Esegesi e meditazione alle letture di domenica 5 Giugno 2022 – don Jesús GARCÍA Manuel

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L’azione formativa di Gesù sulla comunità apostolica era sostanzialmente completata. Mancava però un elemento, certo non trascurabile, per conferire organicità, profondità, pienezza di vedute e forza di azione. Gesù stesso lo aveva richiamato, esigendo dagli apostoli di non muoversi da Gerusalemme prima del compimento della promessa (cf. At 1,4). In modo esplicito, poi, aveva parlato della forza dello Spirito Santo che li avrebbe resi testimoni a Gerusalemme e nel mondo intero (cf. v. 8).

Luca ci regala nel secondo capitolo degli Atti due splendide icone, quella dello Spirito (2,1-13) e quella della Parola (2,14-41). La seconda dipende in modo determinante dalla prima: lo Spirito è la forza aggregante che fa di vari gruppi una comunità; la Parola è il dono che la comunità ha il compito di vivere e di comunicare agli altri. La lettura odierna si interessa della prima parte del capitolo, composta da una introduzione, con soggetto e luogo (v. 1), dalla rappresentazione del fatto e delle sue conseguenze sugli interessati (vv. 2-4), e, infine, dall’effetto su scala mondiale (vv. 5-11).

Il giorno di Pentecoste segna il compimento della formazione data da Gesù. La piccola e timorosa comunità ecclesiale sta riunita insieme. Possiamo ritenere che sia la stessa, vista precedentemente raccolta in preghiera e formata da apostoli e laici, da uomini e donne (cf. At 1,14). «Mentre stava compiendosi il giorno…» indica, più che una conclusione (sono appena le ore 9 del mattino), un compimento, come ben suggerisce il verbo greco, symplêroô, allusione al compimento di una storia di promesse e di attese (cf. Lc 9,51).

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L’esperienza dello Spirito avviene mediante i segni teofanici del vento e del fuoco che vengono dal cielo; non si tratta di suggestione umana, bensì di dono dall’alto. L’esperienza è soprattutto interiore, ma c’è bisogno di un riscontro esteriore che documenti la nuova realtà (cf. il caso del paralitico di Mt 9,l-8). Ecco allora il «parlare in altre lingue». Forse per questo nuovo parlare in lingue si propone l’immagine di «lingue come di fuoco». A detta di Fabris, questa immagine è suggerita dalla tradizione giudaica circa il dono della legge o della parola al Sinai. Secondo una tradizione testimoniata da Filone e dai Targumim, la voce di Dio si divise in più lingue (Tg Dt 32,2), addirittura in 70 lingue perché tutte le nazioni potessero comprendere. Luca vuole dire che TUTTI sono ora abilitati dal dono dello Spirito ad essere profeti. La vera identità della comunità non si fonda sulla legge, ma sul comune dono ricevuto E sarà questo dono che permetterà di penetrare la legge e di viverla dall’interno realizzando la profezia di Ger 31,31-34 e di Ez 36,25-28.

Che sia finito il tempo di gruppi elitari, lo si capisce dal concetto di totalità, ben espresso mediante un elenco di diversi gruppi di giudei che provenendo da varie parti, sentono un solo linguaggio. Si incontra infatti una lista di 13 popoli e paesi che Luca riporta per sottolineare, secondo la geografia imperiale dell’epoca, il senso di universalità. La lista è divisa in tre parti. Dapprima compare un gruppo di tre popoli che si trovano oltre il confine orientale dell’impero: «Siamo parti, medi ed elamiti» segue un secondo gruppo con nove regioni: «abitanti della Mesopotamia…»; un terzo gruppo si differenzia dai precedenti presentandosi così: «Romani qui residenti». Si distingue poi tra «Giudei e proséliti» (differenze etnico-religiose) e «cretesi e arabi», equivalente alla distinzione tra «abitanti delle isole e della terra ferma» (differenza culturale). Come si può osservare, la linea geografica si è mossa dall’area mediorientale per arrestarsi a Roma, dopo essere passata per le zone intermedie che collegano idealmente Gerusalemme con Roma. In quel giorno a Gerusalemme sono convocati i rappresentanti dei futuri cristiani. Insomma, il dono dello Spirito arriva a tutti.

