Prima lettura: Siracide 3,19-21.30-31
Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso. Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti. Perché grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato. Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male. Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio.
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Il libro di Gesù ben Sira, tradotto in greco dal nipote e così annoverato fra i cosiddetti «deuterocanonici», è una raccolta di insegnamenti e proverbi risalente al II secolo a.C. e rientra nella letteratura «sapienziale» convenzionalmente attribuita al re Salomone (con Proverbi, Qohèlet, Cantico dei Cantici e Sapienza).
19-20 – La prima coppia di versetti — di stile gnomico — riprende il tema dell’umiltà che troviamo nel Vangelo di oggi. L’autore si rivolge a un «figlio» — il termine indica forse genericamente il «discepolo» — e gli raccomanda l’umiltà e la modestia, perché esse lo renderanno grande agli occhi del Signore. Il concetto è ripetuto con parole diverse, secondo la regola del parallelismo: con mitezza (v. 19a, A) — sarai amato (v. 19b, B); fatti umile (v. 20a, A1) — troverai grazia (v. 20b, B1).
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30. Si descrive qui l’atteggiamento del discepolo ideale, attento all’insegnamento del maestro; attenzione che si manifesta attraverso la riflessione e l’ascolto: nulla di meglio può desiderare il «saggio».
Seconda lettura: Ebrei 12,18-19.22-24
Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola. Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova. |
Il passo della lettera agli Ebrei di cui fanno parte questi versetti parla della pace e della santificazione, indissolubilmente legate alla giustizia, cui il cristiano è chiamato dalla grazia di Dio. L’autore della lettera pone a confronto l’antica e la nuova Alleanza, l’obbedienza e la ribellione alla voce di Dio che parla in Gesù Cristo come ha parlato al Sinai.
18-19 – Con espressioni fortemente evocative viene descritta la teofania che accompagna sul monte Sinai la consegna delle Tavole della legge (cf. Es 19,16), per dire che non è più questa la forma in cui si manifesta la rivelazione. Più che rivelare infatti essa allontanava e incuteva terrore.
22-24a – Si riprende lo stesso verbo («vi siete accostati», proselēlythate) per contrapporre plasticamente alla rivelazione mosaica l’economia del nuovo Patto. Anche qui un monte, non più il Sinai ma Sion, e «alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste»: la mediazione contingente del popolo eletto diventa segno di una nuova, definitiva condizione di salvezza, e introduce alla nuova alleanza nel segno dell’unico mediatore Gesù.
Questa nuova realtà vede uniti a Dio giudice e a Gesù mediatore gli angeli e due gruppi di eletti. Sembra di poter identificare l’assemblea (ekklēsia) dei «primogeniti (prōtotokōn) i cui nomi sono scritti nei cieli» con i giusti dell’Antico Patto, mentre «agli spiriti dei giusti resi perfetti (dikaiōn teteleiōmenōn)» sono i membri della nuova comunità, la Chiesa di Cristo.
Vangelo: Luca 14,1.7-14
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». |
Esegesi
Il primo versetto del capitolo 14, che introduce una guarigione in giorno di sabato (vv. 2-6), una serie di insegnamenti alla comunità (vv. 7-14) e la parabola del banchetto (vv. 15-24), fornisce l’ambientazione (la casa di un fariseo) e soprattutto il clima in cui Gesù opera e insegna: «stavano a osservarlo». Non si tratta tanto di attenzione e interesse alla figura di Gesù, quanto dell’atteggiamento critico e polemico di chi si aspetta di coglierlo in fallo. Segue infatti immediatamente la diatriba sul sabato (vv. 3.5).
Con il v. 7 siamo ancora nella casa dove Gesù, evidentemente invitato a mangiare, vede che gli invitati scelgono «i primi posti a sedere». È lui ora che osserva il comportamento altrui, e coglie l’occasione per dire quella che è chiamata una «parabola», ma è piuttosto un insegnamento arricchito da esempi.
La situazione presentata è molto chiara: un banchetto di nozze in cui gli invitati si dispongono per ordine di importanza. La scena è descritta in un dittico, seguito dal commento conclusivo di Gesù. Sulla prima tavola (vv. 8-9) il caso in negativo: il vanitoso cerca il primo posto, e la conseguenza è una umiliazione maggiore. Sulla seconda (v. 10) il comportamento positivo suggerito da Gesù: chi sceglie l’ultimo posto, riceverà onore ancor maggiore quando sarà chiamato ad avanzare. Il commento di Gesù (v. 11) generalizza la situazione e invita a uscire dal caso concreto e limitato dell’esempio.
