Proporre un commento al Prologo del Vangelo secondo Giovanni è impresa proibitiva; così come arduo, tuttavia, è avventurarsi nella conta degli innumerevoli commenti che sul Prologo sono stati prodotti e che continuamente vengono presentati.
Eppure tante ciance non servirebbero, poiché la potenza di ogni termine in questo presente e la vigorosa profondità del suo intenso contenuto, riescono, per propria insita forza, a penetrare nell’animo e nel cuore di ogni persona che ad esso si accosta, tanto con la lettura (lenta e meditata) quanto con l’ascolto (vigile ed attento).
Temendo di essere annoverati nella categoria “ciance”, vorremmo limitarci ad offrire al nostro lettore appena brevi cenni su un termine che meriterebbe non alcune righe di spiegazione, bensì saggi e trattati esegetici, data la sua portata tecnica e teologica: SANDALO («colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» – Gv 1, 27) -Teniamo a precisare come spesso nel gergo comune con “Prologo di Giovanni” si intenda comprendere l’intero capitolo 1 del quarto Vangelo. Invece il Prologo, per la precisione, va dal versetto 1 al versetto 18, ed esso rappresenta l’ “attacco” del capitolo 1 (ovvero l’overture dello scritto giovanneo ), il quale consta di 51 versetti. Quindi il testo evangelico che la Liturgia ci pone quest’oggi dinanzi comprende parte del Prologo (Gv 1, 6-8) e uno stralcio seguente al Prologo, ma sempre dal capitolo 1 secondo Giovanni (Gv 1, 19-28). E la parola «sandalo», che terremo in evidenza, si trova in questo secondo blocco
1 – La pronunzia che viene da Giovanni: «[…] a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo», suscita immediatamente quell’approccio di umiltà, di sottomissione e di sequela che certamente il Battista testimoniava nei confronti del Christós.
E tale percezione è valida non solo a livello letterale, ma anche in senso esegetico.
Il nome «sandalo», nel testo greco del Vangelo in esame, è upódema.
Esso è composto dalla preposizione upó («sotto») e dal tema déo.
Interessante scrutare con una particolare attenzione questo termine déo, che propriamente è un verbo.
Esso assume un primo significato A, ma possiede pure un secondo significato B.
Il primo senso di déo è precisamente quello di «legare/allacciare».
Da questa radice viene il verbo latino redimio, che vale «cingere/circondare».
Ecco, allora, che upó-dema («sandalo») vale specificamente «ciò che si lega sotto».
Interessante, però, è il significato B.
Il verbo déo, infatti, esprime anche «essere privo/avere bisogno».
E da questo secondo tratto radicale viene il nome latino deus, ovvero il nostro «Dio».
Ecco, quindi, che upó-dema («sandalo») riesce ad accendersi di una luce esegetica assai decisiva, in quanto oltre a valere specificamente «ciò che si lega sotto», può interpretarsi latamente con «essere sotto a Dio». -Da notare, comunque, come tra l’accezione A di déo («legare/allacciare») e l’accezione B («essere privo/aver bisogno») non vi sia tutta questa distanza. Difatti, non è forse vero che l’ “essere privo” richiama in sé la dinamica di un “legame” (pur se assente/spezzato, ovvero da recuperare/ricucire)? E non è forse vero che l’ “aver bisogno” è un movimento che tende ad un “allacciare”? E non è forse vero che il creato e Dio sono “allacciati”, e che, specialmente, tra l’uomo e Dio v’è un reciproco “legame” (anche se l’uomo, con la sua libertà, può scegliere di reciderlo)? E non è forse vero che per il creato in generale, e per l’uomo in particolare, Dio è “il Bisogno” per eccellenza, “il Legame di cui mai privarsi” (anche se l’uomo, con la sua libertà, può scegliere di mettere a tacere questo Bisogno; può scegliere di privarsi di tale Legame)?
2 – Dato tutto quanto, interessate proporre una brevissima riflessione anche alla luce del mondo ebraico, sempre con riguardo alle parole di Giovanni: «[…] a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».
L’immagine del «sandalo», in realtà, rappresentava esplicitamente, per l’ambito ebraico, il «diritto di proprietà» [cf. Sal 60, 10: «Moab è il catino per lavarmi, su Edom getterò i miei sandali»], ed ancor più nello specifico il «diritto di riscatto» che il goèl poteva vantare su una vedova (cf. Rt 4, 7-8: «Anticamente in Israele vigeva quest’usanza in relazione al diritto di riscatto o alla permuta: per convalidare un atto, uno si toglieva il sandalo e lo dava all’altro. Questa era la forma di autenticazione in Israele. Allora colui che aveva il diritto di riscatto rispose a Booz: “Acquìstatelo tu”. E si tolse il sandalo»), esercitando quello che propriamente veniva chiamato “Istituto del levirato”. -Il termine goel vale “riscattatore/colui che affranca”. Ecco che Gesù è il Goel per antonomasia, Colui che ha riscattato l’uomo dalla morte; Colui che con la sua Risurrezione ha affrancato la vita dalle grinfie della morte. Il “levirato” tecnicamente era la disposizione giuridica con la quale il cognato era obbligato a sposare la propria cognata rimasta vedova e senza figli; il primo figlio nato dal nuovo matrimonio era considerato come figlio del defunto
Ecco, allora, che il Battista, con il suo proclama, intendeva dire che non era lui lo Sposo (il “proprietario” della sposa, il “riscattatore” della vedova [Israele nel particolare, ma l’umanità in generale]), poiché il Goel sarebbe stato Colui che è dopo di lui, Colui al quale «non sono degno di slegare il laccio del sandalo», ovvero Colui a cui non posso sottrarre il “sandalo della proprietà e del riscatto”, ossia «l’autorità di salvare», ossia «il titolo di Salvatore» (rammentiamo come Gesù [Yeshúa in ebraico] significhi proprio «Il Signore salva»)
Giovanni, infatti, non è lo Sposo, ma è «l’amico dello sposo, che […] esulta di gioia alla voce dello sposo» (cf. Gv 3, 25-30). -La «voce dello sposo» è esplicito riferimento al momento apicale dell’atto unitivo tra gli sposi: uomo e donna! L’ «amico dello sposo» (in ebraico/aramaico shosbin), inoltre, non è solo un’immagine simbolica, volta a rappresentare subordinazione e servilismo, quant’anche una figura esistente, concreta, vera e propria ed operante nei riti di matrimonio ebraici, e il suo ruolo era anche quello di gioire dopo che aveva ascoltato la congiunzione coniugale consumata tra gli sposi
Chiudiamo con la seguente nota curiosa (ma anche la curiosità suscita esegesi).
Poc’anzi abbiamo richiamato il verbo latino redimio («cingere/circondare»), la cui radice è la medesima del nome upódema («sandalo»).
È particolarmente interessante come in latino vi sia un altro verbo assai simile, ovvero redimo, che (guarda caso…) precisamente significa «riscattare/affrancare». -la somiglianza tra redimio e redimo, comunque, non è solo grafica, ma anche radicale. Difatti il “cingere” è una dinamica di “riscatto” (un atto di “salvezza”, invero, ha come suo proprio movimento quello di “stringere/serrare”: così come una cinta muraria salva il castello dagli assedi; così come il salvato si avvinghia al suo salvatore)
«Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando» (Gv 1, 28).
Che «Questo» sandalo “avvenga” (cf. lat. adventus) anche nella nostra Betània, operi nella nostra vita, affinché il Natale ormai prossimo, sia kairós («tempo propizio») di sottomissione al Signore Gesù Cristo, Egli che è la Salvezza.
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.