Esegesi e meditazione alle letture di domenica 27 Novembre 2022 – don Jesús GARCÍA Manuel

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Prima lettura: Isaia 2,1-5

Questo profeta dell’A.T è capace di contemplare l’Altissimo e di far comprendere al popolo dell’alleanza che il Signore e la sua santa legge devono essere accolti nella fede. Il profeta Isaia nasce a Gerusalemme nel 760 a.C., vive il tempo difficile del Regno del Sud sotto la minaccia degli Assiri, finisce il suo ministero sotto Manasse (690 a.C.).

Il testo proposto dalla Chiesa all’interno della Liturgia di questa prima domenica di Avvento è inserito nei primi cinque capitoli che raccolgono l’oracolo sul destino di Gerusalemme e di Giuda pronunziati nei primi anni del suo ministero.

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La lettura del testo porta a ricordare l’episodio della Torre di Babele: tentativo umano di arrivare a Dio, un segno della superbia umana, ed ecco che il profeta oppone a questo avvenimento la visione del «monte del Signore» che radunerà i popoli nella pace. Siamo di fronte ad un oracolo escatologico che annunzia la diffusione nel mondo del nome di YHWH e Gerusalemme diventerà il centro della religione jahvistica e della pace.

Nel v. 2 è molto importante sottolineare quel «sarà saldo…», esso è riferito a Gerusalemme, la nota della Versione dai testi originali così commenta: «Secondo la concezione mitologica dell’Antico oriente, il monte del tempio si identificava col monte altissimo in cui dimoravano gli dei. Qui il mondo terrestre si univa con quello celeste. Nel nostro testo questa mitologia viene utilizzata per descrivere la speranza escatologica di Israele» (cf. p. 1046).

Il monte meraviglioso, attraverso la legge e la parola, impone un ordine umano secondo il progetto di Dio; il profeta nella sua visione ricorda che è volontà divina la giustizia sulla terra e che quest’ultima è il fondamento della pace; è nei piani dell’Altissimo un governo giusto, la pace internazionale, il disarmo, gli strumenti di guerra trasformati in mezzi di pace.

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Il popolo d’Israele è in atteggiamento di cammino, apre il pellegrinaggio verso la luce del Signore, in questo grande movimento verso YHWH devono essere coinvolte tutte le genti.

Seconda lettura: Romani 13,11-14a

Il testo paolino che la liturgia propone è inserito nella Lettera ai Romani.

Scritta, questa lettera, da Paolo nel 58 d.C., fu inviata per preparare un suo viaggio in Spagna.

Nella lettera Paolo espone il suo pensiero teologico, anche se non sono affrontati tutti i temi della sua teologia. Questa lettera la potremmo definire come “la grande presentazione teologica” della fede cristiana.

Il nostro brano è inserito nella sezione 12,1-15,13 considerata la parte delle Attuazioni: come il credente deve affrontare la vita quotidiana.

Dal testo, usato dalla liturgia, emerge come Paolo valuti il suo “tempo” come “occasione di grazia”, invita i credenti a vivere nell’apertura al futuro; ormai la notte sta per terminare e Cristo sta per arrivare con tutta la sua gloria, la sua venuta coincide con il giorno. La fede prepara la comunità cristiana a ricevere definitivamente Cristo nella sua infinita gloria. Tutto ciò esige da parte del credente di sviluppare una coscienza che realizza opere di vita e non di morte; l’attesa del Vivente porta il credente ad avere sempre una condotta onesta, una coscienza in ricerca «per rivestirsi delle armi della luce» cioè le opere buone che allontanano l’uomo da ogni forma di male.

Dietro all’affermazione del v. 72 certamente Paolo vuole ricordare che le opere buone sono possibili solo se si è nuovi nel cuore, non si deve mai dimenticare che «la proposta morale cristiana non potrà mai perdere di vista questa priorità antropologica e salvifica. Il valore morale non sta prima di tutto nel gesto che si compie, ma nel cuore che lo ispira e lo determina» (S. MAJORANO, Coscienza e virtualità del Sangue di Cristo, «Sangue e vita», Roma, 1995, 154).

Nel v. 13 Paolo ricorda un elenco di vizi dal quale l’uomo dev’essere lontano che sono praticati normalmente di notte. Ma ciò che potrebbe essere considerato centro del brano è il v. 14: «Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo…»: ciò che è avvenuto nel sacramento del battesimo come “evento” qui è presentato come esigenza nella vita morale. È sempre il v. 14 che dev’essere considerato eco di un inno battesimale della Chiesa primitiva, ad ogni modo è certo che Paolo qui realizza una missione: presenta il piano di Dio in maniera cristologica ed orienta tutte le iniziative etiche dei credenti nell’obbedienza al Signore, (cf. G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, vol. 2, Borla, Roma 1990, 491).

