Prima lettura: Isaia 55,1-11
Così dice il Signore: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide. Ecco, l’ho costituito testimone fra i popoli, principe e sovrano sulle nazioni. Ecco, tu chiamerai gente che non conoscevi; accorreranno a te nazioni che non ti conoscevano a causa del Signore, tuo Dio, del Santo d’Israele, che ti onora. Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri. Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».
Il libro che va sotto il nome di Isaia — il più lungo della Bibbia — consta in realtà di tre raccolte diverse. Solo la prima (capp. 1-39) risale in gran parte a Isaia, che profetizzò nell’VIII sec. a.C. nel Regno del Nord; si aggiungono poi un Secondo (capp. 40-55) e un Terzo Isaia (capp. 56-66), raccolte di oracoli rispettivamente del tempo dell’esilio (VI sec.) e del post-esilio.
Il cap. 55 conclude il Secondo Isaia, detto anche «Libro della consolazione di Israele». Nel tempo della tribolazione, quando tutto sembra perduto con la caduta di Gerusalemme e l’esilio, il profeta anonimo riaccende con la sua voce appassionata la speranza del popolo, annunciando la conversione, il perdono, il ritorno.
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Il capitolo si apre con un invito alla conversione: il ritorno dall’esilio è reso possibile dal ritorno al Signore, che solo può dare vita al popolo. I vv. 1-2 lo esprimono con la metafora dell’acqua e del cibo. L’acqua, per un popolo di origine nomade e segnato dall’esperienza del deserto, è sinonimo di vita; il cibo “senza denaro”, senza fatica, rinvia alla condizione originaria del giardino di Eden; la parola gustata come un cibo prelibato «ascoltatemi e mangerete cose buone» — riprende il tema del banchetto nei testi sapienziali (cf. Prov. 9,5; Sir 24,18). «Spendere denaro per ciò che non è pane» allude alle pratiche idolatriche e ai culti pagani della fertilità, e soprattutto alla superstizione di chi pensava di assicurarsi con offerte e sacrifici la protezione di divinità false e ingannatrici.
Il tema dell’ascolto è ripreso nel v. 3. La parola di Dio che dà vita non viene mai meno: l’alleanza stipulata sul Sinai è alleanza eterna, la promessa a Davide è confermata e, nei vv. 4-5, ampliata a un respiro universale. Davide, o meglio il discendente a lui promesso (cf. 2Sam, 7,12s.), il Messia davidico atteso per la liberazione, non sarà solo re d’Israele, ma «testimonio fra i popoli» e «principe e sovrano sulle nazioni». Con un’alternanza che è caratteristica dello stile deuteronomista, l’oracolo passa dalla seconda persona plurale al singolare, parla non più al popolo ma all’eletto del Signore: «Tu chiamerai gente che non conoscevi…». Le genti, i popoli, le nazioni: sono i pagani, coloro che non conoscono il Signore, anch’essi chiamati alla salvezza per il tramite di Israele, segno e testimonianza per tutti.
I vv. 6-7 insistono sulla conversione. Cercare il Signore, che è vicino e si fa trovare: è ancora la promessa del ritorno, per il quale è necessario però anche che il popolo torni sulle vie del Signore. Anche qui il linguaggio è quello del Deuteronomio, della religione interiore dei profeti, che fa appello alla libertà dell’uomo, necessaria perché l’evento salvifico si compia.
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Certo, gli Ebrei esuli dovevano obiettare alle parole di consolazione del profeta: come credere, se l’esperienza quotidiana era così diversa da quanto annunciato? Ecco allora la logica misteriosa di Dio, che non sempre fornisce delle prove, ma va creduto contro ogni evidenza: «le vostre vie non sono le mie vie…» (vv. 8-9).
La pericope si chiude con i due bellissimi versetti 10-11, l’immagine celebre della pioggia che feconda la terra come la parola del Signore non manca mai di compiere la salvezza nei cuori degli uomini. La parola si realizza sempre, per quanto impossibile ciò possa sembrare; la sua azione è misteriosa e nascosta, come l’azione delle gocce d’acqua che raggiungono il seme sotto terra; l’effetto è prodigioso, anche se giunge nel tempo che solo il Signore conosce.
Seconda lettura: 1 Giovanni 5,1-9
Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che danno testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi. Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore: e questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio.
