ama (A) figlio o figlia più di me (B), non è di me (B) degno (A)».
Ecco, dunque: anche nel modo in cui è scritta, la Parola di Dio può comunicare il suo messaggio.
Il centro del Vangelo odierno, invero, non è né l’odio per papà o mamma, né la beneficenza (tanto per citare due classiche tematiche): il centro è la Croce.
E Gesù non sta dettando aspre e crude prescrizioni o imposizioni come un despota egoista, che vuole devozione solo per sé, ma sta velatamente indicando qual è la direzione del suo cammino; attanagliato ed ansimante per la prova che lo aspetta: la Croce.
Invero il ritmo del «chiasmo» ricorda fortemente un andamento singhiozzante; quel singhiozzante andamento di chi non ha fiato, di chi soffre o di chi piange.
2 – Ma la Passione la ritroviamo anche in un altro punto.
L’estratto evangelico di questa domenica si apre con una frase che inizia con il sostantivo «padre», e termina con una frase che inizia con il sostantivo «bicchiere».
Sembrano, in traduzione italiana, due parole arci distanti tra loro; invece in greco sono: patéra («padre») e potérion («bicchiere»).
Ebbene, la radice lessicale teoricamente non dovrebbe essere la stessa: che c’entra, infatti, «padre» con «bicchiere»?
Tuttavia, ne siamo proprio certi?
Invero tanto patéra quanto potérion hanno lo stesso fulcro √ptr.
Giochiamoci un attimo.
Non è forse vero che spetta al «padre» (che vale anche quale sineddoche per «genitore») provvedere affinché il figlio beva, ovvero affinché il figlio abbia la vita («bicchiere», ovvero potérion, deriva dal verbo píno, che vuol dire «bere»)?
Non è forse vero che in Nm 20, 11 l’acqua (quindi píno, quindi potérion) uscì dalla roccia: «Mosè alzò la mano, percosse la roccia (in greco è pétras) con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero (épien, coniugato proprio da píno) la comunità e il bestiame»?
Questo secondo esempio sembra che non c’entri col discorso, ma è molto interessante come «roccia» (pétras – quindi anche il nome «Pietro») abbia esattamente lo stesso nucleo √ptr di patéra («padre») e potérion («bicchiere»).
E come risulterebbe, dunque, forte l’espressione di Gesù: «E io a te dico: tu sei Pietro (Pétros) e su questa pietra (pétra) edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa» (Mt 16, 18), sapendo che Pétros e pétra hanno la stessa radice √ptr di «Padre» («E io a te dico: tu sei Padre (Pétros) e su questo Padre (pétra) edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa»)?
Abbiamo detto di aver appena fatto un «gioco».
E così è stato.
Ma siamo sicuri che sia stato solamente un gioco?
Ed anche fosse stato così, non è forse il Signore stesso, che nell’atto di creare, proprio Egli gioca come fosse un bambino: «io ero con lui come artefice (in ebraico amón, [«artefice»], vale anche «bambino») ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Prv 8, 30-31)?
Orbene, anche da questa lieve, eppur non lieve, esegesi, potremmo trarre notevoli approfondimenti.
Tuttavia dirigiamoci ad altro.
Rimanendo tra i termini patéra («padre») e potérion («bicchiere»), ecco che li ritroviamo esattamente nell’agonia del Getsemani: «Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: “Padre (páter) mio, se è possibile, passi via da me questo calice (potérion)! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!”. […] Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: “Padre (páter) mio, se questo calice (nel greco originale è potérion sottinteso) non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà”» (Mt 26, 39. 42).
Ebbene, ecco che proprio da questo richiamo, che è effettivamente l’inizio della Passione di Gesù Cristo, possiamo tornare al Vangelo di oggi e continuare a scavare nel suo profondo.
L’amore per il «padre» (patéra), invero, non sta nel «come voglio io», ma nel «come vuoi tu»; non sta nel rifiutare il «calice» (potérion), ma nel berlo.
Ecco cosa vale l’odierno «Chi ama padre [o madre] più di me, non è degno di me»: quando dissociamo «padre» (patéra) e «bicchiere/calice» (potérion) amiamo «come voglio io».
Invece Gesù ci invita (invita, non intima) a lasciare connessi e avvinghiati patéra e potérion, proprio così come deve essere, poiché è soltanto nella commistione tra patéra e potérion che l’«io» lascia spazio a «Dio»; è soltanto così che l’io fa «come vuoi tu», ovvero fa come vuole Dio.
Amare il padre più di Gesù, invero, significa riconoscere sé stessi come «padre», scevri da qualsiasi potérion, quindi amare egoisticamente se stessi e la propria volontà.
Gesù, invece, ci dice di amare il Signore, il vero Padre, che è insieme patéra e potérion; e di conformarci quindi, non alla nostra, ma alla sua volontà, la quale non ci sottrae dalle prove, dalle fatiche, ovvero dalla croce («bicchiere/calice»), ma la benedice, e la rende strumento di Salvezza.
Gesù Cristo, invero, non è, oggi, ad intimarci l’esecuzione di un suo ordine egoistico («Se volete essere degni di me, amate solo me, abbandonando la famiglia», interpretazione assai superficiale), ma ci invita a farci a lui compagni, Egli che per primo, si è fatto compagno all’uomo, caricandosi della Croce della morte, conformandosi pienamente al potérion («bicchiere») del sacrificio ma della Salvezza del Padre (patéra), il quale porta scritto «calice» (potérion) proprio nel suo nome (√ptr – Padre- patéra).
Ed anche qui possiamo tornare a Mt 16, 18 e chiudere: «E io a te dico: tu sei potérion/calice/Croce (Pétros) e su questo potérion/calice/Croce (pétra) edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa».
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.