Fabio Quadrini – Commento al Vangelo di domenica 13 Giugno 2021

651

Anche questa domenica, ovvero questa pericope odierna, reca in sé un immenso corredo esegetica.
Ogni parola meriterebbe di essere commentata e meditata.
Premessa, questa, esageratamente consueta e superflua, penserà il lettore, poiché qualsiasi estratto evangelico di ogni domenica, e di ogni giorno, è pregno di significato in ogni suo termine.
Nondimeno, ogni tanto è bene che ce ne ricordiamo, poiché il rischio di banalizzare i testi evangelici, soprattutto in quei passi arci-noti fin dal catechismo, reputandoli facilmente interpretabili, o piacevolmente carichi di una gradevole aura poetica, è sempre dietro l’angolo.
La Parola di Dio, infatti (ed anche questo lo abbiamo ripetuto più e più volte, ma repetita iuvant), è viva ed è sempre nuova e ad ogni sua ri-lettura essa continua a rivelarsi, o meglio a svelarsi, con ogni attualità, per ogni attualità, parlando alle categorie e con le categorie di ogni attualità.

Detto ciò, l’estratto evangelico odierno non è per nulla facile, poiché nelle sue righe si parla del Regno di Dio.
Ma cos’è il Regno di Dio?
Ebbene, dobbiamo fare attenzione, poiché (come detto altre volte anche in questo caso) la domanda è formulata male. E se si formula male la domanda, anche la risposta che a questa verrà data sarà inopportuna.
Invero, la domanda va formulata così: (non “cos’è”, ma) chi è il Regno di Dio? -Lo stesso, infatti, valga per la Verità: non cos’è la Verità, ma “chi è” la Verità. Sarà per questo che Gesù non rispose a Pilato? (cf. Gv 18, 38)
Ecco, allora che la risposta alla domanda è la seguente: il Regno di Dio è Gesù Cristo.

Da molti dettagli della pericope odierna possiamo trarre questa risposta, ma a noi interessa soffermarci su un riferimento presente in Mc 4, 32:
«ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».

- Pubblicità -

Invero, nel Vangelo di questa domenica Gesù non solo parla e fa riferimento a sé stesso, ma richiama e inquadra il Regno di Dio nel contesto della sua Passione, ribadendo sottilmente, ma innegabilmente, come il sacrificio della Croce sia “il fine” (non «la fine» – eis télos [cf. Gv 13, 1]).
Infatti, come non ascoltare la Passione nel seguente versetto:
«e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

Nondimeno in questa riga, oltre al fondale teologico che promana da questa traduzione e che rimanda proprio al sacrificio della Croce («falce/mietitura» sono il “sacrificio” a cui il grano deve essere sottoposto per farsi pane), c’è un forte e diretto riferimento alla Passione che ritroviamo scrutando il greco originario del testo.
Ebbene, la determinazione «[il frutto] è maturo» nel greco del Vangelo odierno è resa con un verbo assai particolare: paradídomi.
Esso è uno dei verbi più “caratteristici” nei testi evangelici, poiché tecnicamente significa «consegnare», ma nello specifico viene anche tradotto con «tradire».-Anche se «tradire» è maggiormente connesso al verbo greco pro-dídomi. Nondimeno il «tradire» è sostanzialmente un “consegnare”, così come il «consegnare» è il moto proprio della “tradizione”, termine, quest’ultimo, che è propriamente dalla stessa radice di «tradire»
E questo verbo (paradídomi) è esattamente quello che qualifica specificamente l’atto di Giuda:
«Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare [paradoī] loro Gesù. Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo [paradoī] al momento opportuno» (Mc 14, 10-11).
Ecco, allora, come interessante diviene rendere letteralmente il versetto di Mc 4, 29:
«e quando il frutto è consegnato/è tradito [paradoī (coniugato da paradídomi)], subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

Da ciò, ritorniamo al versetto che vorremo prendere in esame oggi:
«ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra» (Mc 4, 32).

Nell’espressione appena evidenziata non solo si può ascoltare un velato rimando al Gòlgota, ma è possibile scrutare profondamente come Gesù riveli la sua divinità.
Il testo greco originario che viene adoperato è il seguente: kataskenoũn («fare il nido») upò tèn skiàn («alla sua ombra»).

