Prima lettura: Geremia 20,10-13
Sentivo la calunnia di molti: «Terrore all’intorno! Denunciatelo! Sì, lo denunceremo». Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta». Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere; arrossiranno perché non avranno successo, sarà una vergogna eterna e incancellabile.
Signore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa! Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.
La pericope fa parte delle cosiddette «confessioni di Geremia», brani considerati un tempo autobiografici, ma di redazione probabilmente post-esilica. Chi parla in queste composizioni è un «io» liturgico, mediatore cultuale tra la nazione e Dio: il tormento che vi si esprime è non tanto individuale, quanto collettivo, di tutto il popolo. Nella quinta confessione (Ger 20,7-18) i vv. 10-13 sono forse dovuti a un secondo redattore, e separano il grido di disperazione (vv. 7-9) dal lamento (vv. 14-18).
Il tema generale è la persecuzione a causa della parola, che colpisce il profeta come figura esemplare di tutta la comunità dei pii giudei.
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v. 10 — La folla (molti, rabbîm) cospira contro il profeta e ne spia le debolezze per sopraffarlo. Tra la folla sono anche gli «amici», o piuttosto dei presunti amici: la stessa comunità si rivolta contro il giusto.
v. 11 — Il giusto gode tuttavia della protezione del Signore, che sta al suo fianco come una guardia del corpo (gibbôr). Lo schema seguito è quello delle lamentazioni dei Salmi, in cui all’esposizione del caso e al lamento (vv. 7-9, la persecuzione) segue la soluzione liberatoria e il rendimento di grazie (vv. 10-13).
v. 12 — La preghiera esprime la fiducia del giusto nel Signore, che conosce e scruta in profondità il suo animo. Viene invocata non tanto la «vendetta», quanto la «liberazione» data dalla vittoria sui nemici, gli empi: è il senso della radice naqam riferita a Dio.
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v. 13 — Il versetto conclude la prima parte della «confessione» con un invito alla lode, che esprime la certezza di essere esauditi.
Gli elementi tipici della lamentazione fanno pensare non tanto a un discorso di Geremia in prima persona, quanto a una interpretazione della sua storia personale nei termini di una opposizione tra pii ed empi, dove al profeta si sostituisce la figura emblematica del «giusto» e del «povero». Un primo nucleo è probabilmente costituito dall’esperienza di Geremia, rielaborata dal redattore deuteronomistico durante l’esilio, radicalizzata poi nella redazione finale post-esilica nel quadro del conflitto tra pii ed empi.
Seconda lettura: Romani 5,12-15
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato.
Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti.
La lettera ai Romani espone la triplice liberazione — dalla morte, dal peccato e dalla legge — conseguenza della giustificazione tramite Gesù Cristo. Il rapporto tra il peccato e la morte, e la vittoria della vita in Cristo, vengono spiegati in Rm 5,12-21 attraverso il confronto tra Adamo e Gesù, e tra uno e molti/tutti. Il versetto centrale del brano, cuore del ragionamento di Paolo, è il 17, che afferma con forza la sovrabbondanza della grazia rispetto al dominio della morte.
I versetti 12-14 presentano la situazione di fatto: il peccato, e attraverso il peccato la morte, è entrato nel mondo, perché tutti hanno peccato, a somiglianza di Adamo (v. 12). Pur non essendo imputabile finché non c’era la Legge, il peccato era tuttavia nel mondo (v. 13), e la morte dominò anche su quelli che non avevano peccato.
La «trasgressione» (paràbosis) di Adamo è riferita al precetto; il «peccato» (amartia, al singolare) è un atteggiamento negativo di fondo nei confronti della grazia, la rottura del rapporto personale di amicizia con Dio, qualcosa di più della semplice disobbedienza. Non è tanto una realtà ontologica, ereditata da Adamo (come ha dimostrato S. Lyonnet,
l’interpretazione tradizionale di Agostino si basava sulla traduzione errata della Vulgata: «efhô pantes èmarton» reso con «in quo omnes peccaverunt», cioè «tutti hanno peccato in Adamo» invece che «dato il fatto che tutti hanno peccato»). Si tratta piuttosto della condizione comune di peccaminosità che Paolo rileva come un dato di fatto, la situazione cioè in cui tutti si trovano e di cui Adamo è il primo esponente, «immagine» o «tipo» di Colui che doveva venire.