Lo Spirito non restituisce agli uomini un identico linguaggio ma permette agli apostoli di parlare a individui di ogni lingua e di essere da loro compresi. Si scorge l’intento universalistico della Chiesa che hanno dalla sua origine. Sa missione di portare a tutti i popoli il messaggio del suo Signore.

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Lo Spirito dono del Padre richiesto da Gesù, ha pure una sua ‘sacramentalità’ che la prima lettura si impegna a registrare. Non si tratta di una ‘fotografia’, ma neppure di un vago simbolo. Il testo registra dei fatti arricchiti da quella comprensione piena che permette di cogliere la sostanzialità degli eventi. Una fotografia mostra senza spiegare un simbolo spiega senza mostrare. Dalla combinazione nascono le pagine evangeliche e di tutto il N.T.: felice connubio tra storia e teologia (cf. Dei Verbum, 19).

v Il cap. 7 si chiudeva con una angosciosa domanda alla ricerca di un liberatore e contemporaneamente con la serena speranza di poterlo trovare in Cristo: a lui veniva indirizzata una preghiera di ringraziamento. Il cap. 8 dà spessore storico-teologico a tale speranza ed ha come tema la nuova condizione esistenziale del credente, ormai liberato dalla potenza del peccato, dalla morte e della legge e in tensione, sotto la guida e la mozione dello Spirito, verso la pienezza della redenzione.

Lo Spirito è il centro focale del cap. 8: lo si nota anche statisticamente perché ritorna 20 volte in questo capitolo su un totale di 32 in tutta la lettera. Qui, tra l’altro, è posto in antitesi con la carne. L’antitesi Spirito-carne contiene diverse varianti (cf. vv. 4.5.6.8-9.12.13) le quali indicano che la contrapposizione abbraccia l’essere, l’agire, il vivere, l’orientamento, il pensare dell’uomo. Siamo quindi in presenza di determinazioni centrali, essenziali, tanto importanti da determinare il presente e anche il futuro (cf. v. 13).

L’antitesi paolina non deve essere confusa o assimilata con altre che potrebbero sembrare simili, mentre sono in realtà profondamente diverse. Il mondo greco, per esempio, conosceva l’antitesi tra anima e corpo, la prima spirituale e immateriale, il secondo concreto e materiale. Paolo si orienta molto diversamente: per lui l’antitesi ha carattere dinamico, esistenziale e coglie l’uomo come unità psicofisica e non come composto, alla maniera greca.

Per Paolo lo Spirito e la carne sono due opposti dinamismi che orientano radicalmente tutta la vita. Inoltre lo Spirito non rappresenta una possibilità autonoma dell’uomo, un possesso che si ritrova fin dalla nascita solo perché si è uomini, ma è un dono di Dio.

È di questo dono che bisogna vivere, per non essere debitori alla carne, principio della prassi egocentrica. Paolo ricorda la scelta fatta dai cristiani di Roma e illustra, in modo chiaro, la dimensione trinitaria della vita: «Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene» (v. 9). Non avere lo Spirito equivale a privarsi del dono di Dio, della sua stessa vita, che al v. 10 riprende il nome di ‘giustificazione’, tema ampiamente trattato nei capitoli precedenti. Ora lo stesso tema si arricchisce, sia contenutisticamente perché, si comprende l’azione dello Spirito, sia linguisticamente, perché si introduce il concetto di ‘vita’ (cf. v. 11). Quello di vita è un termine facilmente comprensibile che illustra ulteriormente quello meno comune di giustificazione.

Dopo aver trattato dell’antitesi Spirito-carne, prende avvio il tema della figliolanza divina che si spinge fino al v. 30 (ben oltre il brano liturgico). L’esperienza dello Spirito è tematizzata come esistenza da figli di Dio. È la vita dinamica, ancora in fase di sviluppo come si vede dal tema dell’attesa, ma già orientata verso la meta. Il v. 14 e la tesi teologica che regge tutto il brano, fondata su due poli, la guida dello Spirito e la figliolanza divina: la seconda dipende dalla prima.

