Esegesi e meditazione alle letture di domenica 27 Marzo 2022 – don Jesús GARCÍA Manuel

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Prima lettura: Giosuè 5,9-12

In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico. Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan. 

Aria di novità, di ‘riconciliazione’ si respira nella prima lettura. Si conclude la lunga esperienza di permanenza nel deserto e si prepara l’ingresso nella Terra Promessa. È come un ritorno a casa, un incontrare Dio in modo rinnovato. Il capitolo inizia con la circoncisione di tutto il popolo: Giosuè lo vuole preparare al passo decisivo.

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La lettura inizia con una proclamazione ufficiale di avvenuta riconciliazione, perché Dio dice a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto». È conclusa la ‘lunga quaresima’ della peregrinazione; è stato un tempo di purificazione e di esperienza di Dio. Il popolo, ora rinnovato e riconciliato da Dio stesso, può celebrare la Pasqua nella terra promessa. Un mistico abbraccio unisce nuovamente Dio al suo popolo.

Un segno concreto è dato dalla possibilità di mangiare «i frutti della terra di Canaan», la loro nuova terra. Si apre un nuovo periodo, una nuova epoca, di cui la Pasqua segna l’avvio.

Seconda lettura: 2 Corinzi 5,17-21

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Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.   

Il tema della riconciliazione domina anche la seconda lettura e si inserisce perfettamente nella liturgia odierna.

Dopo una premessa in cui Paolo ribadisce di operare rettamente perché sta sempre alla presenza di Dio, e dopo il rifiuto di cercare ancora una raccomandazione, passa ora a trattare un tema teologico di primaria importanza, quello della riconciliazione.

Nell’affrontare l’argomento, Paolo indica due principi ispiratori che sono anche due guide: il principio cristologico e il principio ecclesiologico. Con il primo si afferma che tutto viene da Dio in Cristo, con il secondo che a Paolo e agli apostoli («noi», 5,19) è affidato il ministero della riconciliazione.

È bello constatare che all’inizio della trattazione sta una attestazione di amore di Cristo: pensando a lui, morto per tutti gli uomini, si imposta correttamente il tema preso in esame. La morte di Cristo apre una certezza di vita che si fonda sulla sua risurrezione: «Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (5,15). Prima di offrire agli altri il dono preziosissimo della riconciliazione, Paolo sente di goderne come di un beneficio grande che ha trasformato la sua vita. Ogni altra conoscenza deve scomparire, per lasciare posto all’esperienza di un inserimento nel Cristo pasquale. L’appartenenza a Cristo genera una inedita condizione di vita, bene espressa dal concetto di «creatura nuova»; il greco, a differenza della lingua italiana, usa un termine proprio per indicare una novità qualitativa (kainós) distinguendola da una novità puramente cronologica (néos).

Se è Dio «che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo» (5,19), a lui spetta ogni precedenza e l’iniziativa della riconciliazione. Si esclude così ogni possibilità di appropriazione da parte dell’uomo, beneficiario del dono di Dio. Ma è lo stesso Dio a chiedere collaborazione agli uomini, cosicché il principio teologico-cristologico sfocia in quello ecclesiale: «Era Dio infatti […], affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta» (5,19-20).

La necessità della riconciliazione suppone la peccaminosità dell’uomo. Un compito dell’apostolo sarà appunto di richiamare le strutture di peccato che impediscono all’uomo di costruire una nuova personalità con Cristo: la riconciliazione, infatti, è un atto creativo che risistema una creatura fragile e vittima del peccato. Occorre prendere coscienza del proprio stato e aprirsi all’amore di Dio manifestato in Cristo; questo significa l’accorato appello: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (5,20).

Vangelo: Luca 15,1-3.11-32 

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Esegesi

L’introduzione dei vv. 1-3 fornisce una preziosa chiave ermeneutica al cap. 15 in generale e al nostro testo in particolare. Essi denunciano l’atteggiamento ostile dei farisei che non comprendono perché Gesù sia così accogliente con i peccatori. La parabola è una splendida icona del comportamento di Dio che si riflette puntualmente nel comportamento di Gesù.

