Prima lettura: 2Maccabei 7,1-2.9-14
L’episodio raccontato s’inserisce nel contesto della persecuzione d’Antioco IV Epifane che voleva imporre la cultura greca al popolo ebraico (167-164 a.C.). Viene ricordato il martirio dei sette fratelli, esortati dalla loro madre a testimoniare la fede. Non solo essa ha passato loro la fede, ma li sostiene nel momento del pericolo. Di fronte a loro il re in persona assiste al supplizio. Egli rappresenta la luce della cultura ellenica, verso la quale molti ebrei sono attirati e per questo sono disposti al compromesso. Quello che divide la madre dei sette fratelli e il re è una concezione opposta della vita.
Per il re la vita viene dalla cultura e dalla ragione, per la madre ebrea è un dono di Dio, perciò nessuna forza umana la può veramente togliere. Come la madre anche i figli, ricchi di questa fede, si sentono liberi di perdere questa vita, per riceverla dalle mani di Dio: È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati (v. 14). Anche per gli empi ci sarà una risurrezione, ma non per la vita (v. 14b). Vivranno eternamente la morte. Cf. Gv 5,29: «quelli che fecero il bene per una risurrezione di vita, quanti fecero il male per una risurrezione di condanna».
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Seconda lettura: 2Tessalonicesi 2,16-3,5
Paolo aveva in pochissimo tempo evangelizzato a Tessalonica, ma era stato sufficiente perché nascesse una comunità fervorosa, che si mantiene fedele al suo Signore Gesù anche nella diaspora e attaccata dalla mentalità greca e dalle gelosie ebraiche. L’apostolo tuttavia non chiude gli occhi su alcuni problemi esistenti nella comunità e interviene a rettificare i malintesi riguardanti alcuni temi della fede tramandata: la Parusia che alcuni ritenevano imminente determinando atteggiamenti di pigrizia e di disordine.
Nel nostro brano Paolo esprime gli auguri e chiede preghiere alla comunità. Non sono delle pure espressioni formali, ma sintetizzano la fede che lui stesso aveva loro insegnato. lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro… conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene (v. 17). Con questo augurio viene ricordato ai cristiani che il presente è importante. È proprio esso che fa germogliare il futuro di gloria. La vita quotidiana deve essere vissuta nell’amore di Dio e nella pazienza di Cristo (3,5): due qualità teologiche irraggiungibili dalle sole forze umane.
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La prima non è che la partecipazione alla vita divina, la seconda è l’accettazione delle croci seguendo le orme di Cristo.
Il cristiano sa che il Signore gli ha dato una consolazione eterna e una buona speranza (2,16). Pur non alienandosi dalla storia concreta, adempiendo tutti i doveri di cittadini, la sua vera patria è il cielo e già qui sulla terra vive da celeste.
Vangelo: Luca 20,27-38
Esegesi
Gesù si trova a Gerusalemme nel momento culminante della sua missione. Proprio a Gerusalemme era orientato tutto il suo cammino.
Qui insegna pubblicamente presso il tempio e tutti pendono dalle sue labbra. In questo clima s’inseriscono le controversie con gli scribi e con il gruppo loro avversario, che non credeva nella risurrezione dei corpi, i Sadducei. Gesù per loro è un rabbi, un maestro, al quale possono fare delle domande su questioni di fede. E gli pongono un caso curioso d’applicazione della legge del levirato (cf. Gn 38,8; Dt 25,5-10). Sette fratelli, scrupolosi osservanti della legge mosaica, presero uno dopo l’altro come moglie la stessa donna; questa donna, dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie? (v. 33).
Gesù risponde innanzi tutto che il mondo futuro non è simile al presente. I figli di questo mondo, quelli che appartengono a questo mondo in cui vivono, sono legati da legami che caratterizzano la vita materiale: rapporti sessuali, vincoli coniugali, procreazione (v. 34).
Quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione (v. 35) sono coloro che hanno ricevuto la grazia di partecipare alla risurrezione. Lo sguardo di Luca è rivolto in particolare agli eletti alla vita eterna. Essi vivono una vita da figli della risurrezione, cioè da risorti, in quanto sono figli di Dio. Questo fatto fonda la risurrezione: la vita che essi possiedono mediante la risurrezione è una vita che non viene da generazione carnale. Sono uguali agli angeli (v. 36), perché il loro corpo è spiritualizzato.