Ebbene, tanto il verbo kata-skenóo (letteralmente «giù-attendarsi» [kataskenoũn è la sua coniugazione]) quanto il sostantivo skiá («ombra» [skiàn è la sua declinazione]) hanno la medesima radice.
E questa radice (√sk[n]) è la stessa di un termine ebraico, ovvero Shekinà.
Cos’è per gli Ebrei la Shekinà?

È la «Presenza del Signore (Adonài)», la quale, prima di dimorare nel Tempio, era “attendata” nella Mishkàn (la tenda trasportabile che accompagnava gli Ebrei durante l’Esodo. Mishkàn che ha la stessa identica radice di Shekinà. Cf. Es 29, 42: «Questo è l’olocausto perenne di generazione in generazione, all’ingresso della tenda del convegno [Mishkàn], alla presenza del Signore [Shekinà], dove io vi darò convegno per parlarti»).

Detto tutto ciò, ecco come potremmo rendere letteralmente Mc 4, 32:
«ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono attendarsi giù alla sua ombra».

Ma ecco come potremmo renderlo esegeticamente, rivelandone un profondo kérygma (significato teologico):
«ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi nella Mishkàn al cospetto della sua Shekinà».

Ecco, allora, come Gesù stia rivelando come proprio Egli sia il Regno di Dio, poiché è Lui il vero Tempio (cf. Gv 2, 21), la definitiva e compiuta Mishkàn, l’unica «Tenda» in cui la «Presenza del Signore» (Shekinà) si è fatta carne (cf. Gv 1, 14: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare [eskénosen] in mezzo a noi», letteralmente: «E il Verbo si fece carne e pose la sua Mishkan/Tenda in mezzo a noi»).

Ma oltre a ciò, tale versetto possiamo ritrovarlo sul Gòlgota, ovvero rimanda al Gòlgota.
Invero in Mc 15, 33 troviamo:
«Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio».
Il termine «buio», nel greco originario, è skótos, esattamente dalla stessa radice di skenóo/ skiá, ovvero Shekinà/ Mishkàn.

Ecco, allora, come la tenebra del Gòlgota possa arrivare, al contempo, ad illuminarsi di Gloria, poiché se è vero che sulla croce Gesù giunge “alla fine”, muore («buio»), allo stesso tempo, però, Cristo si glorifica, giunge “al fine”, poiché in Lui, inchiodato mani e piedi ai “rami” dell’albero della croce, viene drizzata compiutamente la Mishkan; viene innalzata pienamente la Shekinà, non «buio», ma «ombra/riparo» su tutta la terra.

Molto interessante, quindi, come una attenta analisi esegetica di Mc 15, 33 possa rivelare una notevole sfumatura kèrygmatica:
«Quando fu mezzogiorno, si fece Mishkàn/ Shekinà su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio». -Gli esegeti affermano all’unanimità (e fanno bene) come il Crocifisso secondo Giovanni sia un Crocifisso di Gloria, un Crocifisso in Gloria, mentre nei Sinottici, special modo in Marco, Gesù sia più un Crocifisso “terreno”, ovvero ci sia più una narrazione “sofferente-storica” che “gloriosa-teologica”. Ma seguendo il nostro percorso esegetico, potremmo fortemente affermare come anche in Marco Gesù Crocifisso sia (oltre che aspramente storico) profondamente e teologicamente glorioso

E se è vero che il centurione ha pronunciato la sua esclamazione («Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» – cf. Mc 15, 39) perché rimasto sbalordito per come ha visto “dignitosamente” morire Gesù (valutazione “storico-letterale” della vicenda), dato tutto quanto espresso potremmo accogliere un altro fatto, ovvero come questa sua esclamazione, che è piena e compiuta Professione di Fede (tale pronunzia, infatti, è l’acmé del Vangelo secondo Marco), possa essere scaturita non tanto o non solo da quella “morte dignitosa”, ma proprio da quel «buio» (skótos), che inconsapevolmente le parole del centurione (la Parola di Dio, infatti, cela in nuce il suo kérygma nel pronunciamento umano che compone la Sacra Scrittura) riconobbero, per ispirazione, come Mishkàn, come la Tenda in cui si era rivelata la concreta Presenza della Shekinà.

Fonte

Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.wordpress.com/category/sindone/