La settimana scorsa la Liturgia ci ha proposto, come Vangelo domenicale, il capitolo 6 secondo Giovanni, nello specifico i suoi primi 15 versetti. E nella domenica odierna siamo a continuare all’interno del medesimo capitolo.
Questo capitolo 6 secondo Giovanni principalmente è incentrato sul tema del “pane”, trovando il suo fulcro nel cosiddetto «pane della vita» (cf. Gv 6, 35.48), e lo studio esegetico tende ordinariamente, e molto giustamente, a leggerlo ed interpretarlo ponendovi a fondale l’Ultima Cena.
Il racconto dell’Ultima Cena, infatti, così come comunemente lo conosciamo, ovvero così come narrato dai Sinottici (Matteo, Marco e Luca), non è presente in Giovanni, e proprio per questa assenza giovannea con riguardo all’episodio del Cenacolo, l’esegesi, nel Quarto Vangelo, tende correttamente a ritrovare il messaggio teologico contenuto nell’Ultima Cena proprio in questo capitolo 6.
Effettivamente, se considerassimo in dissolvenza l’Ultima Cena durante la lettura del capitolo 6 secondo Giovanni, quest’ultimo riuscirebbe fortemente a sbocciare di una profonda pienezza teologica.
Data questa celere premessa, veniamo a focalizzarci sui versetti della proposta evangelica di questo domenica, e nello specifico posiamo il nostro sguardo in Gv 6, 35:
«Gesù rispose loro: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame (il verbo greco usato è peináo) e chi crede in me non avrà sete (il verbo greco usato è dipsáo), mai!».
In questo versetto notiamo, con particolare attenzione, come i verbi che introducono alla «fame» (venire) e alla «sete» (credere) siano diversi.
Come mai?
Non esiste univoca risposta, ma sappiamo, come sempre diciamo, che nessun termine è posto a caso nella Scrittura, poiché la Parola di Dio si cela, e parla, anche attraverso «un solo iota o un solo trattino della Legge» (cf. Mt 5, 18).
Proviamo a trarre una analisi.
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Ebbene, abbiamo detto in apertura come Gv 6 sia fortemente connesso all’episodio dell’Ultima Cena; nel commento di domenica scorsa, poi, abbiamo potuto notare come Gv 6, nello specifico il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Gv 6, 1-15), si possa proiettare in Gv 21 (cf. RAGAZZO); nell’occasione odierna possiamo collegare Gv 6, ovvero il versetto della pericope che abbiamo in analisi, con un altro riferimento evangelico, nello specifico con il racconto della Passione contenuto in Gv 19. -La Bibbia si legge con la Bibbia: questo principio è il cardine per ogni approccio esegetico
In che modo?
Vediamo.
In Gv 19, 28 Gesù in croce dice: «Ho sete» (il verbo greco usato è sempre dipsáo).
Ma come mai Gesù non ha anche detto: «Ho fame»?
Questa domanda è, forse, sciocca, poiché nella Scrittura, e nel nostro specifico nel Vangelo, le cose non sono (solo) scritte secondo una “logica” sintattico-grammaticale-consequenziale (fame e sete di solito vanno di pari passo), ma (anche) secondo la notizia “teo-logica”.
È pur vero, però, come diciamo sempre, che il Vangelo è tanto kèrygma (teologia) quanto storia, e Gesù, in croce, aveva “storicamente”, ovvero certamente e concretamente sete, solo sete (difficile che un crocifisso pensi a mangiare…): una sete feroce, data dalle fatiche sopportate durante le ore precedenti alla crocifissione; data, fortemente, dall’abbondante fuoriuscita di sangue, cagionata dalla crudele flagellazione patita, dalle varie percosse subite e, chiaramente, dall’inchiodatura al legno della croce (la Sindone ci testimonia tutto ciò), nonché data dall’esposizione del Crocifisso al caldo e al sole.
Nondimeno questa domanda apparentemente sciocca, può consentirci di ragionare.