Mediante il verbo “rivestitevi” Paolo usa una metafora che indica sempre appropriazione, unione; rivestirsi del mistero di Cristo significa fare di esso il punto fondamentale della propria esistenza, la persona del Risorto datore di Spirito Santo diventa “fonte” della vita quotidiana dalla quale l’uomo attinge energia per vivere nella storia umana e fare la volontà del Padre Celeste.

Vangelo: Matteo 24,37-44

Esegesi

Il brano del Vangelo odierno ci immette nel capitolo 24 del Vangelo di Matteo che è definito comunemente “discorso escatologico“, il contesto è il seguente: Gesù è uscito dal tempio (cf. v. 7) e sedutosi sul monte degli ulivi (cf. v. 3) pronunzia queste parole sulle ultime realtà. La pericope è preceduta dal tema dell’avvento del Figlio dell’uomo (cf. vv. 26-23), dalla dimensione cosmica di questo avvento (cf. vv. 29-37), dalla parabola del fico (cf. vv. 32-36).

Nel discorso in questione Gesù usa il linguaggio apocalittico, molto difficile, ma sappiamo bene che l’intenzione del Cristo non è quella di portare terrore ma di affermare delle verità teologiche: verrà la fine del mondo, è necessario assumere un atteggiamento di vigilanza, la storia diventa il luogo per realizzare già il regno di Dio.

È da annotare il v. 36 che molte volte fa difficoltà ricordando Mt 11,27 dove si afferma che quello che appartiene al Padre è anche del Figlio; ma nel v. 36 — che precede la nostra pericope — il senso profondo è che non rientra nella missione di Gesù rivelare il momento preciso della fine del mondo, ciò appartiene alla conoscenza del cuore di Cristo che è sempre in comunione eterna con il cuore del Padre che svela ogni cosa, nello Spirito santo, al suo Figlio prediletto.

Ma entriamo, aiutati dallo Spirito Santo, unico esegeta della Parola, nelle profondità del testo proposto dalla liturgia:

37- 39: Gesù fa un paragone con la situazione storico, sociale e religiosa degli uomini contemporanei a Noè, si viveva nell’assoluto relativismo morale, la legge scritta nel cuore umano non era seguita, la libertà era intesa come libertinaggio. Gesù ricorda tutto questo, evidenziando che vivendo nella dissolutezza, furono travolti dalla catastrofe. Dobbiamo soffermarci sull’espressione «così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo»: la venuta del Cristo glorioso che si presenterà come vero ed unico giudice della storia e delle coscienze personali incombe sugli uomini come “avvenimento” di giudizio; la seconda venuta del Cristo dev’essere intesa come “momento di sintesi” della storia umana e della nostra coscienza che si presenterà davanti al Cristo con la sua scelta fondamentale con il quale ha costruito il proprio vissuto morale.

40-41: la fine dei tempi avverrà nel “quotidiano” che diventerà improvvisamente “eternità” nel quale il Cristo glorioso giudicherà con misericordia e verità. Il testo evangelico ricorda delle occupazioni abituali: il lavoro dei campi fatto dagli uomini ed i lavori domestici realizzati dalle donne, è qui che si svolgerà l’ultima chiamata di Cristo.

42: l’esistenza umana che è un cammino verso l’eterno non può essere vissuta nella distrazione, l’incontro con il Cristo glorioso dev’essere preparato dal discepolo, per questo Gesù invita alla vigilanza e quindi alla preghiera. Il momento orante della vita personale prepara il cuore umano ad accogliere la parola definitiva del Redentore nel proprio vissuto quotidiano. Ma questo “vegliare” al quale il Cristo stesso ci chiama non è un’attesa di paura e di angoscia ma dev’essere un momento nel quale il credente deve immergersi in una preghiera fiduciosa verso l’Altissimo. Il discepolo di Cristo che attende la sua venuta confida nel suo Signore, in quanto sa bene che Dio avrà sempre una «parola di misericordia» nei suoi confronti; dovranno essere questi i pensieri del «vegliare» in attesa della parusia. Ma tutto ciò non esclude l’impegno concreto per la realizzazione del regno di Dio nella storia umana, il cristiano non può disprezzare la vita presente; il futuro, l’escatologia inizia nella nostra storia; il regno di Dio è già in mezzo a noi e avrà nel «domani di Dio» la sua piena attuazione. Questo logion è presente in Mc 13,35, inserito in un’altra parabola che l’evangelista Matteo omette. È da annotare il commento che fa in nota la Bibbia di Gerusalemme: «La vigilanza, in questo stato di allarme, suppone una solida speranza ed esige una costante presenza di spirito che prende il nome di sobrietà» (cf. p. 21-43).