Da un punto di vista organizzativo del materiale, osserviamo che dopo una introduzione che mette in scena i personaggi (vv. 11-12), la parabola si articola in due atti di due scene ciascuno, il primo dominato dal figlio minore e dal padre (vv. 13-24), il secondo dal figlio maggiore e dal padre (vv. 25-32); nel secondo atto si rivelerà molto importante se non addirittura decisiva la relazione fratello-fratello.

Introduzione: il padre e due figli (vv. 11-12). Un inizio sobrio ed essenziale presenta i personaggi, il padre e i suoi due figli. I tre creano due tipi di relazioni, la prima quella di padre-figlio sdoppiata in padre-figlio minore e padre-figlio maggiore e la seconda quella di fratello-fratello, relazione non espressa se non verso la fine del racconto e tuttavia di capitale importanza. Dopo i personaggi, ecco l’antefatto che causa il tutto: la richiesta del figlio più giovane di entrare in possesso anzitempo del patrimonio paterno. Il padre, inspiegabilmente, accondiscende, senza reagire negativamente e senza opporre resistenza. Sembrerebbe un uomo indifferente e distaccato. Poiché il seguito mostrerà esattamente il contrario, dobbiamo concludere che egli ha un rispetto sommo del figlio, anche prevedendo un suo sbaglio.

Atto primo: il Padre e il minore (vv. 13-24). Questa parte, sebbene dominata dalle azioni del figlio, ha come sottofondo la presenza del padre.

Prima scena: il minore si allontana e ritorna dal Padre (vv. 13-20a). L’autore della parabola racchiude la prima scena tra un partire (v. 13) e un tornare (v. 20a), due verbi che esprimono un opposto movimento fisico, ma che riveleranno pure due momenti contrastanti nell’animo del giovane. La partenza per un paese lontano vuole significare la distanza dal padre, perfino la sottrazione ad una sua possibile influenza. Il figlio va all’estero (in Israele non si allevavano i porci, cf. invece il v. 15). La partenza avviene all’insegna delle più lusinghiere prospettive perché il figlio minore possiede gli elementi che solitamente la gente considera gli ingredienti della felicità: giovinezza, ricchezza e libertà (intesa qui negativamente come capacità di compiere tutto ciò che si vuole). Sciupato malamente il capitale, subentra l’imprevisto della carestia e quindi della fame. Il lavoro vergognoso per la mentalità ebraica e il disinteresse generale (cf. v. 16) fanno scattare nel giovane un pensiero di ritorno per avere il pane. Il bisogno materiale mette in moto un meccanismo, responsabile di due tipi di ritorno, uno morale e l’altro fisico:

— Il ritorno morale fatto di riconoscimento del proprio errore e di coscienza di aver perso il rapporto padre-figlio. Qui troviamo la grandezza morale di chi è capace di riconoscere e di ammettere il proprio sbaglio, con lucidità e senza reticenze; è lo slancio sincero e umile del giovane che si assume tutta la propria responsabilità; è la umile ammissione del suo errore che fa da contrappunto alla sfacciata presunzione che lo aveva spinto ad allontanarsi.

— Il ritorno materiale, fatto di risoluta decisione maturata alla luce di una riflessione che integrava la vita in una visione meno miope. La prima scena termina con questo ritorno alle persone e alle cose abbandonate, anche se con la coscienza di non possederle più come prima. Il ritorno motivato dal bisogno materiale rivela un atteggiamento di fiducia nel padre che — così egli spera — lo accoglierà come garzone e gli garantirà il sostentamento. Pur con tutto il bagaglio di esperienze negative e di sbagli che il giovane porta con sé, egli dimostra un aspetto non consueto che lo rende grande, in quanto è disposto a riconoscere il proprio errore e ad assumere tutte le conseguenze, prima fra tutte la perdita del suo rapporto di figlio.