In realtà, “fame” e “sete”, nella Scrittura, sono presenti molto spesso in associazione (cf. Dt 28, 48; 2Sam17, 29; 2Cr32, 11; Ne 9, 15 ecc…), e tale costante e continuo abbinamento consente di rendere “fame” e “sete” talmente in simbiosi, tanto che è sufficiente dire la prima per considerare anche la seconda e viceversa -Questo avviene pure nella nostra quotidianità: è raro scindere “mangio e bevo”. Interessante notare anche come i fedeli partecipino all’Eucaristia usualmente consumando solo l’Ostia senza bere il Vino, così come, invece, fa il celebrante, ma nonostante ciò la partecipazione dei fedeli al Mistero Eucaristico è valida è piena. E lo stesso può valere per chi ha difficoltà ad assumere l’Ostia: bevendo solo il Vino, partecipa comunque pienamente al Mistero Eucaristico
Da notare, poi, come questa simbiosi “fame-sete” si possa riscontrare anche in altre situazioni evangeliche.
In primo luogo è molto curioso rilevare come il greco peináo («avere fame»), si possa ritrovare, quasi a calco, ad alcune forme coniugate del verbo píno («bere»). Un esempio lo troviamo in Gv 4, ovvero l’episodio della Samaritana. Difatti, le espressioni «Dammi da bere» (cf. Gv 4, 7.10) e «chiedi da bere» (cf. Gv 4, 9) in greco sono rispettivamente Dós moi peīn e par’emoũ peīn aiteīs. Il ricalco tra pein-áo e peīn è effettivamente evidente.
In secondo luogo è assai rilevante come tanto peináo («avere fame») quanto dipsáo («avere sete») abbiamo entrambi come significato traslato quello di «avere veemente/vivo desiderio», ovvero a ciascuno appartiene chiaramente la traduzione col proprio specifico significato, ma per entrambi può valere anche la traduzione «avere veemente/vivo desiderio».
In terzo luogo è molto particolare come in Gv 7, 37-38 l’ “avere sete/il bere” sia in relazione non solo al “credere” ma anche al “venire” (verbi questi che, invece, separano “fame” e “sete” nel versetto che stiamo esaminando, ovvero Gv 6, 35):
«Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me».
Ebbene, dato tutti questi riferimenti, potremmo quindi accettare il fatto che Gesù, sulla croce, nel momento in cui ha detto: «Ho sete», abbia pronunziato questa espressione come potenzialmente comprensiva anche della fame -In gergo tecnico linguistico sarebbe una “sineddoche” (figura retorica che usa una parte per far riferimento al tutto: es. “prua” per intendere “nave”)
Nondimeno, come anche ribadito ad inizio commento, nella Parola di Dio nulla è da tralasciare, nulla è a caso, e quindi se Gesù, in croce, ha detto solo «Ho sete», pur se, come teorizzato sopra, grazie ad un minuzioso esame esegetico, si potrebbe includere anche “Ho fame”, è manifesto e decisamente chiaro come Egli intendesse far riferimento alla sola sete. -L’attività esegetica non è matematica: occorre sempre rimanere equilibrati tra storia e teologia, tra senso letterale e derivato, tra note evidenti e significati celati in nuce, in cui tutto è possibile recepire come valido, purché resti sempre nell’alveo dell’univocità del messaggio salvifico e dell’interpretazione data dalla Tradizione e dalla Chiesa
Allora, tornando alla domanda sciocca, come mai Gesù ha trascurato la “fame” sulla croce, ovvero ha scelto la “sete”?
Avendo già compreso l’aspetto storico e concreto della sete del Crocifisso (che abbiamo chiaramente riferito), potremmo teologicamente dare un senso alla (sola) sete di Gesù in croce grazie proprio al versetto che oggi abbiamo in esame, ovvero Gv 6, 35:
«Gesù rispose loro: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».
Ma per sciogliere la nostra disamina teologica, ovvero per trarre una (bene attenti: ho scritto “una”) riflessione e spiegazione kerigmatica nel merito, più che porre rilievo a “fame-sete” in sé, catalizzerei l’attenzione ai due verbi che introducono “fame-sete”, ovvero «viene» e «crede».
Ebbene, quanti di noi “vanno” a Gesù, “vanno” da Gesù, ma in Lui non “credono”?
Quante volte, nell’esercizio della nostra fede cattolica, l’abitudine del ”vado” camuffa e falsifica il “credo”.