La prima lettera di Giovanni è centrata sulla fede cristologica, all’origine della comunione d’amore fra i credenti, in un’architettura che mostra il legame tra la fede e la prassi, tra amore di Dio e amore del prossimo, tra tensione escatologica e presenza nella storia.
vv. 1 -4. Dopo aver dichiarato che non può amare Dio chi non ama il fratello, Giovanni riprende il criterio della fede, cardine di tutta la sezione.
La fede è rappresentata qui attraverso il simbolo della nascita: «chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio» (v. 1), «Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo», e la vittoria consiste proprio nella fede (v. 4). All’interno di questi, che formano inclusione, i versetti 2-3 dicono il risvolto pratico della fede, l’aspetto visibile della figliolanza divina: amare Dio e osservare i suoi comandamenti.
La breve pericope si chiude con l’unica ricorrenza del sostantivo «fede» (pistis) in Giovanni (che usa sempre la forma verbale «credere»), quasi un sigillo a conclusione di tutta la sezione parenetica sull’amore, un «amen» di adesione e conferma. Non è sogno o speranza, ma certezza: «che ha vinto», participio aoristo, indica l’azione puntuale, compiuta una volta per sempre nell’atto della redenzione: la fede in Cristo ci rende partecipi per sempre della sua vittoria sul mondo, sul male, sulla morte.
vv. 5-9 – La parola-chiave «fede» è anche la parola-gancio che opera il passaggio alla sezione successiva. Giovanni ribadisce il ragionamento rovesciandolo, il cerchio si chiude: chi crede è nato da Dio, chi è nato da Dio vince il mondo, chi vince il mondo è chi crede che Gesù è il Figlio di Dio (v. 5).
Nel vv. 1 -4 domina la fede come prassi (il comandamento dell’amore) e la sua conseguenza (la vittoria sul mondo), ora si espone la fede come contenuto, la fede cristologica. Contro l’eresia gnostica che negava l’incarnazione, vedeva in Gesù solo una figura mistica senza consistenza storica, e predicava perciò una fuga dal mondo e l’irrilevanza dell’impe-gno concreto per i fratelli, Giovanni ribadisce qui, come già all’inizio della lettera, la storicità dell’incarnazione.
Il Figlio di Dio è venuto non con acqua soltanto, ma con sangue: non con un battesimo solo rituale e simbolico, ma in una persona concreta. Il Cristo è «colui che è venuto» (participio aoristo), in riferimento alla vicenda storica di Gesù di Nazaret; lo Spirito è «che dà testimonianza» (presente), con riferimento alla situazione attuale della comunità che riceve e
ritrasmette la testimonianza.
L’insistenza di Giovanni su questo punto è significativa: ben nove volte in cinque versetti (6-10) si ripete l’espressione «testimonianza», attestazione sicura, a garanzia dell’evento centrale della storia della salvezza. È innanzitutto testimonianza dello Spirito di verità (v. 6). Poi testimonianza che viene dall’azione sacramentale, segno visibile ed efficace della grazia: Spirito, acqua e sangue (v. 8). La comunità primitiva ha letto in questa triplice testimonianza anche un’intenzione trinitaria, espressa nel cosiddetto «comma giovanneo», un’aggiunta che compare in alcuni codici dalla fine del IV secolo e parla di testimonianza «in cielo» del padre, del Verbo e dello Spirito Santo. Giovanni accosta infine — non in contrasto ma in continuità — la testimonianza degli uomini, cioè dei credenti, alla testimonianza di Dio, la più grande, fondamento di tutto il resto.
✝ Vangelo: Marco 1,7-11
In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Esegesi
Il battesimo di Gesù è riportato sia dai Sinottici che da Giovanni. Essendo ben difficile che la comunità cristiana delle origini avrebbe potuto immaginare Gesù sottoporsi al battesimo di purificazione, se di ciò non fossero esistite sicure testimonianze, la storicità sostanziale dell’episodio ne risulta tra l’altro più che evidente.
Il racconto in Marco è scarno ed essenziale. Dopo aver presentato l’apparizione del Battista come compimento della profezia di Isaia (vv. 2-3; cfr. Is 40.3) e averne descritto rapidamente la predicazione e lo stile di vita (vv. 4-6), l’evangelista riporta la testimonianza del Precursore (vv. 7-8).
v. 7 – Marco omette la domanda (riportata da Luca e Giovanni) sull’identità del Battista, e riferisce solo la risposta, facendone il contenuto di tutto il suo messaggio: «Giovanni proclamava…».