Seconda scena. Incontro tra padre e figlio minore (vv. 20b-24). L’iniziale impressione di un padre insensibile o indifferente che lascia partire il figlio senza una parola o un estremo tentativo per trattenerlo, rivela ora tutta la sua infondatezza. Il padre era in attesa, segno che l’amore non si arrende mai, che crede nella vittoria del bene sul male, che spera nel fiorire dei buoni principi insegnati. Solo a questo punto inizia a svelarsi la vera attitudine del padre che con la sua sollecitudine nel correre incontro al figlio indica che lui viveva in perenne attesa che lo portava a sperare e a scrutare continuamente l’orizzonte. Merita speciale attenzione il termine tradotto in italiano con «compassione » (cf. lo stesso verso in Lc 7,33 e 10,33). La parola esprime una compassione profonda che interessa tutta la persona, una tenerezza materna: ecco perché manca la figura della madre: il padre è al contempo anche madre! A questo punto il giovane si esprime con le parole che aveva preparato e manifesta la sua convinzione che, dopo quello che è successo, non è più degno di essere chiamato figlio. Il padre rimane padre, forse lo è ancora di più in questo momento di accoglienza, ma lui non può rimanere figlio perché il suo passato grava su di lui come un’onta incancellabile. Egli vive più di passato che di presente o futuro. Il padre lascia parlare il figlio perché la confessione che esprime il pentimento fa bene, ha benefico effetto liberatorio. Non accetta però le conclusioni proposte dal figlio e non lo lascia terminare: il «Trattami come uno dei tuoi salariati» il figlio non riesce a dirlo, ovviamente perché interrotto dal padre che è attento più al presente e al futuro che non al passato, ora cancellato dal pentimento. Egli non rimprovera, non richiama il passato, perché sarebbe un’inutile riacutizzazione di una ferita non ancora rimarginata. Se il figlio ha maturato e dimostrato il suo pentimento, che bisogno c’è di insistere? La punizione più grave e il rimprovero più severo se li è dati il figlio che accetta di essere non-figlio.

Alle parole del figlio, il padre risponde con una serie di gesti che valgono assai più delle parole. Si rivolge ai servi perché si prendano cura del figlio, come avveniva per il passato, anzi, ancora di più. Il vestito bello (in greco stolè cioè il vestito lungo delle grandi occasioni) indica la situazione di solennità, i calzari che in quel tempo portavano solo poche persone, la dignità, l’anello sul quale era impresso il sigillo di famiglia, l’autorità, e infine l’uccisione del vitello e lo stare insieme a mensa, la gioia, della festa e della condivisione. Tale accoglienza, a dir poco trionfale, necessita una spiegazione: il padre ha lasciato partire il figlio e ora riceve tra le braccia questo mio figlio; aveva visto partire un giovane presuntuoso e arrogante e ora vede ritornare un uomo maturato dal dolore, dalla lontananza e dal pentimento. Nel padre si sprigiona la gioia per il figlio «cresciuto» e la festa che segue valorizza la nuova maturità raggiunta, il nuovo rapporto tra padre e figlio. In questa scena la parola figlio ritorna tre volte e sempre in crescendo: al v. 21 «figlio» appartiene al racconto, poi diventa «non tuo figlio» sulla bocca del giovane, per trasformarsi infine in «questo-mio-figlio» nelle parole del padre. Forse risulta non del tutto comprensibile il comportamento del padre, ma a lui Pascal presterebbe il suo celebre pensiero: «Il cuore ha delle ragioni che la ragione non riesce a comprendere».

Atto secondo: il padre e il maggiore (vv. 2 5-32): fa la sua comparsa l’altro figlio, il maggiore, che movimenta tutto il secondo atto rivelando i suoi sentimenti verso il padre e verso il fratello. Tuttavia anche in questo atto, come nel precedente, il ruolo principale spetterà al padre.