Lo Spirito, principio di vita nuova in quanto abilita ad essere figli di Dio, è anche principio di preghiera nuova. Tale novità non si limita al solo insegnamento, ma egli stesso prega in noi. Non dice quello che dobbiamo fare, ma lo fa con noi. Egli ci fa dire Abbà. Formula sconosciuta al giudaismo, è invece caratteristica del Figlio di Dio, Gesù Cristo. Lui solo poteva dire in tutta libertà tale titolo (cf. Mc 14,36), e lui solo poteva autorizzare i credenti a ripeterlo (cf. Gal 4,6). Giunge così a conclusione il cammino dell’Antica Alleanza: si era partiti da una paternità rispettosa ma lontana, e si arriva ad una paternità, sempre rispettosa ma confidenziale. Gesù ha insegnato a colloquiare con Dio con il linguaggio semplice, spontaneo e fiducioso del bambino che si rivolse a suo padre chiamandolo teneramente ‘papà’, ‘babbo’. È lo Spirito che fa ripetere questa dolce parola, che infonde il sentimento della figliolanza divina che ci fa sentire figli di Dio (cf. v. 16). Anche da questa prospettiva si coglie la dimensione trinitaria della vita cristiana.

Esegesi

Si comprende la scelta del brano evangelico nel contesto della solennità odierna. Il testo tratta ovviamente dello Spirito Santo, presentando alcuni aspetti della sua molteplice attività. Da quello che Egli fa, veniamo a sapere qualcosa di quello che Egli è. Egli agisce in stretta relazione sia con Gesù e il Padre, sia con la comunità ecclesiale, rappresentata dai discepoli.

All’interno dei discorsi di addio Giovanni inserisce cinque affermazioni tipiche e originali sullo Spirito Santo, chiamate spesso dagli studiosi ‘le cinque promesse’. Diamo una essenziale mappa di orientamento. La prima e seconda promessa sono all’interno del primo discorso (14,16-17 e, 14,26), la terza nel secondo discorso (15,26-27), la quarta e la quinta nel terzo discorso (16,5-11 e 16,12-15). Il nostro brano contiene le prime due.

Vi troviamo, per lo Spirito, il particolare titolo «Paraclito». Esso compare in tutto il NT cinque volte e ricorre solo nei discorsi di addio (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7) e nella prima lettera di Giovanni (1Gv 2,1). Doveva essere un termine noto ai primi destinatari, perché provvisto di articolo determinativo; lo è meno per noi. Il significato base è quello di ‘chiamato presso’ (dal greco kaléo ‘chiamare’ e pará ‘presso’, cf. latino advocatus, italiano ‘avvocato’). Non sembra avesse un significato tecnico, indicando piuttosto un amico o una persona di fiducia ‘chiamata in aiuto’ in occasione di crisi o difficoltà. La radice greca indica anche il conforto, la consolazione che, sappiamo da altri scritti (cf. 1Cor 14,1-3; At 9,31) apparteneva all’attività dello Spirito. Da qui i tentativi di traduzione italiana che propongono

«Avvocato» o «Consolatore» (testo ufficiale), cogliendo aspetti veri ma, tutto sommato, sempre parziali. Nell’impossibilità di trovare un equivalente esatto, molti preferiscono usare anche in italiano il termine greco «Paraclito».

Un’abbagliante luce pasquale si stende sul presente brano e su tutti i discorsi di addio. La dipartita di Gesù non è una partenza senza ritorno, né una partenza infruttuosa. Con la sua morte e risurrezione egli «prepara un posto», cioè rende possibile ai discepoli la comunione con il Padre. Non si tratta, ovviamente di un posto in senso spaziale o geografico, ma di un ‘luogo teologico’ nel senso di immettere i discepoli nel circuito della relazione trinitaria. Il posto potrebbe essere meglio definito come ‘incontro’ con la persona del Padre. Cristo è colui che è via, o mezzo, che rende possibile tale incontro. Quello che è stato Gesù durante la sua presenza fisica, lo sarà lo Spirito nel ‘tempo della Chiesa’. Gesù aiuta i suoi a sbirciare un poco nella vita eterna. Egli diventa la via che conduce al Padre al quale lo lega una relazione unica, espressa precedentemente con una frase lapidaria che vale un trattato di teologia: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Grazie a questa comunione di vita, aggira il problema della inaccessibilità del Padre e ne diventa il rivelatore per eccellenza: «Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9).