La prima parola è «viene» (èrchetai) al presente: è già qui, la sua comparsa è immediata, urgente. Il Messia non è nominato (né Gesù si presenterà mai come «Messia»), ma adombrato da un comparativo, «colui che è più forte di me». L’aggettivo è frequente nel Nuovo Testamento, spesso attribuito alla potenza di Dio, degli angeli, o anche dei demoni; «colui che viene» è presentato come liberatore e giudice.
La relazione con il Battista è espressa in forma paradossale: «dopo (opiso) di me» indica la posizione dello schiavo rispetto al padrone, e tuttavia qui colui che «sta davanti», il Battista, non è degno di svolgere neanche il servizio più umile, sciogliere i calzari, che nemmeno a uno schiavo poteva essere imposto.
v. 8 – La contrapposizione «il più forte / il non degno» diventa qui «battesimo di acqua / battesimo di Spirito». La differenza nell’uso del verso enfatizza la discontinuità tra il Battesimo e Gesù: «vi ho battezzato», aoristo, un’azione puntuale, conclusa e priva di conseguenze rilevanti; «vi battezzerà», futuro, inaugura il tempo messianico e apre alla vita nuova.
v. 9 – L’arrivo di Gesù è improvviso, apparentemente senza collegamento con ciò che precede; solo le notazioni geografiche, Nazaret e il Giordano, ancorano l’evento a una situazione storica e ne riducono l’aspetto mitico.
A differenza di Matteo (3,13-15) che registra l’obiezione del Battista, di Giovanni (1,29-34) che non esplicita il battesimo ma sottolinea la testimonianza, e anche di Luca (3,21) che sorvola accennandovi appena con un participio, Marco è preciso, con un’indicazione secca e puntuale che non ammette riserve: «fu battezzato nel Giordano da Giovanni».
v. 10 – La visione è improvvisa: subito (euthýs), mentre Gesù esce dall’acqua, come Mosè uscito dall’acqua del Nilo per liberare il popolo (cfr. Is 63,11).
«vide»: il soggetto è Gesù. Non è chiaro qui se la visione e la voce vengono percepite anche dagli altri, come sembra il caso negli altri Sinottici, mentre in Giovanni la visione è attribuita al Battista.
I cieli si aprono: è la precondizione alla discesa dello Spirito. L’immagine della colomba è rara, non ci sono riscontri: troppo vago il parallelo di Cant. 2,12 e delle Odi di Salomone, mentre l’uccello che scende con funzione rivelatoria è un motivo abbastanza comune nelle mitologie dell’Antico Vicino Oriente.
v. 11 – Più frequente nella Bibbia la voce che proclama l’eletto. I riferimenti lessicalmente più vicini sono Gen 22,2 (Isacco, l’unico, è detto come qui agapetòs nella versione greca dei LXX); Sal 2,7 («tu sei mio figlio», la formula dell’investitura regale); Is 42,1 (il Servo è l’eletto in cui Dio si compiace).
Il confronto con Is 42,1 nella versione dei LXX, che rende il verbo ebraico con un aoristo, induce a interpretare anche qui l’aoristo eudòkesa («ho posto il mio compiacimento ») con valore di presente, nel senso di una condizione continuativa, uno stato d’animo permanente di amore e predilezione verso l’eletto.
La proclamazione e la visione dello Spirito consentono di gettare uno sguardo sulla consapevolezza che Gesù poteva avere della propria intima relazione con Dio, dalla quale procedeva la sua coscienza della vocazione messianica.
Meditazione
Battesimo del Signore, domenica cerniera: si conclude il tempo natalizio, inizia quello ordinario. Abbiamo appena terminato di celebrare la nascita di Gesù e già lo ritroviamo adulto, alla sua prima manifestazione pubblica; si passa dal ruvido calore del presepio all’acqua rigeneratrice del Giordano. Di fatto, oggi siamo invitati a saldare in unità il nostro sguardo sull’unica esistenza di Gesù, a tenere insieme gli inizi della sua vita, solo apparentemente sereni – nascita in viaggio lontano da casa, trasferimento forzato in Egitto, strage degli innocenti! -, con la sua esigente maturità, accompagnandolo nel suo cammino di crescita umana e spirituale.