Dal v. 15 si sviluppa la tipologia tra Adamo e Cristo, non come semplice parallelo ma come superamento e sovrabbondanza. Uno solo, Adamo, il primo ad avere disobbedito, è modello dei molti che hanno peccato, sia prima che dopo la Legge di Mosè; uno solo, Cristo, è veicolo della grazia sovrabbondante che si riversa sui molti, ben superiore («molto di più») che in Adamo. Ciò che preme qui a Paolo non è la dottrina del peccato originale, ma l’unicità di Gesù Cristo e della sua opera salvifica, la sovrabbondanza della grazia che ribalta il giudizio di condanna e vince il peccato e la morte.
✝ Mt 10,26-33
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».
Esegesi
Il capitolo 10 di Matteo è dedicato al secondo dei cinque grandi discorsi che costituiscono i pilastri portanti di questo Vangelo. È il cosiddetto «discorso della missione», che a partire dalla vocazione dei dodici apostoli indica le direttive fondamentali per la formazione e la missione della Chiesa delle origini. Si tratta di una raccolta di insegnamenti di
Gesù, forse pronunciati in occasioni diverse, e qui ordinati a costituire un vero e proprio programma di evangelizzazione.
La persecuzione preannunciata da Gesù è già in atto quando si compie la stesura scritta del Vangelo che la tradizione attribuisce all’apostolo Matteo. L’insegnamento qui espresso fa i conti quindi con una realtà fatta di pericoli, lotte, contrapposizioni violente, e tende a rafforzare il coraggio dei testimoni con un messaggio di speranza e di fiducia.
vv. 26-27— «Non abbiate paura» è un ritornello ricorrente (v. 26; 28;31). La persecuzione non deve indurre i testimoni al silenzio, al contrario: quello che ora, prima della sua glorificazione, Gesù insegna loro nelle tenebre (il cosiddetto «segreto messianico») dovrà essere proclamato apertamente a gran voce, gridato sui tetti. Il cristianesimo non è una religione esoterica e iniziatica; non ci sono verità segrete o nascoste, riservate a pochi eletti. La manifestazione del Figlio dell’uomo, nella pienezza dei tempi, è una rivelazione universale che deve essere portata a conoscenza di tutti. Si sente qui l’eco della polemica contro le correnti gnostiche che tendevano ad avvicinare il cristianesimo ai culti misterici.
vv. 28-31 — I persecutori non hanno in realtà alcun potere sui cristiani: essi uccidono il corpo, ma non l’anima. Il nemico non è chi detiene la forza della spada; il nemico vero è il peccato, che allontana dalla comunione con il Cristo. Non si tratta di una forma di dualismo che sottovaluti la vita corporea e naturale a favore di uno spiritualismo disincarnato, ma di una scala di valori che va rispettata perché vi sia una vita armonica. Il peccato fa perire l’anima e il corpo nella Geenna; il Padre protegge, con l’anima, anche il corpo: conta perfino i capelli del nostro capo e non lascia cadere neppure un passero. Coloro che confidano nel Padre non hanno quindi nulla da temere.
vv. 32-33 — La testimonianza resa dai cristiani deve essere coraggiosa e sincera: una scelta di vita, senza tentennamenti né compromessi. «Riconoscere» Gesù davanti agli uomini vuol dire confessare apertamente la fede, nonostante la persecuzione; «essere riconosciuti» da lui davanti al Padre che è nei cieli significa essere accolti nella gloria del suo regno.