Nonostante queste fulminanti rivelazioni, i discepoli si trovano nella zona d’ombra di smarrimento interiore perché Gesù ha annunciato la sua dipartita. Egli allora enuncia la prima delle cinque promesse dello Spirito (vv. 16-17). Notiamo che Gesù parla di «un altro Paraclito», ovviamente perché ritiene se stesso il primo Paràclito; egli ha assicurato ai discepoli la sua presenza e ha svolto la funzione di guida, compiti che ora trasmette allo Spirito.

Il v. 26 concentra l’attenzione sulla natura del rapporto misterioso che unisce l’insegnamento dello Spirito e quello di Gesù. Nel «mio nome» indica la perfetta comunione con il Padre e il Figlio nella missione dello Spirito. Se lo Spirito è inviato nel nome di Gesù, allora suo compito sarà quello di rivelare il Cristo, di fare conoscere il suo vero nome di Figlio di Dio che esprime sotto il mistero della sua persona. L’insegnamento dello Spinto e la sua azione di ricordare hanno un unico e medesimo oggetto: l’insegnamento di Gesù nel suo insieme. Di conseguenza non esiste un insegnamento dello Spirito indipendente da quello di Gesù. Il fatto è di grande importanza teologica perché si dice che lo Spirito non apporta nulla alla rivelazione di Gesù, il solo che sia LA PAROLA (Logos). L’attività dello Spirito sarà eminentemente attività di interiorizzazione di quello che Gesù ha detto e fatto.

Esiste quindi una continuità tra l’opera di Gesù e quella dello Spirito, pur nel diverso tipo di presenza. Tale continuità viene evidenziata dall’attività dello Spirito che riprende, per una interiorizzazione e comprensione più matura, l’insegnamento di Gesù (vv. 25-26). Il ‘nuovo Paraclito’ avrà la funzione di continuare, quasi di prolungare, l’attività di Gesù. Vediamo alcuni paralleli: Gesù pregherà il Padre perché lo Spirito rimanga con i credenti per sempre (14,16); attraverso tutto il IV Vangelo si dice che Gesù è stato con i suoi (3,22; 6,3); soprattutto durante l’ultima Cena Gesù richiamerà questi rapporti familiari. In 14,26 si dice che lo Spirito dovrà insegnare; Gesù è sempre stato maestro (6,59; 7,14). Più avanti, fuori dal testo proposto dalla liturgia odierna, in 16,8 lo Spirito mette in luce il peccato del mondo; Gesù non solo è la luce che fuga le tenebre del mondo, ma pure denuncia ripetutamente il peccato dei suoi avversari (8,21).

Inoltre Gesù rimprovera al mondo di non essersi accorto della presenza dello Spirito nella sua missione terrena: ecco il significato del ‘non vedere’ e quindi del ‘non conoscere’ (cf. v. 17). Il rifiuto di Gesù da parte del mondo, cioè i Giudei, è il rifiuto dello Spirito. In ben altra situazione si trovano i discepoli che hanno accolto Gesù.

Quello dello Spirito è un dono che Gesù chiede al Padre. Ne viene un bel quadro che raffigura i discepoli in intima relazione con la Trinità. La comunità non è qui sola, né abbandonata alla furia devastatrice del mondo, perché la presenza dello Spirito la conforta rassicurandola che Gesù è sempre con lei, vivo e operante: è un perenne annuncio pasquale. Nasce una nuova famiglia, amata dal Padre, fondata da Gesù, animata dallo Spirito.

Meditazione

«Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste» (At 2,l): Luca introduce il racconto della discesa dello Spirito sugli apostoli radunati a Gerusalemme sottolineando che ciò che accade è un evento di compimento. Si compie la Pentecoste, si compiono i cinquanta giorni della Pasqua. Nella discesa dello Spirito Santo giunge a compimento il mistero pasquale, proprio perché lo Spirito ci viene donato per renderci pienamente partecipi della morte e risurrezione del Signore Gesù; del suo amore e dell’amore del Padre che in modo insuperabile la Croce rivela; della vita nuova e risorta che dalla Croce scaturisce.

