Potremmo ridurre il commento al Vangelo odierno, semplicemente mettendo in risalto i due diversi ambiti in cui agiscono da una parte i farisei e dall’altra Gesù.
E basterebbe anche l’ascolto, o la lettura, in italiano a farci notare questa differenza.
Partiamo dai farisei:
«Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno» (Mt 22, 15-16).
Ebbene, l’approccio di questi (i farisei) è palesemente ancorato al «vedere/guardare», ovvero all’esteriorità e all’apparenza.
E se andiamo al testo greco, tale aspetto viene ulteriormente in rilievo, poiché al «vedere» e al «guardi» appena evidenziati, si aggiunge altro.
Ecco come una traduzione letterale metterebbe in risalto alcune parti del versetto che stiamo evocando:
«Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: “Maestro, vediamo (in greco è oídamen) che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi a quello che gli uomini mettono a beneficio degli occhi (ovvero all’ «apparenza degli uomini» – in greco è prósopon anthrópon)».
Ecco una breve spiegazione dei termini greci or ora segnalati.
Il verbo oídamen, che nella corrente traduzione è reso con «sappiamo», viene da eĩdon ovvero «vedere».
Il nome prósopon, che nella corrente traduzione è reso con «in faccia», è composto da prós («verso/presso/dinanzi») e óps («occhio»).
Il sostantivo anthrópon, che nella corrente traduzione è reso, ai fini della scorrevolezza del senso, con «a nessuno», ma che tecnicamente significa «uomo», con buona probabilità potrebbe scaturire dalla composizione tra andr/anér («uomo») e óps («occhio») – cf. MARE.
Passiamo, ora, a Gesù:
«Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?» (Mt 22, 18).
Ebbene, l’approccio di Gesù non bada all’apparenza, ma è fortemente diretto in profondità. Egli, infatti, bada a cogliere l’intimità, i sentimenti, l’animo dei suoi interlocutori, ponendo la questione sull’interiorità, ovvero partendo dal cuore. Possiamo parlare, infatti, della cosiddetta «cardiognosi» (ovvero «conoscenza del cuore») di Gesù (cf. Mc 2, 8: «E subito Gesù, conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: “Perché pensate queste cose nel vostro cuore?»; Gv 2, 24-25: «Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo»).
Ed anche in tal caso, prestiamo attenzione al greco:
«Ma Gesù, conoscendo (gnòus) la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?».
Il verbo gnòus è coniugazione di gignósco (lo stesso verbo che compone «cardio[cardía-“cuore”]gnosi»), ed intende esattamente così come la resa in traduzione, ovvero «conoscere».
Da rilevare, però, come gignósco ribadisca fortemente l’ambito di interiorità e di intimità sui cui interviene Gesù, in quanto questo verbo è espressione del sostantivo gnóme, nome che si riferisce propriamente alla «facoltà o disposizione dell’animo/dello spirito».
In sintesi: l’andamento dei farisei è connesso al «super-fluo» (letteralmente «che scorre sopra»); Gesù, invece, guarda e coglie la «sostanza» (letteralmente «stare sotto»).
Detto tutto ciò, vorremmo proseguire l’osservazione del Vangelo proposto in questa domenica, scegliendo una particolare parola tra quelle a cui finora abbiamo prestato occhio: prósopon, che abbiamo già detto essere resa nella corrente traduzione con «in faccia» («Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno» – Mt 22, 16).
Da questo lemma greco (prósopon) viene direttamente un termine italiano, ovvero «prosopopea».
Con tale voce si intende «aria di importanza avente carattere di arroganza» che caratterizza il parlare o il porsi.
Ebbene: come non rivedere nei farisei, che nella pericope odierna sono a disputa contro Gesù, quest’aria di presunzione, questo porsi e parlare con orgogliosa, sentenziosa e saccente prosopopea?
Tuttavia, Gesù non teme la prepotenza di questa farisaica prosopopea, in quanto, proprio per bocca dei prosopopeici farisei, il Signore viene espressamente definito come Colui che non ha soggezione di alcuno, perché non guarda alla «prosopopea degli uomini» (prósopon anthrópon come abbiamo visto sopra – cf. Mt 22, 16).