Prima scena: Il ritorno a casa del maggiore (vv. 25-28). Il figlio maggiore che torna a casa sente musica e danze. Interrogato un servo, viene a sapere del ritorno del fratello. La notizia, lungi dal procurargli gioia come era avvenuto per il padre, lo stizzisce: come è possibile che per quello scapestrato spendaccione si organizzi una festa? E più ancora, come è possibile che per lui sia stato ammazzato il vitello che veniva ingrassato per qualche grande occasione, in molti casi proprio per le nozze del primogenito? La sua è una reazione di ostilità e di rottura: «si indignò, e non voleva entrare». Incontriamo ora la seconda annota-zione psicologica, l’ira del maggiore, che contrasta con la commozione del padre nel riavere il figlio minore. Il ritorno del giovane provoca due reazioni contrastanti, la commozione per il padre, ira per il maggiore. La famiglia rimane ancora frantumata dal sentimento di isolamento e di rifiuto di uno dei mèmbri che non intende prendere parte alla festa.

Seconda scena: incontro tra padre e figlio maggiore (vv. 28-32). Il padre va incontro a lui come era andato incontro al minore. È sempre il padre a prendere l’iniziativa e a muovere il primo passo per raccorciare le distanze. Il figlio rivendica i suoi diritti proprio come il minore che chiedeva la parte di patrimonio per andarsene. Nelle sue parole si legge la orgogliosa sicurezza del suo perbenismo, la sua incondizionata e assoluta fedeltà, con un non troppo velato rimprovero al padre considerato come «padrone» dal pesante verbo «ti servo», tipico degli schiavi. Il lavoro, più che collaborazione e compartecipazione, sembra sia stato vissuto come servile dipendenza. Dopo l’accusa al padre, il discorso prosegue attaccando duramente il minore. Egli parla al padre di «questo tuo figlio», incapace di riconoscere l’altro come fratello che demolisce ritornando a un passato ormai sepolto per il padre. Questi riconosce le ragioni del maggiore: quanto egli afferma non è né falso né esagerato, perché di fatto egli ha sempre lavorato in casa. Le ragioni ci sono, d’accordo, ma non devono diventare pretesto per alzare palizzate di divisione. Il padre lo ascolta e poi gli rivolge la parola chiamandolo «figlio», ricordandogli così quella relazione di comunione che il maggiore ha sempre vissuta, forse senza capirla pienamente, sicuramente senza apprezzarla se ora, in un momento di tanta gioia, egli si estranea e mai si rivolge al padre chiamandolo con questo nome. «Figlio, tu sei sempre con me»: il padre difende la posizione privilegiata del maggiore; è una comunione di persone che si travasa naturalmente in una comunione di beni: «tutto ciò che è mio è tuo». Le parole del padre hanno smantellato la pretesa sicurezza del figlio, hanno messo a nudo che neppure lui ha compreso il padre perché non ne condivide i sentimenti e si estranea alla festa della comune riconciliazione. Le sue ragioni valgono, ma nel momento e nel modo in cui vengono rivendicate manifestano la intrinseca debolezza di relazione con il padre.

La festa autentica ci sarà quando il maggiore riconoscerà e accetterà l’altro non come «questo tuo figlio», bensì come «questo mio fratello». Se ciò avviene, non è detto, e la parabola rimane ‘aperta’ come monito per i farisei di tutti i tempi (cf. v. 2).