San Paolo lo ricorda con vigore nel brano della lettera ai Romani che ascoltiamo come seconda lettura nell’eucaristia di questo giorno. «E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (v. 11). Poco dopo aggiunge: «tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (vv. 14-15).

Nello Spirito diveniamo eredi di Dio e coeredi di Cristo: quello che lui vive e che costituisce la sua più intima identità la comunione d’amore con il Padre ci viene comunicato. Per questo motivo, in un altro passo delle sue lettere, Paolo può affermare che «il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà» (2Cor 3,l7). Infatti, solamente nello Spirito possiamo gridare «Abbà, Padre»; è lo Spirito a donarci la libertà dei figli, unificando la nostra vita e trasformandola in un’esistenza filiale, in un vivere da figli e non più da schiavi. Il che implica riconoscersi figli dello stesso Padre e fratelli tra di noi, chiamati ad accoglierci e a comprenderci nonostante la diversità delle lingue parlate da ciascuno. Il segno della Pentecoste fa di Gerusalemme il compimento di quel desiderio che gli uomini avevano cercato di appagare in modo confuso progettando Babele, come città agognata

«per non disperderci su tutta la terra» (cfr. Gen 11,4). Non si può edificare la città di una pacifica convivenza tra gli uomini imponendo a tutti di parlare la medesima lingua. È, al contrario, necessario accogliere il dono dello Spirito che consente di comprendersi continuando ciascuno a parlare la «propria lingua nativa» (cfr. At 2,6.8). Lo Spirito dona la possibilità di questa reciproca comprensione proprio perché insegna a ogni lingua che è sulla terra a gridare anche in questo caso nella ‘lingua nativa’ della propria cultura e della propria tradizione religiosa «Abbà, Padre». La dimensione orizzontale della comunione tra gli uomini può fondarsi unicamente sulla dimensione verticale della loro comunione con Dio, riconosciuto Padre di tutti. Quello che avviene nella Gerusalemme descritta dagli Atti prefigura la Gerusalemme profetizzata dall’Apocalisse, costruita non con mattoni tutti uguali come Babele, ma con pietre preziose, ciascuna diversa dall’altra e rilucente della propria bellezza. La Gerusalemme dell’Apocalisse è insieme città e sposa. L’immagine della sposa allude all’unicità della relazione con il Signore; quella della città alla pluralità di relazioni che gli uomini vivono tra loro. Non si può diventare città senza essere sposa, così come l’essere sposa fa di Gerusalemme una vera città. La relazione con Dio nella quale lo Spirito ci conduce, rendendoci suoi figli ed eredi, fonda un diverso modo di essere in relazione tra noi, non più segnato dalla diffidenza e dall’ostilità, o più semplicemente dall’indifferenza, ma aperto all’accoglienza vicendevole, nella tensione incessante a superare gli steccati dell’incomunicabilità e dell’incomprensione.

Tutto questo non viene semplicemente dallo sforzo umano, ma dall’agire dello Spirito in noi, come frutto maturo della Pasqua di Gesù e dell’amore trinitario che in essa si è manifestato. L’amore fino al compimento (cfr. Gv 13,1) non si arresta prima di giungere a questa soglia, a divenire cioè amore che si compie in noi, consentendoci di amare come siamo stati amati. Anche questo è il dono dello Spirito Santo nella nostra vita: l’amore con il quale il Padre e il Figlio si amano fino a essere una sola cosa, ci viene donato affinché anche noi possiamo divenire uno (cfr. Gv 17,22-23), dimorando stabilmente in questo stesso amore che, direbbe san Paolo, lo Spirito riversa nei nostri cuori (cfr. Rom 5,5).