Un elemento fisico si impone nelle letture che la liturgia oggi ci propone: l’acqua. Sempre più oggetto oggigiorno di interessi anche economici, l’acqua è quanto di più necessario alla nostra esistenza: per dissetarci, lavarci, irrigare. Può così diventare veicolo privilegiato per rappresentare il nostro desiderio di essenzialità e verità.
Nella prima lettura il profeta Isaia ci invita a prendere coscienza della nostra insopprimibile fame e sete di autenticità e quindi a scegliere di alimentare la nostra vita con quanto il Signore mette a disposizione, gratuitamente, per tutti. Ci sono, infatti, cibi che non saziano, forse neanche nutrono: certamente non fanno crescere. Sappiamo, desideriamo porgere l’orecchio del nostro cuore a questa parola antica, ascoltare per vivere?
L’acqua è soprattutto presente nella scena narrataci nell’evangelo, dove incontriamo di nuovo un altro profeta, Giovanni, che ridesta la nostra attenzione e la nostra curiosità annunciando la venuta di una figura forte, più forte anche di lui… Giovanni sta battezzando, sta cioè compiendo un rito simbolico che traduce in gesto esteriore il desiderio di purificazione, di cambiare la propria esistenza: si annega una parte di sé per lasciar spazio ad altro. La figura che Giovanni annunzia non avrebbe battezzato solo con acqua ma con lo Spirito Santo, nella potenza di Dio.
L’austera persona di Giovanni e il suo incisivo messaggio mettono pertanto negli ascoltatori, anche in noi, l’aspettativa di una immensa forza che sta per giungere. Di fatto, il personaggio atteso è lo sconosciuto Gesù, proveniente da un modesto villaggio della Galilea, Nàzaret. Ma costui sembra ben distante dalle parole che lo hanno annunciato. Anziché compiere gesti di potenza che lo separano dalle altre persone, si incolonna con chi sente il bisogno di manifestare anche pubblicamente la propria inadeguatezza e con loro riceve – anziché amministrarlo! – un battesimo. Si associa ai peccatori desiderosi di vedere agire in sé l’azione di Dio e si ‘lascia fare’. Che contrasto! Non è l’entrata in scena di un potente, di un personaggio, di un forte, anzi, di uno più forte di altri… È un inizio molto defilato, che apre però a insospettate novità.
Infatti, appena battezzato, appena cioè Gesù ha accettato e scelto per la propria vita questa dinamica di morte e rinascita, riceve addirittura dal cielo una conferma al proprio stile di vita. I cieli letteralmente si strappano: sembra che Dio abbia urgenza di far pervenire a Gesù tutta la sua stima, la sua benevolenza e predilezione, di fargli giungere la sua stessa forza: lo Spirito Santo.
L’autentica forza di Dio non è però muscolare (tale da annientare magari chi non è in linea con noi), non è neanche la sola buona volontà: è la tenacia di chi si pone alla ricerca dei segni della presenza di Dio in uno stile di condivisione, di solidarietà con i più poveri e lontani. Cosa avrà capito, pensato, provato Gesù? Chissà… Di fatto cercherà subito di approfondire questo dialogo che Dio ha voluto aprire con lui trascorrendo un tempo intenso in un luogo adatto, il deserto. Qui certamente elaborerà i primi passi del suo ministero pubblico ma soprattutto assumerà in modo irrinunciabile uno stile di vicinanza, che «il Padre», come più tardi egli chiamerà Dio, gli conferma in modo solenne. Cosa davvero colma la nostra sete di rendere piena la nostra vita? Il Messia forte annunciato da Giovanni o quello più forte incarnato da Gesù? Quale acqua ci disseta davvero? Davvero una parola inattesa, inaudita quella che il racconto evangelico oggi ci riporta. Che segna vistosamente come le nostre vie non siano quelle di Dio! Eppure sono quelle che Dio ha scelto per irrigare la terra della nostra esistenza e per farla crescere, maturare fino al suo compimento.
Come con Gesù, Dio ha scommesso su di noi, ‘regalandoci’, nel battesimo, il suo Spirito, la sua ‘forza’ di condivisione. La parola di Dio ci dà la possibilità di rendere attiva la morte e risurrezione in cui siamo stati battezzati, di far sì che la nostra vita sia davvero trasformata come quella di Gesù in una solidarietà mite e discreta, ma efficace e autentica.
Commento a cura di don Jesús Manuel García