Meditazione

Una luce particolare, che emerge dai testi scritturistici di questa domenica, orienta il nostro sguardo verso un punto focale che dà unità alle varie tematiche che si intrecciano nella liturgia della Parola: si tratta del volto misericordioso di Dio, un volto che, attraverso il perdono, comunica la gioia della comunione ritrovata con l’uomo peccatore. «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20) è l’appello accorato che risuona in questa domenica. Dio allontana dal suo sguardo l’umiliazione che la schiavitù del peccato imprime sul volto dell’uomo, perché nel suo cuore prevale la compassione. Assicurando Giosuè della sua fedeltà al popolo di Israele, Dio dice: «oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto» (Gs 5,9a). E così il padre della parabola di Lc 15, 11-32, riabbracciando il figlio che si era allontanato, lo rassicura del suo amore dicendo: «portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare…» (v. 22). Mediante il suo perdono, Dio ridà all’uomo la dignità perduta, la dignità del figlio: dal volto di questo figlio perduto, cercato, atteso, ritrovato, scompaiono le ferite che ne deturpano il volto e riappare la fiducia e la libertà dei figli. Solo la gioia della festa può dare compimento e voce a questa comunione ritrovata: «bisognava far festa e rallegrarsi…» v. 32); è l’invito del padre al figlio maggiore per il fratello che è ritornato a casa. Il vitello grasso che il padre fa ammazzare per preparare il banchetto al figlio minore (v. 23) è il simbolo di quella Pasqua che viene celebrata al termine del lungo e faticoso cammino di liberazione del popolo di Israele dall’Egitto (Gs 5,10-12) ed è un’anticipazione del compimento nella Pasqua del Cristo, vero agnello immolato che riconcilia l’uomo con Dio: «tutto questo però – ci ricorda l’apostolo Paolo viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo…» (2Cor 5,18).

Nella liturgia della Parola di questa domenica, il testo che lascia trasparire con stupenda luminosità il volto compassionevole di Dio è sicuramente la parabola di Luca. È come un’icona, poiché Luca ha la capacità, nel suo racconto, di renderci quasi protagonisti di una vicenda allo stesso tempo squisitamente umana e paradossalmente divina. E, come protagonisti, siamo chiamati ad aprire lo sguardo per poter contemplare, attraverso questa parabola, il volto stesso di Dio, un volto che spesso ci illudiamo di conoscere, ma che continuamente richiede da noi un cammino di conversione per scoprirlo in tutta la sua inaudita bellezza. Accostarsi a questa parabola, significa lasciarsi catturare da un volto: «da qualsiasi angolatura si guardi questo racconto, ci si accorge che al centro c’è la figura del padre: lui davanti ai suoi i figli e i due figli davanti a lui. Il padre è la figura che dà unità all’intera narrazione. Le due vicende si scontrano con l’originalità della sua paternità» (B. Maggioni). E allora rileggiamo brevemente le due vicende tenendo fisso lo sguardo sul volto del padre: «un uomo aveva due figli…» (v. 1).

Il bisogno di autonomia, di indipendenza e libertà nei confronti del padre, orienta le scelte del figlio più giovane. Ma questo desiderio, in sé molto umano e tipico per un giovane, si intreccia con una pretesa: «dammi la parte di patrimonio che mi spetta» (v. 12). E la pretesa di ciò che di fatto è un dono e che solo nella gratuità di una comunione (con quel padre che vuole dargli tutto ciò che ha) è possibile renderlo occasione di libertà e di vita. Possedere un dono (Luca usa un’espressione significativa ed emblematica per esprimere questo bisogno di avere per sé: «raccolte tutte le sue cose», v. 13) significa renderlo sterile e infecondo, ed è questo il risultato della vita di quel giovane. E Luca non manca di descrivere con precisione un fallimento in qualche modo annunciato (cfr. vv. 13-16): dissipazione, solitudine e lontananza che gradualmente conducono a una perdita della libertà, della dignità e, alla fine, della propria identità. Fuori metafora, tutto questo processo è la degradazione a cui conduce il peccato come lontananza dal volto di Dio. La domanda che Dio rivolge al primo uomo in Gen 3,9 – «dove sei?» – è l’interrogativo pungente che può aprire un cammino di ritorno: «Uomo dove sei? Uomo, dov’è il tuo luogo più vero, più profondo, dove puoi sentirti a casa? Dove cerchi la verità della tua vita, la verità del tuo volto?». L’uomo, quando distoglie il suo volto da Dio, perde il suo volto più autenticamente umano. In questo figlio lontano dal padre, distrutto e sfigurato nella sua dignità, ritorna il ricordo della casa del padre, della vita che in essa conduceva: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò… non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati» (vv. 18-19). Conversione? Non ancora. È un primo passo verso questo cammino.