Questo è anche l’annuncio fondamentale che ci raggiunge oggi attraverso il brano evangelico di san Giovanni. Anzi, l’evangelista giunge ad affermare qualcosa di ancora più audace e insperato: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (v. 23). Occorre rimanere nell’amore custodendo la parola di Gesù. Non si tratta tanto della necessità di osservare un comando estrinseco, proposto o imposto all’obbedienza della nostra libertà; piuttosto è necessario accogliere nella parola di Gesù un principio vitale, che manifesta la sua efficacia proprio comunicandoci l’amore stesso di Dio che, mediante la parola ascoltata e accolta, viene ad abitare in noi e ci trasforma, rendendoci capaci di amare come lui ci ama. Il ‘come’ va inteso non in senso imitativo, ma fondativo. Non significa tentare come possiamo, confidando in noi stessi e nelle nostre deboli forze, di imitare l’amore di Dio che Gesù ci rivela; significa piuttosto che sul fondamento di quell’amore, che la parola ci testimonia e ci comunica, ancorandoci a esso e non a noi stessi, diveniamo capaci di una misura di amore che altrimenti non sarebbe nelle nostre possibilità. Se custodiamo la parola in noi, la parola stessa ci condurrà a dimorare stabilmente nell’amore. Riprendendo le immagini dei vangeli Sinottici (cfr. soprattutto il discorso parabolico di Mc 4), possiamo dire che la parola è un seme che porta il frutto abbondante dell’amore. Anche se è indispensabile l’accoglienza del terreno buono, il frutto non dipende dalla qualità del terreno, ma dalla potenza racchiusa nel seme stesso. Giovanni tuttavia non si accontenta di questa affermazione, si spinge oltre: non solo l’amore di Dio rimane in noi come fondamento delle nostre relazioni; il Padre e il Figlio stessi verranno a prendere dimora presso di noi! Non solo l’amore come dono di Dio, ma la sorgente dell’amore, il Donatore stesso il Dio-Trinità viene a dimorare in noi per fare della nostra esistenza il tempio della sua Gloria.

L’alleanza ora davvero si compie. Tra l’uomo e Dio non c’è più solamente un patto stipulato tra due soggetti, come tale sempre esposto all’infedeltà da parte di uno dei due contraenti (in questo caso l’uomo), e non c’è neppure semplicemente una Legge da osservare come condizione del patto stesso. Ora c’è una reciproca appartenenza nella comunione, addirittura un dimorare l’uno nell’altro. L’uomo dimora in Dio che è amore, il Dio-amore dimora nell’uomo. A sigillare il patto non è più l’osservanza della Legge, il cui dono veniva celebrato nella Pentecoste ebraica; ora è lo Spirito stesso che rimane con noi per sempre. È il respiro di Dio che diviene il nostro respiro; il suo cuore intimo e segreto che trasforma il nostro cuore; l’amore tra il Padre e il Figlio che diviene fondamento e nutrimento del nostro stesso amore. L’amore diviene legge interiorizzata in noi dallo Spirito o, in termini capovolti, lo Spirito interiorizza la Legge in noi unificandola intono al comandamento nuovo, sintesi e compimento di tutti i precetti dell’Alleanza.

Lo Spirito, promette Gesù, rimarrà con noi «per sempre» (cfr. v. 16). Per sempre non indica solamente una durata temporale. Assicura alla nostra vita che lo Spirito rimarrà con noi anche nei tempi e nei luoghi del nostro peccato e della nostra lontananza da Dio, purché custodiamo la parola di Gesù. Non innanzitutto nel senso che le obbediamo fedelmente e senza incrinature (chi di noi ne sarebbe capace?), ma nel senso che diamo credito alla sua promessa, affidandoci alla sua potenza di perdono e di misericordia. Non è una parola qualsiasi quella che dobbiamo custodire, ma quella Parola, l’ultima e definitiva parola pronunciata dal Padre, senza pentimento alcuno, che è la parola della Pasqua, la parola della Croce. Quella Parola che è il Figlio stesso, crocifisso e risorto per noi e per la nostra salvezza. Nel soffio del suo respiro lo Spirito Santo il Padre torna a pronunciare in noi la sua Parola che è il Figlio, per conformarci a lui e chiamare anche noi a divenire suoi figli adottivi. Lo Spirito che abbiamo ricevuto, ci ricorda ancora san Paolo, non è uno Spirito da schiavi, tale da imprigionarci nella paura, ma uno Spirito da figli, che liberando il nostro cuore lo introduce nell’affidamento pieno a colui che possiamo invocare con verità e fiducia come il nostro Abbà, il nostro Padre.

Commento a cura di don Jesús Manuel García