Gesù quindi si richiama alla Scrittura per confermare il fatto della risurrezione di tutti gli uomini. Dio si è rivelato a Mosè nel roveto ardente (Es 3,2) come Dio d’Abramo, Dio d’Isacco e Dio di Giacobbe, cioè come Dio dei vivi (v. 37). La loro vita viene da Dio, perché tutti vivono per lui (v. 38b), quindi non può finire con la morte. Abramo, Isacco e Giacobbe non sono vivi nel ricordo dei figli da loro generati, ma perché essi sono generati da Dio. Qui si pensa a tutti coloro che sono destinati alla vita eterna, ma in v. 37 si parla in generale della risurrezione dei morti (cf. anche Mc 12,26).
Meditazione
La morte per martirio di sette fratelli in epoca maccabaica attesta la fede nel Dio capace di far risorgere i morti (I lettura); il caso (una finzione costruita ad arte) dei sette fratelli che sono morti senza lasciare figli dopo avere sposato in successione la stessa donna, viene giocato dai Sadducei per mettere in ridicolo la credenza nella resurrezione dei morti (vangelo). Al centro delle letture odierne vi è dunque la fede nella resurrezione dei morti.
Se il caso presentato dai Sadducei a Gesù appare evidentemente grottesco e incredibile, tuttavia la posizione espressa da tale episodio fittizio raggiunge l’uomo d’oggi e anche i credenti. I Sadducei «dicono che non c’è risurrezione» (Lc 20,27) e la storiella dei sette fratelli ha il fine di volgere in ridicolo tale credenza, di dimostrarne l’assurdità. Oggi alla posizione ‘colta’ che critica il cristianesimo che con la resurrezione dimostrerebbe di non saper abitare il tragico come gli antichi greci, e a quella che vede nella resurrezione un’evasione nell’aldilà, un inverificabile happy end consolatorio apposto alla drammaticità della storia, si affiancano la reticenza e l’imbarazzo che a volte abitano gli stessi credenti di fronte alla fede nella resurrezione. A volte non siamo poi così distanti dalle posizioni dei Sadducei! Forse ci scandalizza di più la resurrezione che la morte di croce. Dunque, il primo messaggio che emerge dal testo è la fede nella resurrezione come scandalo.
Ma è uno scandalo che si oppone all’ovvietà della morte. La resurrezione è tutto fuorché ovvia. È l’incredibile per eccellenza, e dunque il vero contenuto della fede. La fede cristiana è fede nella resurrezione e la fede nella resurrezione è, tout court, la fede cristiana. Fede che Cristo è risorto dai morti e fede che i morti risorgeranno in Cristo. «Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede» (1Cor 15,17); «Se non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto!» (1Cor 15,13).
La risposta che Gesù dà ai Sadducei indica certamente che la resurrezione è già attestata nella Torah perché Abramo, Isacco e Giacobbe sono viventi in Dio. I patriarchi che hanno vissuto per Dio ora vivono in lui e grazie a lui («tutti vivono per lui»: Lc 20,38). Il discorso sulla resurrezione viene così riportato all’oggi e alle motivazioni del vivere oggi. E dal testo emerge una domanda: per chi vivo? Perché vivo? Grazie a cosa vivo? Che cosa mi fa vivere? Se la domanda-trabocchetto dei Sadducei nasconde anche una serietà, questa riguarda certamente il futuro delle nostre relazioni, del nostro amore, dell’amore che abbiamo speso oggi. E la risposta di Gesù, oltre a contestare una visione della vita futura come prosecuzione di questa, come proiezione e prolungamento del presente, la strappa anche a speculazioni astratte e riporta all’oggi storico il credente interpellandolo sulle motivazioni del suo vivere. Chi ha una ragione per morire, ha anche una ragione per vivere. Chi ha una ragione per cui dare la vita, ha anche una motivazione per vivere.
L’argomentazione studiata dei Sadducei induce anche un’altra riflessione. Il caso dei sette fratelli che, uno dopo l’altro, lasciano vedova la stessa donna che alla fine muore lei pure, è sì un caso artefatto, ma la vita è piena di casi tragici che spesso sono molto più dolorosi di quanto la fantasia possa immaginare. La riduzione del dolore umano, di un caso tragico, a argomentazione dialettica, dice anche il cinismo e la possibile violenza della parola quando si riduce la realtà a casistica, oppure quando si scinde dalla compassione umana. Criterio di verità della parola, e anche della parola teologica, è il suo sentire il dolore umano, il suo lasciarsi abitare dalla sofferenza umana, e dunque il suo rifiutarsi di manipolare il dolore altrui e, per quanto possibile, di aggiungere dolore a dolore, di creare sofferenza inutile. Il discorso teologico e pastorale riesce a raggiungere e toccare il credente nel tragico della sua esistenza? O lo usa per difendere o sostenere una posizione dottrinale?
Commento a cura di don Jesús Manuel García