C’è nostalgia, c’è vergogna, c’è la memoria di una certa felicità perduta; ma in questo figlio, che non si sente tale, manca ancora un ricordo o, meglio, una scoperta. Quella più importante: il ricordo e la scoperta del volto del padre. E questo avviene come dono da parte del padre: «quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò (v. 20). Quella lontananza che sembrava incolmabile e che, con la paura di essere rifiutati e giudicati, pesava nel cuore di quel figlio proprio nell’ultimo tratto di strada da percorrere, all’improvviso scompare. Ma è il padre che ha il coraggio di annullare quella distanza e lo fa con l’impazienza di chi a lungo ha atteso un incontro. La conversione del figlio è proprio questa: scoprire questo volto e sapere che di fronte ad esso lui, il figlio perduto e ritrovato, non ha mai cessato di esser tale, figlio amato. «Facciamo festa… e cominciarono a far festa» (vv. 23-24): la gioia è l’atteggiamento che traduce il cuore del padre di fronte a questo figlio, gioia gratuita e autentica non tanto per un figlio riavuto (non c’è possesso in questo padre) ma per un figlio amato.

La tristezza è invece ciò che caratterizza l’altro figlio, quello maggiore. Tristezza che si trasforma in rabbia covata, in indignazione e rifiuto, in incapacità di comprendere la gratuità del padre. «Ecco io ti servo da tanti anni…» (v. 29): in queste dure parole piene di pretesa, è riflesso il volto di questo figlio. È un servo che, nonostante una vita passata con il padre, non ha mai potuto conoscerne il volto. Ha servito attendendo di essere ripagato («non mi hai mai dato un capretto…»: v. 29); ha obbedito convinto di guadagnarsi una qualche giustizia. In fondo non ha amato il padre perché non lo ha mai sentito come tale.

Ma anche di fronte a questo figlio si rivela lo stesso volto di misericordia del padre. E questa rivelazione avviene anzitutto attraverso una parola: «Figlio…» (v. 31): davanti a questo padre, non c’è un servo, non c’è uno che è oppresso, ma c’è un figlio che è chiamato a gioire per un fratello ritrovato. E questo figlio che non si sente tale deve capire due cose: «tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (v. 31). È l’amore del padre, il suo dono, quella gratuità che diventa trasparenza nella festa per il figlio ritrovato, a rivelare il volto del padre e trasformare in figli quei due giovani che si sentivano solo servi. Questo deve diventare il cuore della loro conversione, perché, pur con percorsi differenti, tutti e due questi figli sono chiamati a conoscere chi è il loro padre.

Attraverso questa parabola, siamo orientati con forza alla gioia pasquale, perché è nella Pasqua di Cristo che ci viene rivelata, nella sua massima trasparenza, la compassione del volto di Dio. La veste più bella, l’anello al dito, i calzari, i segni del figlio, ci verranno donati nella notte in cui celebreremo la vittoria di Cristo sulla morte; e in questa notte l’agnello ucciso per far festa, per celebrare la liberazione, ci comunicherà tutta la gioia di un Padre che nel Figlio vuole essere in comunione con noi. Per ora si tratta di continuare questo cammino di ritorno, non dimenticando però, alla luce di questa parabola, che la vera conversione, la vera svolta nella nostra vita è anzitutto riscoprire il volto di un Padre che ci ama e, alla sua luce, essere consapevoli di ciò che possiamo diventare grazie a questo vol-to: «se uno è in Cristo è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17).

Commento a cura di don Jesús Manuel García