43-44: qui abbiamo la piccola parabola dello scassinatore notturno, è riferita alla venuta gloriosa del Cristo che sarà improvvisa, questi versetti potrebbero acquistare luce leggendo il brano dell’Apocalisse 3,3: «Se non sarai vigilante, io verrò come un ladro, senza che tu sappia l’ora della mia venuta a te». Gesù si pone in netto contrasto con l’apocalittica giudaica che cercava di calcolare in anticipo la parusia, Gesù Cristo invece, vuole affermare il carattere sconosciuto ed inaspettato e perciò invita caldamente all’attesa, alla vigilanza, a stare in piedi ed attendere il Redentore.

Meditazione

L’evento finale e decisivo della storia di salvezza profetizzato da Isaia e annunciato dal vangelo come «venuta del Figlio dell’Uomo» viene colto nelle letture odierne nella sua portata giudiziale: esso giudica le violenze e le guerre che gli uomini scatenano (I lettura); le immoralità in cui si perdono (II lettura); l’incoscienza e l’ignoranza colpevoli con cui si anestetizzano (vangelo). L’annuncio escatologico non è un messaggio spiritualistico, ma ha un impatto forte sulla storia dei popoli (I lettura), sulla quotidianità delle esistenze dei credenti (vangelo) e sul loro comportamento (II lettura).

La simbolica della polarità notte-giorno, tenebre e luce, attraversa le tre letture e consegna un messaggio che intende svegliare il credente e guidarlo a conversione. È la tenebra delle genti che non conoscono il cammino da percorrere e che vengono illuminate dalla parola di Dio («camminiamo nella luce del Signore»: Is 2,5); è la tenebra della generazione di Noè che non capisce nulla, non discerne il tempo e i suoi segni e così perisce; è la notte che chiede al padrone di casa di vegliare per impedire al ladro di svaligiargli la casa (vangelo); è la notte simbolo del peccato, da cui il credente è chiamato a risvegliarsi gettando via le opere delle tenebre e indossando le armi della luce (II lettura).

La prima domenica di Avvento, che segna l’inizio di un nuovo anno liturgico, contiene un invito a ricominciare, si tratta di ricominciare il cammino di fede ascoltando di nuovo la parola di Dio (I lettura); facendo memoria degli inizi della fede, dunque del battesimo (II lettura); assumendo la storia quotidiana come luogo di vigilanza e discernimento (vangelo). In questa prospettiva di inizio o re-inizio, è significativo che il passo di Paolo sia stato decisivo per la conversione di Agostino (Confessioni VIII,12,29). Ascoltata la voce che dice «Prendi e leggi», Agostino apre la Scrittura e trova il passo che dice: «Non nelle gozzoviglie e nelle ubriachezze, non nelle orge e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze». Afferma Agostino: «Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Infatti, appena terminata la lettura di questa frase, una luce, quasi di certezza, penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono». Anche Agostino vive il suo risveglio, il suo passaggio dalle tenebre alla luce.

Il vangelo, istituendo un parallelo tra il diluvio, che sconvolse la quotidianità ripetitiva della vita della generazione di Noè, e la venuta del Figlio dell’Uomo, ammonisce a non annegare nella banalità dei giorni. La generazione di Noè non è dipinta da Gesù come malvagia o empia, ma semplicemente come incosciente: «Non si accorsero di nulla» (Mt 24,39). La generazione di Noè perì per mancanza di discernimento. E così perì due volte: nel diluvio e senza sapere perché. Noè, invece, seppe discernere e così salvò se stesso e il futuro: il discernimento dell’oggi salva il futuro. E questa è la responsabilità. La colpa, se di colpa si deve parlare, intravista nel nostro testo, è dunque l’irresponsabilità, l’assenza di discernimento.

Vigilare significa esercitare l’intelligenza, la riflessione, il pensiero sui tempi che si vivono, per non essere sorpresi dalle catastrofi che si preparano nascostamente nell’oggi della storia, nella chiesa, nelle relazioni famigliari e personali. Il credente è chiamato a pensare e conoscere l’oggi a partire dalla venuta del Signore e dalle sue dimensioni di impensato e di ignoto (Mt 24,36.44).

La venuta del Signore non impegna solo a vigilare sui tempi, ma anche sulla verità del proprio cuore. Il riferimento alle due persone impegnate nello stesso lavoro, che nulla sembra distinguere, e di cui però una viene presa e l’altra lasciata, indica che ciò che nella quotidianità dei giorni può rimanere nascosto, sarà manifestato alla venuta del Signore. La differenza si gioca nell’invisibile interiorità. «In interiore homine habitat veritas» (Agostino); «Il cammino della conoscenza porta verso l’interiorità» (Novalis).

Commento a cura di don Jesús Manuel García