Meditazione
La fede è un’attiva lotta contro la paura: è così per il profeta Geremia e per i discepoli di Gesù. Le fede esige coraggio. Gesù esorta i discepoli a «non temere» chi può perseguitarli, chi osteggia la loro testimonianza e la loro predicazione. Gesù chiede loro di compiere un esodo dalla paura. O meglio, molto realisticamente, Gesù indica la via non tanto dell’eliminazione della paura, ma del suo addomesticamento, del suo ri-orientamento, dell’elaborazione della paura di eventuali nemici in timore del Signore. Per il discepolo, come per il profeta, la paura viene vinta dalla fiducia nel Signore, dalla coscienza della sua vicinanza (Ger 20,11), dalla fede nel suo amore che si fa carico dei minimi dettagli della nostra vita (Mt 10,30).
I discepoli, inviati da Gesù «come pecore in mezzo ai lupi» (Mt 10,16), nella loro missione incontreranno persecuzioni, ostacoli, inimicizie. E saranno tentati di divenire preda della paura. Ma potranno trovare motivo di coraggio e di forza nella relazione con il Signore, nella certezza di fede che, proprio mentre sono perseguitati a motivo della fede, essi sono sulle tracce del loro Signore (Mt 10,22-25). E potranno attingere motivi di fiducia dall’insegnamento che Gesù ha loro impartito nel segreto, nell’intimità, condividendo con loro la sapienza del proprio cuore (Mt 10,26-27). Solo la parola del Maestro che rimane nel cuore è motivo di forza e di coraggio per il credente il quale manifesta la sua qualità discepolare proprio al cuore della sua attività missionaria.
Le parole del Signore sembrano voler tener vivo nei discepoli il ricordo della sua vicinanza, della sua cura, del suo amore per loro. Solo così essi potranno nutrire fiducia anche nelle tribolazioni e vincere la paura con l’amore. Perché infatti è così importante per il discepolo non aver paura di chi gli può nuocere? Non solo perché avendo paura si vive in dipendenza da coloro che ci vogliono fare del male e si accresce il loro potere su di noi, ma soprattutto perché, se si ha paura dell’altro, ci si impedisce di amarlo. L’inviato del Signore, temendo colui che lo perseguita, si sottrae alla testimonianza del Cristo che può cambiare la realtà dell’altro, il suo odio, amandolo. Come annunciare la buona notizia del van-gelo se ho paura dell’altro? Come predicare la conversione, se mi mostro paralizzato dalla paura? Come può una chiesa che si nutre di paura e di diffidenza nei confronti del mondo, annunciare al mondo la gioiosa notizia della salvezza? Il vangelo chiede ai cri-stiani e alle chiese nella storia di creare rapporti di prossimità e di fiducia anche con i nemici, anche con chi è apertamente ostile.
Comandando ai discepoli di «annunciare dalle terrazze » ciò che egli ha detto, insegnato e consegnato loro nel nascondimento (Mt 10,27), Gesù chiede ai cristiani e alle chiese il coraggio della parola, la parresia, la franchezza e l’audacia dell’annuncio evangelico. Ciò che si oppone alla parresia è la paura che intacca la libertà del cristiano e lo porta a muoversi e ad agire obbedendo a logiche di convenienza, a logiche ‘politiche’, a dire e a non dire a seconda delle circostanze, a usare le parole in modo camaleontico. Il rischio terribile per il cristiano è quello di vergognarsi del vangelo (cfr. Rm 1,16): «Chi si sarà vergognato di me e delle mie parole… anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo» (Mc 8,38).
Dice il passo di Mt 10,29: «Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro (lett. «senza il Padre vostro»)». Dietrich Bonhoeffer ha scritto, commentando queste parole: «Certamente, non tutto quello che accade è semplicemente “volontà di Dio”. Ma alla fine comunque nulla accade “senza che Dio lo voglia” (Mt 10,29); attraverso ogni evento cioè, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio». Questa fiducia nella presenza di Dio anche nel non-di-vino, nell’enigmatico, nelle sofferenze sopportate per il vangelo, dice la sua paternità fedele nei nostri confronti e sconfigge la paura. Aiuta a non scoraggiarsi nelle inevitabili tribolazioni.
Commento a cura di don Jesús Manuel García