È un brano sapienziale classico, che trascende l’ambito banale delle buone maniere per investire la vita ecclesiale della comunità e quella spirituale del singolo. Il discepolo nella comunità deve porsi al servizio dei fratelli, a imitazione del Maestro; e il fedele non deve vantarsi e pretendere un premio, ma riconoscersi peccatore (cf. la parabola del fariseo e del pubblicano. Lc 18,9ss.).
Con il secondo esempio (vv. 12-14) Gesù si rivolge direttamente al padrone di casa; l’argomento è lo stesso, visto ora dalla parte di chi invita.
Si contrappone il comportamento interessato (invitare chi può ricambiare, v. 12) a quello disinteressato e generoso (invitare i poveri, v. 13-14a). La conclusione è a sorpresa, secondo lo stile delle parabole: proprio chi non cerca ricompensa ne avrà una più grande (v. 14b). Anche questo è un tema sapienziale frequente nei Vangeli (cf. Lc 6,31-35).
Il v. 14 ha la struttura di una beatitudine: è «beato» colui che non può avere nulla in cambio, perché proprio per questo avrà in cambio il premio della risurrezione.
Meditazione
L’evangelista Luca dà ampio risalto alle scene conviviali disseminate lungo tutto l’arco del suo vangelo (dal banchetto in casa di Levi, narrato in 5,29-31, fino ai pasti che il Risorto consuma con i discepoli, menzionati al cap. 24). Pare che a Gesù piaccia particolarmente stare a mensa, mangiare e bere, conversare intorno a una tavola; e lo fa con tutti, senza discriminazioni, siano essi farisei che pubblicani e peccatori, tanto che una delle accuse che gli rivolgono i suoi avversari è quella di essere «un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori» (Lc 7,34; cfr. Mt 11,19). Se il condividere la mensa con pubbli-cani e peccatori (con persone cioè moralmente compromesse e socialmente e religiosamente emarginate) poteva destare scandalo e sconcerto, i banchetti con farisei e altre persone tenute in grande considerazione dal popolo, non dovevano essere così tranquilli e privi di tensione.
Il brano evangelico di questa domenica ci presenta appunto uno di questi pranzi (è il terzo e ultimo invito che Gesù accetta da un fariseo, qui è addirittura «uno dei capi dei farisei»). È un pranzo che si svolge non in un giorno qualunque ma in «un sabato» (v. 1), in un giorno di festa dunque, dai contorni altamente significativi per ogni pio ebreo. Dopo aver guarito un idropico (vv. 2-6, non riportati dalla liturgia), nello stupore e nel silenzio imbarazzato di tutti i commensali (una guarigione di sabato!), Gesù prende la parola per raccontare una parabola. Lo spunto gli viene offerto da ciò che i suoi occhi sanno cogliere in quel frangente: «come (gli invitati) sceglievano i primi posti» (v. 7). Con il suo sguardo acuto e penetrante, Gesù osserva l’atteggiamento poco ‘onorevole’ degli invitati, che fanno
quasi a gara per accaparrarsi i posti migliori (tutti credono d’aver diritto ai posti d’onore!).È da notare che Gesù presta attenzione non solo al fatto in sé, ma soprattutto al ‘modo’ di scegliere i primi posti: quel «come» (pôs) dice infatti un modo di fare, uno stile, una maniera di muoversi e di agire. E sappiamo che il modo con cui si fanno le cose è importante perché traduce e rivela sempre il pensiero profondo di una persona, la verità del suo cuore…
La parabola illustrata da Gesù sembra essere a prima vista un saggio consiglio su come muoversi quando si è invitati a un banchetto: se vuoi evitare una brutta figura, non scegliere il primo posto; al contrario, mettiti all’ultimo così, se ne sei degno, potrai salire più in alto e ricevere onore davanti a tutti (cfr. Pr 25,6-7). Tuttavia, l’intenzione di Gesù non è semplicemente quella di enunciare una regola di galateo o di ‘buona condotta’ conviviale; partendo da un fatto di vita ordinaria, egli vuole mettere in guardia dalla ricerca sfrenata dei primi posti, dai desideri di grandezza, dalla volontà di volere primeggiare sugli altri, di ritenersi superiori, più meritevoli e giusti degli altri (cfr. Lc 11,43; 20,46; 22,24-27). Nella logica del regno di Dio (perché questa, come altre parabole, parla del regno di Dio), non ci sono ‘primi’, ‘secondi’ o ‘terzi’, ma tutti sono invitati a mettersi al loro posto, che è in qualche modo sempre l’ultimo’. Che cosa infatti può vantare un uomo più di un altro davanti a Dio? Che meriti e che diritti può accampare per sopravanzare sugli altri? Non si è forse tutti uguali, tutti fratelli e figli dello stesso Padre? E tutto ciò che abbiamo non ci è stato donato da Dio (cfr. 1Cor 4,7)? Per l’evangelista Luca, l’unico atteggiamento che si addice all’uomo di fronte a Dio è quello del pubblicano della parabola (18,9-14) che riconosce umilmente il proprio essere peccatore senza vantare alcun merito nei confronti di chicchessia (ed è significativo che troviamo lì la stessa sentenza conclusiva della nostra parabola: «perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato»: 18,14; 14,11).