Sempliciotti gli esempi che seguono ma per chiarire: quante volte si “va” alla Messa, ma non si “crede” in ciò che si ascolta, non si “crede” in ciò a cui si partecipa (e ahimè, alle volte, non si “crede” in ciò che si celebra).
Oppure: «”Vado” dal prete a farmi segnare la Messa per un defunto, lui ci teneva tanto a queste cose; ma comunque alla celebrazione non partecipo, perché a queste cose non ci “credo”. Oppure se ci “vado” rimango fuori dal portone».
Allora, quindi, come mai Gesù, in croce, ha pronunciato solo: «Ho sete»?
Ebbene, al Signore non interessa la forma -o meglio, al di là di fraintendimenti e assolutizzazioni, la forma, le pratiche formali, il “venire-fame” insomma, sono necessarie e fondamentali, ma nel momento in cui rimangono vuote di partecipazione e di senso, di “credere-sete” insomma, è come se non fossero mai state eseguite, non interessa il “venire”: per il Signore conte la sostanza, conta il “credere”.
Ed ecco che nei momenti decisivi della vita, nelle croci della nostra vita, nessun supporto potrà mai venire (solo) dall’ essere “andato” dal Signore, ma verrà decisamente dall’aver “creduto” al Signore.
Quel solo «Ho sete» di Gesù in croce, quindi, potrebbe avere un senso anche sulla scia seguente, ovvero: solo quando l’uomo riconoscerà di avere sete di Dio, solo quando l’uomo si deciderà ad avere sete di Dio, allora la sua fede sarà piena; allora le sue croci si riempiranno di senso; allora la sua relazione con Signore sarà compiuta.
«Ho sete», quindi potrebbe valere come: «Abbiate sete», ovvero «Credete nel Signore, poiché questo è ciò che conta, anche quando siete, soprattutto quando siete, inchiodati alle vostre croci».
-Su questo «Ho sete» di Gesù in croce non si finirebbe mai di parlare.
Si pensi che questo fu il motto di Madre Teresa di Calcutta, a simboleggiare la dedizione verso i più poveri dei poveri.
Un’altra riflessione si potrebbe fare sempre su questo «Ho sete» del Crocifisso: ma se Gesù è Colui che disseta («chi crede in me non avrà sete, mai!»), come poteva “il Dissetatore” avere sete? Possiamo darci due risposte: era un millantatore, ovvero diceva di avere l’acqua, quando in realtà non l’aveva; oppure si è svuotato fino all’ultima goccia per donarla, fino a non averne, fino a non tenerne più per sé. Dopo aver detto: «Ho sete», invero, il Vangelo riferisce: «E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (cf. Gv 19, 30), dove quel «consegnò» intende certamente «morire», ma letteralmente (in greco è parédoken) intende «trasmettere/diffondere/donare». Ma non basta.
Potrebbe esserci anche una terza risposta: pur avendo l’acqua, non la conservava per sé, ma la serbava per chi gliel’avrebbe chiesta: «Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19, 33-34)
Infine, ci sovviene una particolare nota circa il tema trattato in questo commento.
Circa le moltiplicazioni riguardanti il “mangiare”, i Vangeli riferiscono in abbondanza -proprio nel commento della settimana scorsa abbiamo trattato della “Moltiplicazione dei pani e dei pesci” -cf. Gv 6, 1-15 e della pesca miracolosa presente in Gv 21 -cf. RAGAZZO, e queste moltiplicazioni circa il mangiare sono legate specificamente proprio alle moltitudini che “venivano” a Gesù.
Ma circa le moltiplicazioni riguardanti il “bere”?
Ebbene, riguardo quest’ultimo aspetto, l’unico segno nel merito lo abbiamo alle “Nozze di Cana”, quando Gesù cambia l’acqua in vino, ovvero riporta in tavola il vino che era finito.
Ma chi ha domandato a Gesù questo miracolo (tecnicamente questo “segno”)? Ovvero: qual era la caratteristica di chi ha domandato a Gesù questo miracolo?
«Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: “Non hanno vino”. Sua madre disse ai servitori: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”» (Gv 2, 3.5).
E chi era, chi è, la madre di Gesù se non «colei che ha “creduto” nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (cf. Lc 1, 45)?
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.