Da notare, però, come «la prosopopea», oltre ad essere il nome che possiede l’accezione di cui sopra, in italiano sia anche una figura retorica, ovvero, per dirla semplicemente, uno stratagemma linguistico che tende a creare uno specifico effetto.
Invero la figura retorica della prosopopea realizza, in un discorso, il seguente effetto: far parlare cose inanimate come se fossero animate e vive.
Ebbene, come non rivedere questa figura retorica in quella «moneta del tributo», in quel «denaro», invocato da Gesù e mostrato dai farisei (cf. Mt 22, 19)?
Certo, i soggetti che parlano nel Vangelo odierno sono sempre i farisei e Gesù; tuttavia il fatto che il Signore richieda che la moneta venga «mostrata» (cf. Mt 22, 19); il fatto che il Signore metta in evidenza, in questo denaro, l «’immagine» e l’ «iscrizione» (cf. Mt 22, 20), è fortemente un interrogare non tanto i farisei, quanto proprio questa moneta, affinché codesto denaro venga invitato a parlare e a proferire la sentenza di soluzione.
Ecco: è straordinario come Colui che viene attaccato con «prosopopea», riesca imperiosamente a superare la disputa a cui è stato chiamato adoperando esattamente «la prosopopea»; dimostrando pienamente come Egli non tema l’arroganza dell’uomo, ma sia Signore su questa.
E la Signoria di Gesù è così poderosa, che anche la prosopopeica saccenteria «farisaica» (per traslato «umana») diviene essa stessa proclama di fede.
Difatti, quel «Di Cesare», affermato dai farisei, ma espressione della voce prosopopeica proveniente dalla moneta, dal denaro, non fa altro se non ribadire come l’ «ipocrita malizia» umana mai sia in grado di «mettere alla prova» il Signore (cf. Mt 22, 18), ma, da Lui ribaltata nella sua funzione e nella sua efficacia, possa giungere a divenire essa stessa il proclama del trionfo di Dio. –Ci consenta il lettore una nota faceta: sulla scia della massima evangelica che si trare da Mt 26, 52 («[…] tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno»), potremmo dire: «Chi di prosopopea ferisce, di prosopopea perisce». Invero, anche oggi, come in altre nostre occasioni di commento settimanale, viene fuori il fatto che non è mai il Signore a punire o a decretare il fallimento di un uomo, bensì è l’uomo stesso che, con le sue azioni e, nel caso odierno, con le sue stesse parole, sceglie e sentenzia la propria sconfitta e condanna
Inutile che l’uomo si ostini (pur se massimamente libero di farlo) a «tenere consigli» per arrivare a «cogliere in fallo» il Signore (cf- Mt 22, 15), poiché ogni «laccio» sarà sempre e per sempre da Lui «reciso».
1-Vogliamo far notare al lettore come la circonlocuzione del Vangelo odierno «coglierlo in fallo» (Mt 22, 15) sia espressa col verbo greco pagideúo, che letteralmente vale «intrappolare con lacci/reti»;
2-ed è interessante constatare come il nome «Cesare» derivi dal verbo latino caedo, che significa esattamente «tagliare». Quella risposta data dai farisei, infatti, ovvero quel «Di Cesare» (Mt 22, 22), è, figurativamente, la «cesoia» che recide i lacci della trappola intessuta per Gesù. In buona sostanza, coloro che hanno irretito, sono gli stessi che hanno tagliato i lacci (i nostri fallimenti o condanne, dunque, non sono derivanti da un dio punitore, ma sono effetti delle nostre libere scelte, così come il paradiso e l’inferno sono le destinazioni eterne volute dalla nostra libera scelta);
3-da rilevare, infine, come il nome «(tennero) consiglio» (Mt 22, 15) in greco sia sumboúlion («simbolo»): quante volte ci capita, ahimè, di ritenere le nostre azioni o intenzioni un súm-bolon («simbolo» ovvero «mettere insieme», termine associato a Gesù – cf. Eb 11, 19), quando in realtà sono diá-bolos («diavolo» ovvero «separare/dividere»)
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.