A questo punto, però, non bisogna fraintendere l’insegnamento di Gesù, quasi egli volesse affermare che l’uomo deve prendere l’ultimo posto perché il primo spetta solo a Dio. Al contrario: è Dio stesso che, venendo tra gli uomini, ha preso l’ultimo posto divenendo il servo di tutti e l’ultimo di tutti. Il «mettersi all’ultimo posto» (v. 10) diventa allora gesto rivelativo dell’agire di Dio che, operando uno sbalorditivo ‘rovesciamento’, ha anteposto l’uomo a se stesso, collocandolo a un posto più elevato del suo (come amava dire il beato Charles de Foucauld: noi possiamo prendere ormai solo il penultimo posto, perché l’ultimo è già occupato dal Signore, in modo tale che nessuno potrà mai rapirglielo!).
In questa luce, possiamo comprendere anche il consiglio dato da Ben Sira (prima lettura) come riflesso del modo stesso di essere di Dio: «Quanto più sei grande, tanto più fatti umile» (Sir 3,18). Chi infatti è «più grande» di Dio? Eppure egli si è fatto il più umile di tutti, scendendo a un tale livello di abbassamento e di spogliazione di ogni potere e privilegio da guardare ormai l’uomo dal basso verso l’alto. Perché sapeva che solo così poteva vincere l’innata tracotanza dell’uomo, la sua mania di onnipotenza e di grandezza, la sua costante brama di ergersi sugli altri affermando orgogliosamente il proprio Io dinanzi a tutto e a tutti. E se «dagli umili è glorificato» (Sir 3,20) è forse perché gli umili sono l’immagine più viva e trasparente del suo volto, sono coloro che più gli assomigliano…
Ma Gesù, dopo una parola agli invitati, ne ha una anche per colui che l’aveva invitato (vv. 12-14). «Quando offri un pranzo non invitare…». Possiamo immaginare lo stupore e la costernazione di quel padrone di casa sentendosi caldamente esortato a chiamare alla sua tavola «poveri, storpi, zoppi, ciechi». Quattro categorie di disgraziati che nemmeno potevano accedere al tempio perché considerati ‘impuri’! Tuttavia sono proprio queste persone (che nulla hanno da offrire in cambio e le cui ‘mani vuote’ sono atte solo a ricevere dalla gratuità altrui) a far sì che colui che invita possa godere di una inattesa beatitudine («e sa-rai beato perché non hanno da ricambiarti»). Ancora una volta, la gratuità di un amore puro e disinteressato, che spezza il circolo di una reciprocità chiusa in se stessa, rimanda al comportamento di Dio che tutti accoglie alla sua mensa, senza discriminazioni o esclusioni di sorta e che, se fa delle preferenze, queste sono per coloro che in questo mondo appaiono privi di ogni valore e considerazione. Se dunque chi si umilia, ricercando l’ultimo posto, riceve in dono un ‘onore’ e un ‘innalzamento’ insospettati (vv. 10,11), chi accoglie alla sua mensa i poveri e gli umiliati di questo mondo, nondimeno, conosce già una gloria che è anticipo di quel mondo futuro dove Dio stesso siederà a mensa con i suoi amici più cari: «poveri, storpi, zoppi, ciechi».
Commento a cura di don Jesús Manuel García